F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA
MEMORIE DI GIUDA
PRIMO VOLUME
Seconda Edizione Italiana
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
SCHIARIMENTO.
Fabrizio, che raccolse i codici apocrifi del Nuovo Testamento, non conosceva questo, che fu ritrovato alla fine dell'ultimo secolo tra i papiri d'Ercolano.
Se la forma di questo codice ha qualche volta l'aria moderna, la colpa è mia, che ho voluto mettere alla portata dei miei contemporanei delle cose così vecchie.
P. D. G.
Parigi, gennaio, 1866.
MEMORIE DI GIUDA
I
Era il 15 del mese di Thisri, la sera della festa dei Tabernacoli, nel settimo anno del governo di Ponzio Pilato a Gerusalemme.
La città formicolava di forestieri accorsi da tutti gli angoli della Giudea, della Galilea, della Perea e dell'Idumea, sì dalle città greche e romane, che dalle rive del mare e dai confini del deserto. Il movimento raddoppiava da per tutto; la gioja scintillava nelle vie, sulle piazze, sopra le colline che circondano il promontorio della città, e rischiarava tutte le fisonomie.
La raccolta dell'uva era stata abbondante.
La si accalcava dunque sul ponte Xistus per venire da Sion al Tempio sopra il Moriah, e portare l'offerta a Iehovah.
È così facile il ringraziar Dio nella gioja - quando non lo si dimentica!
Ognuno s'affrettava, giacchè il sole segnava l'ora quinta, e bentosto il corno di montone avrebbe suonato sulle terrazze del tempio per annunziare che il sabato era per cominciare.
Una circostanza straordinaria aveva aumentato il concorso degli stranieri. La moglie del procuratore arrivava da Roma. Il governatore della Siria, Pomponius Flaccus, aveva lasciato Antiochia, ed era venuto1 a Ioppa incontro alla nipote di Tiberio. Pilato aveva ordinato che si preparassero delle feste al Circo in onore di Claudia sua moglie, e del governatore.
La città di Gerusalemme aveva inviato a Ioppa una deputazione a fine di accompagnare la nobile Romana. Pilato nondimeno, che doveva andarvi coi membri dell'aristocrazia e del sacerdozio Ebreo, all'ultima ora era caduto ammalato e li aveva lasciati partir soli. Ciò dava da parlare al popolo; a me ed al Sagan da riflettere. In conseguenza di ciò il solo punto di Gerusalemme che fosse nel silenzio e nella tranquillità, era questa vetta di Sion, ove s'ergevano le tre torri, ed il palazzo d'Erode steso al loro piede.
Eppure i viaggiatori2 arrivavano all'indomani!
In una camera al secondo piano del palazzo di Hannah quattro persone si trovavano riunite all'istessa ora; Hannah ed io, sadducei; Moab, esseniano; Menahem, l'ultimo dei figli di Giuda e di Gamala. Attendevamo Jesu Bar Abbas, erodiano, e Justus, il fratello della moglie di Gamaliele, fariseo, figlio di Simeone il rettore del gran collegio, figlio egli stesso del famoso Hillel.
Nessuno di noi parlava.
Hannah, sotto sembianza di meditare, sonnecchiava.
Moab, sotto sembianza di pregare, accocolato in un angolo digeriva non so quale disgustoso intingolo di cavallette che aveva inghiottito qualche ora avanti, e che faceva passare sopra la sua faccia tutti i colori dell'arcobaleno.
Menahem calmava la sua impazienza di andar a vedere le donne di Sion alla fontana di Ezechiele, passeggiando pesantemente sopra i quadrelli di granito della sala del Sagan, come se avesse camminato su i sentieri da camelli della Galilea, e faceva levare in soprassalto di tanto in tanto l'ex-gran sacerdote.
In quanto a me, io era in piedi, vicino ad una finestra dirimpetto al tempio, guardando il sole che, discendendo dietro al Moriah, lo spolverava di scintille dorate; e pensavo a Maria.
Eppure, noi ci eravamo riuniti colà per una ragione terribile.
Ma l'uomo non è mai così spensierato come negli istanti in cui il suo destino bilica sopra un abisso. Era colpa mia? Il cielo era così azzurro! Il Golgota, il monte degli Ulivi, il Gareb, il Bezetha si panneggiavano nel loro mantello violetto della sera. Quella montagna di marmo e d'oro che si chiama Moriah, civettava così fastosamente! Il popolo rideva sì forte dalla strada! Il palombo gemeva sì dolcemente nel cielo! Il vento autunnale, ancora sì caldo, accarezzava con tanta grazia il dattero, il sicomoro, l'arancio, l'aloe, l'ulivo, il velo delle donne, le bianche nuvolette - che non dovevano esser altro che le ali dei cherubini di Dio, - ch'e' mi sembrava impossibile di levare lo sguardo da quella festa serena e raggiante, per seppellirlo nel sangue.
Menahem mi venne vicino, e mettendo fuori alla finestra la sua testa abbronzata sclamò:
- Ma non vengono dunque? non vengono?
- Quel galuppo di Bar Abbas ha i calli ai piedi, risposi tranquillamente io.
- Gli è che fra un'ora le porte della città saranno chiuse, riprese Menahem.
- Saresti tu invitato a cena da Pilato?
- No, ma restar fuori, sotto l'aria della notte e la rugiada del mattino....
- Raffreddarsi questa notte, quando si deve esser crocifissi domani sera....
- Domani è sabato, rispose Menahem senza scomporsi.
- Dopo dimani dunque.
- Tu credi che la finirà così?
- Diamine! Tutto dipende da voi.
Hannah mi chiamò.
Menahem restò a riflettere, il dosso appoggiato ad un angolo della finestra, la testa alta, lo sguardo perduto nel cielo. Lo additai ad Hannah che crollò le spalle.
Quella pietra pomice non si commoveva per nulla.
Menahem aveva allora l'età mia: non ancora ventitrè anni. Superava la statura ordinaria degli uomini della Siria, solido come la torre Ippiana. Il sole che tramontava, rischiarando la metà del suo viso, dava dei riflessi dorati alla sua pelle abbronzata. Il suo naso leggermente curvo, le labbra rosee e carnose, i denti bianchi come quelli dei carnivori del deserto, la fronte annegata sotto una foresta di capelli neri come quelli di Giuditta, separati in sul cocuzzolo, alla moda dei Galilei, il suo collo alto, rotondo, liscio come una colonna di porfido, tutto indicava in lui il coraggio, la forza, la volontà e l'amore. Io ammiravo quella figura mezza nell'ombra, e mezza immersa nella luce, quello sguardo che scrutava le profondità. Menahem portava una tonaca color vino, legata al fianco con una ciarpa bianca, e da cui usciva una spada ad impugnatura d'oro, più corta di quelle usate dai Romani. Un mantello nero copriva tutta la persona fino alle ginocchia.
- Eh! diss'io alla fine, torcendo gli occhi da lui, al postutto, e' sarà un pasto reale pei cani della Voragine dei cadaveri.
In quel momento, una voce stridula e dei passi rumorosi si fecero udire alla porta della strada prima, e ben tosto nelle scale e nell'anticamera. Poi la porta s'aprì e Bar Abbas, seguito da Justus, entrò trionfalmente.
- Non è colpa mia, sagan - miagolò egli - non è mia colpa, così Satana mi faccia gran sacerdote! se siamo in ritardo. È una storia graziosa, e ve la racconto come la sta.
Là dove Bar Abbas entrava, entrava il rumore. In ogni sito ove egli si presentava, tutti erano intorno a lui a festeggiarlo. Egli cominciava per far ridere, si finiva col bastonarlo. Le brighe seguivano i suoi passi. Se un giorno non riceveva delle busse, la sera era di un umore da appiccarsi per la tristezza. Per consolarsi, si ubbriacava.
La sua persona andava tutta di traverso. La parte sinistra del suo corpo spingeva avanti ed in alto la diritta: di maniera che i suoi occhi correvano verso le tempie, la bocca verso l'orecchio, il naso, il mento, tutto andava dall'oriente al ponente. Un colpo di cesto di un gladiatore, ricevuto in una rissa, aveva causata questa deviazione sopra la sua faccia. Dei denti, non si parlava più. Una barba grigia, dei capelli grigi, facevano ombra al suo naso rosso, venato d'azzurro, gremito di porri neri e velluto. Era piccolo, membruto e leggermente claudicante.
Bar Abbas aveva servito nelle legioni Romane per vent'anni, a piedi ed a cavallo, poi era ritornato a Gerusalemme, presso sua moglie, la quale, credendolo morto dieci volte, se n'era consolata venti. Nessuno avrebbe potuto dire a che Dio egli credesse, se questo disgraziato pagano non si fosse affrettato di mostrare, dalle sei del mattino alle sei della sera, che adorava Bacco e corteggiava la Dea Stercuzia. Nessuno poi gli aveva mai veduto un mantello o una tonaca che non fossero a pezzi.
Un uomo simile, nato nella Perea, non poteva che arruolarsi fra gli Erodiani e divenire uno dei loro capi.
Entrando, Bar Abbas pestò i piedi nudi di Moab, diede una spinta a Menahem, allungò la mano per staccare la borsa dalla mia cintura, rotolò sul sagan per sedersi presso di lui, e levandosi di un salto immerse il capo nello stomaco di Justus. Aveva già brancolato dovunque, nei capelli di Moab, sul mantello di Menahem, nelle tasche del sagan, sul tavolo per prendere una carta, sopra un armadio per volgere una chiave nella sua toppa. Finalmente sembrò equilibrarsi in mezzo del salone, e dopo aver sbadigliato, com'uomo che ha fame, e fatto scoppiettar la lingua, com'uomo che ha sete - del resto fame e sete aveva perpetuamente - gridò con voce acuta:
- In fede mia, vo' a raccontarvela. Calza così bene all'affare come un letto a dei sposi novelli.
- Fa d'esser corto, sopratutto, disse il sagan.
- Come sempre, o sagan. Sì, m'ero incontrato con Justus sotto il porticato d'Erode ed ero andato con lui al Tempio per portare, come gli altri, la mia offerta al Signore. Io volevo essere splendido, ed offrire un giovine toro. M'avvicino, nel mercato, ad un mercante idumeo, e gliene domando il prezzo. - Venti sicli (100 lire), mi dice egli. - L'hai dunque rubato, gli rispondo io, per vendere un animale così nobile ad un prezzo così vile? venti sicli? è regalato. - Mi scusi, grida il mercante, venti sicli? ho detto venticinque. - Ah! così va bene, rispondo io, e metto la mano nella tasca della tonaca a diritta. Cerco e ricerco, non avevo i venticinque sicli. - Bene, dice Justus, offri dunque un montone. - È vero, dico a me stesso, un montone l'è proprio un'offerta da re! E mi volgo ad un pastore dei monti di Moab che ne aveva in vendita uno di stupendo. - Che prezzo domandi di questa bestia? - Venti denari, capitano, risponde il montanaro. - Vergogna! un montone che ha delle corna da far morire di rabbia Mosè? che ha la lana soffice come i mustacchi del rettore Simeone? Le bestie sono dunque in abbondanza nel tuo paese eh? - E pongo la mano nella tasca sinistra. Non avevo i venti denari. - Va là, disse Justus, offri un capriolo. - Bravo, dico io, un capriolo è ciò che mi va. Io amo il capriolo: perchè il Signore sarebbe più schifiltoso che non mi sono io, vecchio legionario di Augusto e di Tiberio? - Sbircio in un angolo un uomo di Samaria che aveva un superbo capriolo bianco con delle macchie scure e un muso rosa come una vergine del Tempio, degli occhi teneri e velati da una lagrima. Lo si sarebbe mangiato di baci - cotto in punto, e bagnato d'una rugiada di acqua ed olio con un ramo di rosmarino. Non se ne domanda che tre denari (due lire e mezza). Cavo la borsa dalla cintura: i tre denari non c'erano più. - Senti, dice Justus, un colombo è ciò che ti va bene. Comprane uno e finiamola. - Ma l'è precisamente quello che pensavo io fino da questa mattina, rispondo. Un colombo bianco come le ali d'un cherubino.... Sagan, hanno le ali bianche, i cherubini? Ben devi saperlo, tu. Mi decido dunque pel colombo. Non costa che un mezzo denaro. Guardo, frugo, rifrugo in tutte le mie tasche; poi stendo la mano al mio amico Justus, e gli dico: prestami un mezzo denaro. Ah! se aveste veduto che faccia m'ha fatto! Si sarebbe detto che gli avessi domandato un dente.
- Gli è che, ripetè Justus, te ne ho prestati tanti di sicli, denari e mezzi denari....
- Meglio, dico io, vai a ridomandarmeli mo! Finalmente, gettando un sospiro da rovesciare la torre Mariamna, Justus mi pone in mano la moneta che gli ho chiesta. Volete che ve lo dica? non avevo mangiato nulla fino da jeri, e non avevo bevuto niente, all'infuori di alcuni sorsi d'acqua della fontana di Salomone. Il Signore, lui, aveva ricevuto un sì gran numero di bestie d'ogni specie, che appena appena avrebbe più accettato la nobile testa del gran sacerdote Caifa. Mi decidevo dunque a bere il mio colombo, e ponevo il mezzo denaro in tasca, allorchè delle grandi grida si fanno udire dalla parte della porta di Bronzo. Un tafferuglio nella città di Gerusalemme senza di me! dico io: sono rubato! E corro. Era della bordaglia, che avendo trovato una giovine donna nel sobborgo di Besetha, in flagrante delitto d'adulterio con un soldato legionario Romano, la conduceva dinanzi il Sanhedrin perchè la fosse condannata ad esser lapidata.
Moab alzò la testa, che aveva tenuta fino allora appoggiata sulle ginocchia.
- La donna era giovine e bella ancora, continuò Bar Abbas, malgrado lo strazio della miseria che si scorgeva nei suoi tratti e nei suoi vestiti. Io la conosceva già. È di Gerico e si chiama Lia. Suo marito essendosi riunito alla setta degli Esseniani l'ha abbandonata da due anni insieme col suo bambino. Ella vive pettinando lana. Probabilmente il lavoro le era mancato. Gli scribi ed i farisei, che erano nella corte dei Gentili, e le guardie del Tempio, si affollavano intorno al gruppo che trascinava quella donna scapigliata, affogata nelle lagrime e gridante: Oh il mio povero figlio, il mio povero figlio! - To', dice allora un levita: se andassimo a vedere cosa ne dice il Rabbì di Galilea che predica lì abbasso, presso il pozzo di Salomone? - Sì, sì, rispondono in coro tutti i parassiti del Tempio, conduciamola dal Rabbì di Galilea. - Fino dal mattino questo Rabbì era andato di corte in corte, e di portico in portico, facendo capannelli intorno a sè ed indirizzandosi al popolo. Aveva provocato ed irritato i farisei mettendoli in ridicolo e trovandoli in fallo. Aveva parlato contro il Sabato, contro il lavarsi le mani, contro le pratiche esterne del culto: e che so io! di tutto infine. Il popolo diceva: Ma vediamo dunque, questo Rabbì non sarebbe egli un pochino profeta, un bricciolo di messia? Ed egli non avea risposto nè sì, nè no, ma aveva lasciato andare ora una parabola, ora un tale arruffamento di parole, che Satana strangolerebbe chi ne avesse compreso una sillaba. I farisei credevano ora di prenderlo in trappola. La legge di Mosè è chiara come la fontana di Siloam. Si spinge dunque la donna dalla parte ove era il Rabbì, e tutti si affollano per vedere ed intendere. Il caso era grave. La risposta doveva esser precisa. Pilato se ne ride dell'adulterio, che per lui non è nè un delitto nè un peccato. Ma il Rabbì cosa risponderà? Se condanna la donna, si disgusta con Pilato; se l'assolve, si abbaruffa con Mosè. Egli li lasciò venire. - Rabbì, Rabbì, gli si grida da ogni parte, ecco una donna che abbiamo presa sul fatto stesso d'adulterio. È maritata, tutti lo sanno, ed ella stessa lo confessa. - Hum, brontolò il Rabbì senza alzar la testa ed avendo l'aria di continuare a tracciare dei rabeschi sulla sabbia della corte. - Maestro, gridava disperata la povera donna; avevo fame, il mio bambino aveva fame, eravamo digiuni da due giorni. Non una bricciola di pane, non un denaro, il focolare era freddo. Il Rabbì levò gli occhi sopra la donna, e dopo averla considerata per alcuni istanti: - Sì, eh! mormorò continuando a tracciare sgorbi nella polvere. - La legge di Mosè è chiara, osservò Gamaliele che aveva seguito la folla. - Cosa ci comanda codesta legge? domandò con calma il Rabbì. - Di ucciderla a colpi di pietra, si gridò da ogni parte.
Moab che aveva ascoltato questo racconto di Bar Abbas, a questo punto si levò d'un salto, come se avesse camminato sopra una vipera. Era spaventevolmento pallido, ma non disse una parola. Noi lo guardammo, sorpresi. Bar Abbas continuò:
- La povera donna non cessava dal gridare: grazia, grazia! Avevo fame, il mio ragazzo aveva fame; non trovavo più lavoro, non avevo credito, non mi si faceva carità. - Qual è la legge? disse ancora il Rabbì volgendosi a Gamaliele. - Tu che insegni tante cose, rispose il maestro del collegio, dovresti pur conoscerla. - La tua opinione dunque è che ella sia lapidata? insistè il Rabbì. - È la legge, risponde Gamaliele. - Bene allora, grida il Galileo levandosi e dominando col suo sguardo quell'assemblea curiosa, e piena di ansietà. Bene! replica egli, colui in fra di voi che si crede senza peccato le getti la prima pietra.
Questa frase fu come uno scongiuro magico. Tutta la folla restò sorpresa per un istante, non comprendendo nè indovinandone il senso; poi ognuno s'allontanò in silenzio, con la testa bassa, e gli occhi pensierosi. Il Rabbì si avvicina allora alla donna che era caduta quasi svenuta nella polvere, le pone in mano di nascosto una moneta, la sola forse che possedeva, e le dice con soave sorriso: Va, povera donna, va e non peccare più.
Vedendolo levarsi dal posto ove stava seduto, io aveva biascicato: To'! ma gli è mio nipote codesto Rabbì!
Egli non mi aveva forse udito. Mi sono allora avvicinato. Voi lo comprendete. Se io mi potessi attirare un uomo di simile levatura nel nostro progetto, pensava io.... - Nipote, gli dissi, non riconosci più il marito della sorella di tua madre? - Il Rabbì levò lentamente il capo, e fissò il suo sguardo su me. Questo sguardo si rischiarò, si dilatò, divenne infiammato. E' fece un passo indietro.... e mi disse: Vattene, zio!
- Ma no, ma no, interruppe Justus, egli ti ha detto: Indietro, infame, indietro. - E la sua voce, sì dolce un momento prima, rintronava nel Tempio.
- Sì, sì, forse lo ha detto, continuò Bar Abbas. Io lo conosco; quel giovine è sempre stato misantropo e poco rispettoso verso i suoi parenti. Gli è per questo che io non ci feci attenzione, ed ostinato nel mio progetto di metterlo a parte delle nostre idee, gli insinuai a voce bassa una parola, domandandogli di unirsi a noi per liberare Israele dalla contaminazione dei Gentili. Ah sì! egli continuava sempre a gridare: Va....
- Indietro, infame, indietro, ripetè Justus.
- Poichè ti sta tanto a cuore, sia pure, aggiunse Bar Abbas. Allora siamo usciti dal Tempio per la porta Dorata, ed eccoci un po' in ritardo, temo.
Hannah aveva ascoltato questo racconto con pazienza, sclamando soltanto: «Ancora quest'uomo!» allorchè Bar Abbas aveva nominato il Rabbì di Galilea. Ma io l'aveva seguito con interesse; Menahem, con indifferenza. Moab sembrava annientato. Alla fine, Hannah, sollevandosi a mezzo corpo, disse:
- Non abbiamo tempo da perdere. Veniamo alla nostra faccenda. Non c'è nulla da cangiare al piano già stabilito. Ecco ora le istruzioni definitive che voi porterete al Consiglio dei Trentacinque, aggiunse egli presentando a Menahem uno scritto. Dimani essendo Sabato, l'esplosione della sommossa è aggiornata a dopo dimani. Se qualche cosa dovrà essere modificata, lo saprete qui, domani, all'ora quarta.
- Spieghiamoci bene, disse Menahem. Dopo dimani entreremo nella città da tre porte, in tre colonne, senza bandiera e senza armi per non dare sospetto, e gridando: Abbasso l'acquedotto, abbasso l'acquedotto! Rispetto per l'offerta, che è la moneta di Dio e non del popolo o di Cesare.
- Va bene, rispose Hannah.
- Ci presenteremo dinanzi al Pretorio, e domanderemo di veder Pilato....
- -Va bene, disse ancora Hannah.
- Allora, quando Pilato uscirà e domanderà che una commissione vada a parlargli, Moab ed io esciremo dalle file del popolo e gli andremo incontro.
- Sì, soggiunse Hannah.
- Presenteremo una carta a Pilato. Egli la prenderà, e, naturalmente, l'aprirà e incomincierà a leggerla; allora Moab da una parte ed io dall'altra ci slancieremo sopra di lui e lo uccideremo.
- Io non lo ucciderò, mormorò Moab lentamente, nel mentre si alzava: io non ucciderò quell'uomo.
- Come! dimandò Hannah, inchiodando sopra Moab i suoi occhi grigio-giallastri spalancati.
- No, ripetè Moab con fermezza, io non ucciderò mai quell'uomo.
Hannah si mordeva coi denti gialli le labbra grige, e non potendo divenir pallido, diventava livido.
- Spieghiamoci, disse egli alla fine con voce tremante dalla collera. I cinque principali partiti dell'antico regno d'Erode il Grande hanno o non hanno eglino nominato quaranta delegati perchè s'intendano sopra il mezzo di cacciare lo straniero dal suolo dei loro padri e del loro Dio?
- Sì, rispose Moab.
- I quaranta delegati non hanno essi scelto un consiglio di cinque dei loro capi, e non sono io il presidente di questo consiglio?
- Sì, è vero.
- Gli Esseniani non ti hanno eglino delegato come loro rappresentante, tu, Moab Bar Samuele di Bethabara? e non hai tu assistito alle nostre conferenze, discusso e approvato i nostri piani?
- È vero, sclamò Moab.
- Il consiglio ha deciso di cominciare dal disfarsi di Pilato, per mettere lo spavento e la confusione fra i Romani, e per poi poterli distruggere più facilmente al grido di Dio e patria!
- Io non nego nulla di tutto questo, disse Moab. I nostri cinque nomi soli sono stati posti nell'urna - poichè non si poteva comunicare un simile secreto a quaranta persone - ed il mio è uscito pel primo, poi quello di Menahem. Sì, è vero. Tuttavia io non ucciderò Pilato. Ella nol vuole.
- Ella, sclamò il sagan, chi è dunque codest'ella?
- Ella, replicò Moab.
- Ma finalmente chi è dessa? è tua madre?
- No.
- Tua sorella?
- No.
- Tua moglie?
- No.
- È la tua ganza, la tua regina, la tua fidanzata? chi è dunque codesta donna?
- No, no, no. È lei. È tutto questo, meglio, più di tutto questo. È lei.
- Quest'uomo è un pazzo o un vile, gridò il sagan.
- No, riprese Moab con calma, comandatemi di uccidere il gran Sacerdote, il tetrarca, il rettore, il governatore della Siria, lo stesso Cesare, ed io mi recherò a Roma immediatamente ed andrò ad ucciderlo. Ma Pilato, no. Ella nol vuole!
- Vediamo un po', disse Menahem inframmettendosi; codesto è un mistero che non sembra troppo vicino a schiarirsi; il Shofa del tempio sarà in breve suonato, quindi le porte saranno chiuse, ed i nostri fratelli attendono nella valle di Josafat le ultime istruzioni. Se Moab dà indietro, io resto sempre pronto, e credo che solo io basterò a compire l'affare. Dio mi ha dato un braccio, che i miei nemici, siano i tiranni del nostro paese o le bestie feroci del deserto, hanno appreso a temere.
- Prendo io il posto di Moab, gridai io allora.
- No, no, interruppe il sagan. Non è di ciò che si tratta. Non è questione di un braccio di più o di meno, d'un uomo piuttosto che d'un altro, per compiere questa santa opera. Si tratta di un giuramento. Ebbene, voi avete tutti giurato sull'Efod, che coloro cui la sorte additasse, compirebbero il sacrifizio del tiranno della Giudea. Ora uno di quegli eletti dalla sorte ci dice: Io non voglio più mischiarmene perchè c'è una donna che non lo vuole. Che mercato facciamo noi dunque di Dio, del nostro giuramento, della nostra parola, del nostro onore? Che sicurezza abbiam noi pel secreto confidato ad un uomo che pone un Ella al disopra del suo dovere?
- Basta così, gridò Moab, avanzandosi verso il tavolo del sagan. Dacchè sorge un sospetto, la questione è sciolta. Era il mio destino che lottava contro il mio dovere. Voi intervenite in nome di Dio; non ho più nulla a rispondere. Ucciderò Pilato, e poi mi ucciderò anch'io sopra il suo cadavere. Addio. Infrangerò il precetto della mia setta che abborre dal sangue3; ma espierò il mio fallo uccidendo la mia anima, che era sua, ed il mio corpo, che era vostro. Vado a raggiungere i nostri fratelli.
E ciò dicendo, Moab, il discepolo di Battista, alzò la testa bruciata dal sole del deserto, fiera come le creste del Libano, girò su noi il suo sguardo azzurro come il cielo, aggiustò intorno al corpo la sua tonaca di pel di cammello, strinse la sua cintura di cuoio, scosse la capigliatura nera e increspata come quella di Sansone, ed uscì.
La sua partenza fu seguita da un momento di silenzio triste e doloroso.
Il sagan lo interuppe.
- Allora, tutto è inteso, diss'egli. Non c'è nulla da cangiare, nulla da aggiungere al piano stabilito. Se qualche nuovo incidente accade nella giornata di domani, domani a sera decideremo.
- Va bene, rispose Menahem. Ora corro alla casa di Josafat.
Egli uscì. E nello stesso momento il suono del corno di montone diede il segnale dalla collina del Tempio che principiava il sabato.
Bar Abbas aveva seguito Menahem, fermandosi nelle sale inferiori, e noi lo intendevamo abbaruffarsi coi servitori del sagan, che non lo facevano cenare a suo modo. Justus mi disse:
- Giuda, vai da Maria questa sera?
- Non so, risposi; ho bisogno di trovarmi solo con me stesso.
- Allora non andrò ad attenderti là.
- No.
- A domani dunque.
Il sole era tramontato dietro il Moriah, dietro Modin, nel mare di Joppa e di Tiro. Il silenzio era disceso sopra la città. Hannah, colle folte sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sopra i quadrelli di marmo del pavimento, tenendo afferrato fra le mani il suo caftan, taceva, meditava, - forse non pensava a nulla o meglio, era dietro a calcolare ciò che meglio gli conveniva: di marciare colla cospirazione, o di consegnare i cospiratori nelle mani di Pilato. Io pure taceva, profondamente colpito dalla storia della povera adultera - che mi sembrava certo dover essere la moglie di Moab, - e della creatura misteriosa che aveva una influenza sì potente sopra quell'uomo di marmo, dagli occhi d'aquila. Hannah alla fine mi domandò:
- Sai tu a cosa penso, Giuda?
- Perdinci, alle quattrocento concubine di Salomone.
- Domani arrivano la moglie di Pilato e il governatore della Siria....
- Bisogna forse assassinarli anch'essi?
- Pilato riceve quindi delle nuove coorti.
- Tanto meglio; più se ne ammazza oggi tanto di meno a combattere domani.
- Saremo schiacciati.
- Che monta? altri faranno la prova dopo di noi, e riesciranno forse.
- Hum! brontolò il sagan, egli è che a me importa molto poco che gli altri riescano o no: ma noi saremo esterminati senza dubbio.
- Avresti paura, principe mio?
- No; ma io non mi sono unito ai tuoi progetti per aver l'onore d'essere appeso ad un patibolo sul Golgota.
- Parli d'oro, Sagan, risposi io, ma è troppo tardi ora per indietreggiare. D'altronde tu devi arder di zelo pel Tempio, di cui un pagano saccheggia il tesoro sotto il pretesto di costruire un acquedotto per dar da bere a delle ciurmaglie che muoiono di sete. Poi, una occasione come questa non si presenta tutti i giorni. Ci sono cinquanta mila persone accalcate sopra le colline di Gerusalemme ed in Gerusalemme stessa, venute da tutte le parti della Siria, e che ci daranno aiuto senza fallo.
- Nondimeno, disse il sagan, se quella gente esitasse....
- Anzi tutti e' sarebbero decimati dalle armi dei Romani: ma è così che si alimenta l'odio dei popoli oppressi contro gli oppressori stranieri. Tu avrai, Sagan, un posto nella nostra storia, vicino al mio grande antenato Mattatia il Maccabeo.
- Credo piuttosto, che sarò considerato come un meschino plagiario del mio grand'avo Esaù...
Mezz'ora prima, la città brulicava di vita. Dacchè il Shofa era stato suonato dalle mura del Tempio, il cuore stesso della città aveva cessato di battere.
Il sabato pietrificava l'Ebreo.
Non più un rumore nelle strade, non più lumi alle finestre; il fumo sulle terrazze delle case, il fuoco nei focolari erano cessati. La creazione era ravvolta nel silenzio. Non era più permesso di uscire, di andare a cercar acqua, di cuocere il pane, di accendere il fuoco se si era intirizziti, di rimetter in piedi il ragazzo se cadeva per terra, di abbracciare la giovine moglie, o di accomodarla nel suo letto di dolori. Se la madre stava morendo, il figlio non poteva soccorrerla. Se il suo asino cadeva in un fosso, bisognava lasciarlo divorare dai leopardi e dagli sciacalli. Ciascuno doveva restare dove si trovava e nell'istessa posizione; nè bere nè mangiare. Se l'inimico attaccava, bisognava lasciarsi uccidere; e molte volte, fino a Giuda Maccabeo, i nostri antenati erano stati trucidati così. Era nei giorni di sabato che gli Ebrei avevano quasi sempre perdute le loro battaglie contro gli stranieri, i quali, attaccandoli quando non potevano difendersi, ne avevano facilmente ragione. Non si poteva in quel giorno nefasto abbandonare il campo, continuare un viaggio, mettersi al coperto da un sole omicida, dall'uragano o dalla folgore. Il suono del corno del Tempio cangiava l'uomo in istatua come la moglie di Loth. Eccetto che nel Tempio stesso, che solo continuava il suo traffico ordinario, che riceveva le offerte - doppie di quelle degli altri giorni, - che sacrificava le vittime, e bagnava col sangue le fiamme azzurrastre dei suoi altari: eccetto in questo Tempio - perchè non c'era mai riposo per questi sacri traffici - ovunque altrove, cessavano tutti i sintomi della vita.
Noi altri Sadducei ridevamo bene di tutto ciò, avendo la massima che il sabato è fatto per l'uomo, e non l'uomo pel sabato. Hillel e Gamaliele avevano bensì detto ch'era permesso di fare buone opere durante il sabato; ma i farisei restavano incrollabili. Di maniera che Gerusalemme, a quell'ora, sembrava una città di tombe, ove l'aria stessa era divenuta muta.
Cento mila persone respiravano senza far rumore.
Tutto ad un tratto, dalla parte della porta Giudiziaria e della porta Genath, udimmo un fremito sordo, come uno sciame di api svegliate da un calabrone. Alziamo il capo, tendiamo l'orecchio. Il susurro aumenta, avanza, diviene più distinto. Sentiamo le voci e come uno strepito d'armi. Vediamo, ad onta del sabato, tutte le finestre popolarsi di teste di curiosi. Poi una luce rossastra, come di torcie accese, rischiara il cielo, cui grossi nugoloni cominciavano ad oscurare; e ben tosto dalle nostre finestre vediamo un gruppo di soldati trascinare in mezzo a loro dei prigionieri. Il nostro cuore s'ingrossa. Il corteggio avanza sempre più nel foro e si dirige poi verso le alture di Sion, dalla parte della torre Faselo. Allora diamo indietro spaventati: riconosciamo i nostri complici, ed alla lor testa, legati con delle corde ed insanguinati, Menahem e Moab.
II
Durante il mio soggiorno a Roma, io aveva spesso inteso parlare della moglie del procuratore della Giudea, ma non l'aveva mai veduta. Claudia abitava Capri.
Ella era l'ultima figlia di quella Giulia figlia di Augusto, cui questi, dopo averla maritata a Tiberio, aveva esiliata, a causa delle sue dissolutezze. Giulia aveva avuto nell'esilio una figlia da un cavaliere Romano. Ma arrivata all'età di tredici anni ella l'aveva inviata al suo ex-marito Tiberio, il quale addobbava di giovani coppie l'isola di Capri, per rinverdire la sua caducità. Si conosce la storia «di quei piccoli bambini un po' vigorosi, ma ancora alla mammella, ch'egli abituava a giuocar fra le sue gambe, allorchè era al bagno, e che chiamava i suoi pesciolini.... Si raccontava che un cittadino Romano gli avesse legato un quadro di Parrhasius, ove Atalanta era rappresentata con Meleagro nell'istessa posizione di quei bambini con Tiberio. Questo quadro aveva il valore di un milione di sesterzi4».
Ora Claudia esercitava con Tiberio la parte di Atalanta.
Claudia era uno degli astri, ed uno dei delitti della corte di Cesare.
Due o tre anni dopo, Ponzio Pilato, spagnuolo, arrivava a Capri. Egli piacque a Tiberio, non si sa in quale maniera. Tiberio aveva tutti i capricci del vizio.
- Che posso io fare per soddisfarti? gli domandò un giorno il vecchio imperatore.
Pilato aveva veduto Claudia. Egli sapeva che funzione ella compiva alla corte imperiale. Malgrado ciò, la domandò in isposa. Tiberio acconsentì. La corte allora era a Baja. Tiberio ordinò che fossero condotti al tempio di Diana, nella sua stessa lettiga, assistette in persona al matrimonio, qual uno dei dieci testimonii richiesti dalla legge, e mise egli stesso la mano di Claudia in quella di Pilato. Il matrimonio compiuto una volta, Claudia, uscendo dal tempio, entrò nella lettiga imperiale; ma al momento che Pilato si disponeva a seguirla, Tiberio lo ritenne, e comandò agli otto schiavi liburniani di partire. Pilato tremò in tutte le sue membra. Tiberio allora tirò un papiro dal suo seno, glielo rimise, e si allontanò. Era l'ordine di recarsi a Gerusalemme in qualità di procuratore della Giudea. Sejano lo attese egli stesso per condurlo al mare, ove una bireme da guerra si dondolava nel porto, pronta a spiegare la vela.
Questo è ciò che si diceva: Dio vedeva forse qualche altra cosa. Scorsero sei anni. Giulia, la madre di Claudia, era morta. Tiberio era forse sazio della sua Atalanta. Pilato inviava dispacci sopra dispacci, che dipingevano quell'angolo della Siria da lui governato come una terra minata da sétte ribelli, sempre pronta alla rivolta5.
Claudia era perseguitata dall'amore di Sejano.
Essa domandò a Cesare di andare a raggiungere suo marito, e l'ottenne. Di più, egli così avaro, la colmò di regali: cavalli, schiavi, gioielli, denaro, e scrisse a Pomponius Flaccus - lo stesso che egli aveva nominato governatore della Siria, perchè avevano passato insieme a bere due giorni e due notti consecutive - di considerare Claudia come una sua parente, e di obbedirle ed onorarla come tale.
Il viaggio fu prospero.
Claudia non si fermò che pochi giorni a Rodi per riposarsi, poi andò a sbarcare a Joppa.
Pomponius Flaccus l'attendeva di già. Gl'inviati della città di Gerusalemme vi erano arrivati da due giorni.
Gionata, il secondo figlio di Hannah, era il capo di questa deputazione Ebrea.
Il sole si alzava dietro le alture di Efraim, e colorava di porpora la catena delle cime che si stende da Ramah al Carmelo, allorchè le sentinelle, dall'alto del picco intorno al quale si agglomera Joppa, diedero il segnale che indicava l'avvicinarsi della bireme imperiale.
Infatti, una galera a due file di remi, dalla carena dorata e dalle vele di porpora, si avanzava verso la riva, spinta da un dolce e fresco venticello.
Un grande movimento ebbe allor luogo sì nella città che sulla galera. La guarnigione, i soldati che accompagnavano Pomponius Flaccus, questi stesso in persona con una folla di gente componente la sua casa, discesero sulle rive del mare, preceduti dalla commissione di Gerusalemme, e seguiti da tutta la popolazione. Sopra la bireme, i marinai siciliani si affrettavano ad asciugare la rugiada della notte, a stendere i tappeti di Cartagine, e le schiave di Claudia si preparavano a ricever la loro padrona, che si era alzata e si disponeva a venire sul ponte.
Claudia sembrava incantata dalla vista di quella Joppa, alla quale Hiram aveva inviato il suo legno di cedro, di quel porto ove Giona s'era imbarcato per quel terribile viaggio che doveva finire in maniera così insolita e così fantastica; di quella distesa di sabbia, punteggiata da palme, da fichi, melagrani, posto avanzato in quella pianura di Sharon, che i libri sacri hanno profumata di rose; di quella distesa di colline, risplendenti di rose e d'ambra, che si stendevano dinanzi i suoi occhi, e che formano il paese di montagna della Giudea, di Beniamino e d'Efraim. Claudia restò a contemplare tutto ciò fino al momento in cui la bireme approdò e fu tirata sulla riva, e che i marinai appoggiarono alla prora una scalea in legno di cedro incrostata d'argento e di rame. Pomponius Flaccus s'affrettò allora a montare sulla bireme, seguito dalla commissione di Gerusalemme e ch'egli presentò a Claudia.
Gionata, bel giovane, le indirizzò un complimento da parte della nobiltà, della gente del tempio, e del popolo della nostra città.
Scendendo sulla spiaggia, Claudia fu salutata con un grido immenso dal popolo che vi si affollava.
La moglie di Pilato non ascese quella specie di cono intorno a cui, simile ad un grappolo d'uva, è piantata la città. Ella non aveva bisogno di riposo, e quindi la partenza per Ramah fu immediatamente decisa.
Tutto, del resto, era pronto.
Ventiquattro schiavi liburniani circondavano la lettiga, tutt'oro e porpora: otto per tappa. Un camello già bardato; due cavalli, uno di Selinunte e uno della Siria, scalpitavano sulla sabbia, rattenuti a briglia corta da schiavi nubiani. Claudia poteva così alternare di veicolo a suo piacere. Un nuvolo di cavalieri numerosi ed una mezza legione di guardie servivano di scorta.
Una pianura coperta da uno strato leggero di rosea sabbia, sovrapposta ad un altro di nero terriccio, si allargava dinanzi a loro, sparsa di villaggi, di rovine d'antiche città, e di tombe, reliquie della nostra vecchia storia e delle nostre disgrazie - ceneri di centinaia di generazioni d'uomini, Filistei, Ebrei, Macedoni, Romani. Più lungi, ove l'occhio non arrivava, Modin, che risuonava ancora del nome dei Maccabei, e da lato Gaza, Ascalon - ove nacque Erode il Grande - tutta quella regione che vide David abbattere il gigante, e Sansone prendere le volpi.
Claudia montò sul camello, e dietro a lei prese posto una schiava egiziana che teneva aperto un parasole per garantirla dai raggi del sole ancora vigoroso.
Traversarono dei giardini d'aranci e di cedri, ove la vite ed i fichi prosperano frammisti agli ulivi, ai mandorli, ai sicomori, alle palme. L'uva era matura, i pomidoro scarlatti si allineavano a spalliera, le mele della Siria rallegravano gli occhi col loro colore giallo o porpora, il mirto e la rosa selvatica profumavano l'aria. Lo sguardo si riposò sopra questi giardini fino a Beth Dagon - ove si trovano ancora i ruderi di un tempio dedicato a quella divinità marina dei Filistei, per la quale Goliath giurava, nel cui tempio Sansone, cieco ed avvilito, fu ucciso, e che fu rovesciato dall'arca del Signore allorchè i Filistei la misero nel suo tempio stesso, dopo aver vinto Hophni e Phineas, figli di Eli. Al di là di Beth Dagon il paese si allarga, e delle greggie immense di capre, di agnelli, di bufali e di camelli percorrono la pianura.
Il viaggio sembrava andar a genio di Claudia; e Gionata, che cavalcava alla sua sinistra, le rammentava tutte le tradizioni e le istorie della nostra patria, rammemorate dai siti che traversavano.
Ella era sorpresa delle gesta dei nostri padri, così differenti da quelle dei suoi antenati.
Si sostò, per pranzare, a Ramah, la patria di Samuele.
Tutto era stato previsto e preparato dagli ufficiali che Pilato aveva inviati lungo la strada. Si riposò alcune ore, giacchè il viaggio sul camello, che Claudia provava per la prima volta, l'aveva affaticata, tanto come il tramestio del vascello sul mare. All'ora nona, quando il sole tramontava dalla parte di Ascalon, ella montò a cavallo, e sul cader della notte, la piccola tribù cosmopolita di quella bella patrizia romana si fermò ai piedi della collina di Modin, - collina in confronto delle montagne della Giudea che si alzano dietro di essa, montagna in confronto alla valle che chiude.
- Noi calpestiamo coi nostri piedi sito più sacro, ed il più fatale della nostra storia politica, disse Gionata a Claudia.
- Quale? domandò ella.
- Quello che fu consacrato dalle gesta di Mattatia e dei suoi cinque figli, i Maccabei.
- Conosco questa storia, rispose Claudia.
Di fatti ella aveva spesso sentito parlare degli Ebrei, alla corte di Tiberio, allorchè questi li fece tutti cacciare da Roma, e rinchiudere in luoghi malsani, sotto pena, se ritornavano, della schiavitù. Essa ne aveva inteso parlare in seguito dalle lettere di Pilato, che dipingeva con tetri colori quel popolo che non sapendo essere indipendente non si rassegnava a servire6 e aveva delle costumanze strane: il sabato, la circoncisione, l'orrore degli stranieri e di una quantità di oggetti che considerava come contaminanti; di quel popolo, infine, che adorava un solo Dio, con riti altrettanto atroci che quelli degli infedeli. Claudia si preoccupava di questi tumulti continui, di quelle sètte, di quei messia che si attendevano, ed interrogava ora Trasilio, l'astrologo di Tiberio, ora Seleuco, il grammatico che Tiberio fece prima esiliare dalla corte e poi uccidere, perchè s'informava presso gli schiavi del libro che Cesare aveva letto nella giornata.
Claudia aveva forse un interesse palpitante a conoscere a fondo il carattere e il temperamento del popolo Ebreo.
All'indomani, nondimeno, siccome Modin non è che a tre ore di distanza da Gerusalemme, mentre la scorta a piedi e l'immenso seguito di bagagli e di bestie che accompagnava Claudia si metteva in viaggio, essa, seguita da Flaccus, da Gionata e dalla truppa numida, arrivando alla collina montò a cavallo per visitare il sepolcro di Mattatia. Gionata - dall'alto di quel punto ove si abbraccia la vista magnifica della larga pianura, della fiera vallata d'Ascalon e del lontano mare senza navigatori - indicò a Claudia, rimpetto ad essa, la montagna rude, triste, erta, ove Mattatia si rifugiò coi suoi figli, dopo aver ucciso gli idolatri e rovesciato il simulacro di Giove nel tempio Madin; al disotto, a sinistra, coronata da nuvole, l'alta cima di Beth Horon, ove Giuda Maccabeo distrusse Seron, altro generale d'Antioco - uno contro venti - come aveva già rotto ed ucciso Apollonius, come doveva distruggere Lysias a Emmaus nel piano che si allunga dinanzi ad essi, e Nicanor a Adassa, che si scorge quattro miglia più lungi.
- Battaglie di giganti, gridò Gionata, suolo bagnato da sangue eroico, che illustrò la nazione, la vendicò dei passati oltraggi, la creò a nuova vita, ed alla fine la uccise.
- Come, la uccise? domandò Claudia.
- Ahimè! sì, rispose tristemente Gionata. Quando i Maccabei rovesciarono l'altare pagano a Modin, Israele non esisteva più che nei nostri libri sacri. La fede israelita era morta nell'indifferenza del popolo, per le leggi dei conquistatori stranieri. Il Tempio era profanato, la lettura delle nostre vecchie leggi proibita, la circoncisione posta in dimenticanza, l'osservanza del Sabato impedita sotto pena di morte; la successione dei grandi Sacerdoti era interrotta. Onias, il vero pontefice, aveva emigrato fra gli Ebrei che ormai popolavano Memfi e le rive del Nilo. In mezzo a mille di essi, uno solo forse sapeva leggere l'ebraico. Il caldeo, il siriaco, il greco avevano surrogato la lingua nella quale Mosè aveva comandato in nome del Signore, David aveva cantato e Salomone insegnato. Ma i Maccabei erano più uomini di mondo, politici, soldati, oratori, amministratori, che preti. Essi discendevano dagli esiliati di Babilonia, non già da quel vecchio stipite dell'aristocrazia Ebrea che era restata fedele ai costumi, alle leggi, alle tradizioni, agli usi e all'organizzazione sociale dei nostri padri. Con essi arrivò al potere il partito della nazionalità politica e della riforma. Essi accumularono il doppio potere civile e religioso. Sostituirono la tradizione orale alla legge scritta di Mosè; la teoria personale e variabile - legge vivente del gran Collegio - al patto del grande legislatore. Provocarono e favorirono forse lo scisma, e furono causa che il popolo ebreo si divise in Esseniani, Sadducei e Farisei, laddove Mosè aveva stabilito una fede, un rito, un'arca, un tabernacolo, un patto (ai nostri giorni si direbbe una carta) per tutto il popolo d'Israele. All'unità del sacerdozio di Mosè, si rizzò di fronte lo scisma, che trionfò nel governo civile e s'impose alla credenza religiosa. Mosè, David, Salomone, i giudici che avevano fatto uscire dall'Egitto il popolo Ebreo, al tempo dei Maccabei sarebbero stati come stranieri nel gran Collegio, nella sinagoga, nel sanhedrin, nella scuola di Hillel e Shammai, per quei grandi principi-sacerdoti, pei Samaritani, pegli Ebrei infine. Mosè ormai era divenuto una memoria, una vecchia gloria nazionale, e nulla più. Quella massa di bronzo, rozza, ma compatta e solida, che Mosè aveva fusa e malleata a prova dell'urto di tutti i popoli che circondavano Israele, fu rotta dai Maccabei a fine di meglio lisciarla ed appropriarla alla moda del giorno. E fin d'allora la condanna del popolo Ebreo fu pronunziata. Noi non siamo più noi stessi; noi siamo ora un popolo come un altro a disposizione di tutti i popoli! Volendo creare una nazione, i Maccabei hanno creato uno Stato. Il carattere politico, così mondato, si era sviluppato: l'anima della nazione era franta. A Modin aveva preso principio la reazione contro lo straniero, ma in favore di un solo partito della nazione che esagerò il pericolo, e non comprese l'essenza del carattere del popolo Ebreo. Il rabbì prese il posto di Dio.
Ciò dicendo, sempre camminando, volgendosi ora a Claudia, ora a Flaccus, Gionata entrò il primo nelle strette e nelle gole delle montagne ove principia l'ascesa verso Gerusalemme.
Non c'era strada. L'olivo, il lauro, il mirto, il mandorlo, la ginestra dal fiore d'oro, il frumento, crescono ancora in mezzo a quei gradini di macigno; ma a misura che si ascendeva, il bianco-spino, il leccio, la quercia nana, l'erica, la macchia, il picco nudo delle rocce, il sasso grigio o rossastro, divenivano più frequenti. Seguivano il letto dei torrenti. Non s'incontrava che dei guardiani di capre, dei poveri contadini a piedi, o un rabbì sul suo asino. Un grande silenzio ovunque. All'occidente, volgendosi, si scorgeva ancora il mare; di fronte, alture sopra alture; ai fianchi dei precipizii spaventevoli. Essi non si fermarono punto a Kirjath Jearim, ove i Daniti di Zorah e di Eshtaol piantarono le loro tende avanti di ascendere alla casa di Micah, sopra il monte Efraim, per rubare l'ephod, il teraphim e le imagini di metallo. Là pure, era restata per vent'anni, presso Eleazar, l'arca del Signore dopo che era stata perduta dagli Israeliti, presa dai Filistei, posta prima nel Tempio di Dagon a Asdhot e poi venduta.
All'undecima ora, essi poterono vedere il bel villaggio di Emmaus - a due miglia da Gerusalemme - in mezzo ai giardini verdi, brillanti, profumati, ove il pampino porporino ed il grappolo dorato aspirano all'ombra dell'ulivo, e si arrampicano intorno i fichi. Questa vegetazione, in questo sito, è un fuggevole bacio della natura che diviene sempre più aspra, nuda, dirupata a misura che si ascende verso l'altipiano del monte degli Ulivi e di Sion.
Claudia e Flaccus raggiunsero qui quella parte della loro scorta che li aveva preceduti, e passarono oltre camminando frettolosamente in mezzo a rocce bianche, splendenti, frante e bruciate, per una strada fatta tutta a zig-zag. Il sole del mezzogiorno li opprimeva.
Scorsero finalmente la lunga stesa di muraglie che circonda Gerusalemme, le sue torri, il tempio, i suoi palazzi, il boschetto di datteri che ombreggia la porta dei Pesci, e a diritta il monte degli Olivi.
In quel momento, le vedette che stavano alla porta di Genath, la quale dà nei giardini del palazzo d'Erode, rientrarono per annunziare a Pilato che i viaggiatori erano in vista e si dirigevano verso la porta dei Pesci.
Pilato attendeva questi viaggiatori, o meglio questa viaggiatrice, da sette anni.
Egli aveva stabilito la sua dimora nella torre Mariamna; ma fino dall'indomani del suo arrivo a Gerusalemme, gli appartamenti detti di Cesare e di Mariamna nel palazzo d'Erode, erano pronti a ricevere questa ospite in ritardo. Non era passato un sol giorno, durante tutto questo tempo, senza che Pilato venisse a passeggiare solo e per molto tempo in questa abitazione splendida, ma silenziosa e fredda. Alla fine questo lungo desiderio era per essere soddisfatto, questa sete inestinguibile per essere calmata.
Quando il suo liberto spagnuolo venne ad annunziargli che sua moglie toccava le mura di Gerusalemme, Pilato era terribilmente occupato. Egli aveva ascoltato il rapporto che gli faceva il centurione Cneus Priscus - fratello di quel Cesonius Priscus che era l'intendente delle voluttà di Tiberio - sopra l'arresto dei cospiratori della notte precedente, ed aveva incominciato ad interrogarli. Pilato interruppe sul momento questo interrogatorio, saltò sopra un cavallo che gli si teneva pronto nella corte, e si slanciò di galoppo, seguito da quegli otto schiavi nubiani, la cui faccia, le armi, ed i cavalli erano color della notte, e la cui fronte era cinta da una ciarpa rossa color dell'aurora, che componevano la sua unica guardia, e quasi i soli muti compagni che avesse.
Pilato raggiunse il corteggio alla porta dei Pesci.
La sua faccia bruna sembrava di scarlatto.
Saltò a terra per stringere la moglie fra le sue braccia.
Claudia, che parlava in quel momento con Flaccus, continuò la conversazione; poi si volse, e senza neppur alzare la ricca, di cui s'era coperto il viso lungo il viaggio per tema di abbronzire la pelle, presentò il fronte a suo marito. Pilato divenne pallido come una notte di luna piena, rimontò a cavallo dopo aver salutato il governatore della Siria, e si riprese il viaggio.
Gerusalemme sembrava un sepolcro. Non un uomo nelle vie, non un viso alle finestre, non un soffio umano nell'aria, eccetto il rumore che facevano gli uomini del corteggio che sfilando spaventavano le lucertole, i sorci ed i serpenti che si deliziavano al sole. Si sarebbe udito il ronzio degli insetti, e il gemitìo dei palombi del Tempio.
- È una città questa, o un cimitero? È la capitale della Giudea, o il Mar Morto, questa vostra Gerusalemme? domanda Claudia a Gionata.
- No, Claudia, rispose Pilato, che voleva attirare la sua attenzione, è il Sabato. Il Sabato che preme questo popolo come un mare di bitume.
- È l'animale che digerisce? domandò Pomponius.
- È forse la tigre che è alle scolte e striscia, rispose Pilato.
- Bah! esclamò il governatore di Siria.
- Vedrete domani, aggiunse il procuratore della Giudea.
Ed aveva ragione.
Lo si vedrà domani, e poi ancora, e poi ancora «fino al giorno fatale in cui l'aquila piomberà sul serpente» come hanno profetizzato i nostri veggenti. Pomponius Flaccus si alloggiò in quella parte del palazzo detta di Cesare, Claudia, in quella detta di Mariamna. Pilato ritornò la sera nel suo nido solitario della torre Mariamna.
III
Ritorniamo ora sui nostri passi.
Un traditore s'era intromesso in mezzo a noi.
I nostri sospetti si fermarono per qualche tempo sopra Jesus Bar Abbas. Ma la condotta susseguente di questo cinico parassita ci provò che, se aveva tutti i vizii, aveva almeno la virtù del silenzio. Il fatto è, che Pilato fino dalla vigilia conosceva, se non lo scopo, almeno il sito della riunione dei nostri confratelli, nella casa della vallata di Josafat. Egli sapeva forse qualche cosa di più ancora, poichè s'astenne di andare incontro a sua moglie, facendole rimettere una lettera dove si scusava e le annunziava: che, tenendo in mano le fila di una grande cospirazione, la quale metteva in pericolo il governo Romano, egli non poteva allontanarsi dalla città.
La casa della vallata era un gran cubo a due piani, diviso in due stanze e preceduto da un piccolo giardino dinanzi la porta. Due finestre sul davanti, due sul di dietro, casa stillante l'umidità nell'inverno, infetta l'estate da scorpioni, lucertole, serpenti e topi, disabitata da un quarto di secolo forse, poichè il suo proprietario se ne stava a Cipro.
Fino dalla vigilia, una trentina di soldati dei più agguerriti, sotto il comando di quel demonio di centurione chiamato Cneus Priscus, erano usciti verso notte dalla porta del giardino del palazzo di Erode, per non passare per le porte della città, e scorrendo vicino le mura erano andati a prender possesso di quella casa. Avevano passato colà la loro giornata in una mezza oscurità. Eccettuato alcuni caprai che avevano condotto le loro bestie per leccare quel po' d'acqua fetida che viene dalla valle di Hinnom, niun'anima viva si era avvicinata a quel sito. Ma, dal momento in cui il sole principiò a declinare dietro il Moriah, quei soldati avevano osservato verso il monte degli Olivi e lo Scopas, dei piccoli gruppi d'uomini che venivano dalla parte di Goreb, da Bezetha, dal Mizpeh, dall'Akra, gli uni discendendo il fianco della collina, gli altri uscendo dalle porte, e che, stretti alle mura, si avanzavano a passi lenti e misteriosi verso la casa. A certa distanza i gruppi si scioglievano: alcuni si fermavano, mentre altri continuavano, facendo in guisa che mai più d'uno alla volta varcava la siepe bucata del giardino ed entrava nella casa. La porta non aveva serratura e restava semiaperta.
I soldati di Priscus avevano chiuse le imposte e si tenevano ai due lati della porta. Ne accadeva, per conseguenza, che appena uno dei congiurati entrava e spingeva la porta dietro a sè, i soldati gli gettavano un mantello sul capo, e afferrandolo per le braccia, lo trascinavano nella stanza interna, lo legavano, gli sbarravano la bocca, e lo consegnavano alla custodia dei loro compagni. Questa trappola prese così una ventina di cospiratori, fra i più frettolosi. Ma quando il corno del Tempio suonò, e le tenebre divennero più fitte, i cospiratori si avanzarono con minori precauzioni affrettandosi per non essere in ritardo.
Quando Menahem varcò la siepe del giardino, una dozzina dei suoi amici lo seguiva da presso. L'affare nell'interno non andava più coll'istessa precauzione e lo stesso silenzio. Il selvaggiume incalzava il cacciatore. Moab si dibatteva ancora quando Menahem si sentì prendere dalle braccia. Egli comprese subito. Gridò. E siccome era molto forte, cominciò a resistere. Questo rumore mise l'allarme negli ultimi che ponevano già il piede nel giardino. Ascoltarono; non vedendo più chiaro nella casa, sentendo dei gemiti repressi, un rumore d'armi e di lotta, compresero che i loro complici erano caduti in un agguato. Allora si allontanarono. Prisco li vide partire. Ma egli non aveva seco abbastanza forza per inseguirli e nello stesso tempo vegliare sulla preda già fatta.
- La tortura farà il resto, pensò: questi che ho in mano parleranno, e riveleranno i complici.
Comprendendo ch'era ormai inutile di attendere più lungamente, temendo forse che quelli che s'erano messi in salvo ritornassero con altri, in numero sufficiente per liberare i loro complici, Cneus Priscus prese la risoluzione di uscire dalla casa, e rientrare colle sue vittime a Gerusalemme.
Per maggior sicurezza, le aveva condotte nella torre Faselo. La prigione della città poteva essere infedele, o troppo debole per custodirle.
Tale era il rapporto che Priscus aveva fatto la sera stessa a Pilato, e ch'egli aveva la mattina dopo ripetuto alla presenza dei prigionieri. Dopo di che il procuratore aveva dato mano all'interrogatorio degli accusati.
Le istruzioni scritte, che si erano trovate sopra Menahem, semplificavano singolarmente la procedura. Pilato li interrogò uno dopo l'altro a parte; nessuno disse una parola. Alla domanda: Perchè andavi tu in quel sito solitario e remoto? tutti fecero l'istessa risposta: per pregare!
Moab rispose con questa variante: Per pregar Dio che mi liberasse dagli scrupoli di ucciderti, o Pilato!
E Menahem disse: io vi odio tutti, avoltoi romani: noi vi odiamo tutti, e verrà il giorno in cui i nostri fratelli vi schiacceranno come vipere.
Pilato avrebbe dovuto sottoporli alla tortura per farli parlare, per strappare dalle loro labbra il nome dei complici ed il piano della cospirazione. Ma, sia ch'egli credesse ventidue vittime esser bastanti, sia che disdegnasse colpire le altre, sia che conoscesse i nostri progetti, sia pietà o sazietà, egli non ordinò di mettergli all'aculeo.
Egli confessava l'ultimo prigioniero, allorchè il suo liberto gli annunziò l'arrivo di Claudia.
Il resto del Sabato, non si occupò più di quella gente. I doveri dell'ospitalità verso il suo superiore, l'ansietà di trovarsi con sua moglie, gli servirono di distrazione.
La conversazione ch'egli ebbe con lei non fu lunga. Lo si vide uscire dalle stanze di Claudia abbattuto.
Il suo abboccamento con Pomponius Flaccus fu più lungo e più soddisfacente.
Nondimeno all'alba del dì seguente egli discese al pretorio, e dopo aver dato certi ordini in segreto ai capi delle truppe, ricominciò l'interrogatorio dei prigionieri, e la discussione della sentenza coi suoi consiglieri. Era a quel punto, allorchè i suoi emissarii vennero a parlargli in segreto.
Il segreto era del resto inutile. Ciò ch'essi venivano a denunziare si denunziava da sè.
La giornata del Sabato era stata lugubre. L'arresto di ventidue capi dei più considerevoli e dei più arditi di tutti i partiti aveva colpito nel cuore la nazione. Quelli che s'erano salvati, e noi stessi, commissarii superiori, non avevamo potuto prendere nessuna risoluzione, sia che il giorno del Signore ci paralizzasse, sia che temessimo di esser sorvegliati. Noi ci attendevamo anzi di essere arrestati da un momento all'altro. Alla sera le porte erano state chiuse contro l'abitudine del tempo delle grandi feste del Purim, del Peschah e dei Tabernacoli, e i soldati romani avevano surrogato i nazionali. La guarnigione della cittadella Antonia era restata in piedi tutta notte. Tutto insomma indicava che Pilato seguiva le fila dei nostri progetti, e vegliava.
Io m'era nondimeno arrischiato ad andare a vedere alcuni dei nostri capi che abitavano la città. Non ne trovai nessuno. Del sagan e di Bar Abbas non sapevo che farmi. Justus venne a raggiungermi da Maria, come di solito, ma tremava e non sapeva nulla. Io aspettava il giorno con ansia febbrile per andare a vedere quelli di Galilea, Perea ed Idumea, che erano accampati sotto le tende o le capanne di rami sulle colline da cui Gerusalemme è coronata.
All'alba ero in piedi. Uscii dalla mia casa del quartiere7 d'Ophel e mi avvicinai alla porta della Torre delle donne, che conduce al sobborgo di Bezetha-Gareb, aspettando che il guardiano aprisse.
Avevo meditato tutta la notte sopra la posizione della congiura dopo la sua scoperta e l'arresto dei ventidue capi, ed avevo deciso che, in qualunque evento, bisognava spingere le cose fino all'estremo.
Sapevo fino dal principio che tutto questo non avrebbe fatto progredire d'un pollice ciò che si chiamava la liberazione nazionale, e non me ne davo alcuna pena. Il mio progetto era di compromettere la gente del Tempio, di soddisfarla per attaccarmela, e metterla male sempre più con Pilato. Il sagan che non capiva niente, che non pensava niente, si lasciava condurre, purchè lo si credesse l'anima di tutto il movimento, e che fosse lui quegli che concepiva, che comandava, il padrone, il cuore ed il cervello del popolo ebreo. Anche con me egli recitava qualche volta questa parte. Una volta compita la rottura fra il palazzo d'Erode ed il Tempio, tutto sarebbe andato per bene. Che importavano allora l'insuccesso, le vittime, l'indietreggiare d'un giorno, l'aggiornamento di alcuni mesi, il sangue degli uni o il trionfo degli altri? Io intendevo dunque di andare a spingere avanti le genti di Samaria e di Galilea che sono le più intraprendenti, ed attendevo l'apertura delle porte. Udivo dall'altra parte un rumore più forte che all'ordinario. Vedevo sul fianco della collina un movimento insolito, un mormorio lontano, continuo, che veniva da differenti punti della città e dai suoi contorni, colpiva le mie orecchie. Bar Abbas mi vide e mi venne dappresso.
Egli toccava di già ad un sufficiente grado di ubbriachezza.
- Giuda, mi diss'egli, sai dunque...
- Tutto.
- Ed ora che gli altri sono presi, che dobbiamo fare?
- Andare sempre avanti. T'arresti forse tu, se in un campo di battaglia un camerata ti cade vicino?
- È ciò ch'io mi diceva. Allora ho fatto bene...
- Che cosa hai fatto?
- Perdinci! Ho consigliato d'agire, come se nulla fosse accaduto.
- A meraviglia. Ora bisogna scuotere gl'indolenti, e rinfrancare i dubbiosi.
- Io me ne vado dalla parte del mercato e alla piazza della Legna, e li farò marciare come dei vecchi legionari. Addio; verrò a pranzo da te, perchè ieri, per onorare il Signore, non ho messo nulla nella mia bisaccia.
Le porte si aprivano. Un fiotto di popolo si precipitava nella città. In pari tempo un formicaio d'uomini si svegliava e si animava in quell'alveare di case, che dalla valle dei Cacciai fino alla cima s'addossa al Moriah e al Sion. Vidi passare per quelle immonde straduzze centinaia di giovani e vecchi che si dirigevano verso la piazza del Pretorio. Questa piazza diveniva per necessità il centro del movimento. Io mi ci recai pure. Passai però prima dal sagan. Egli mi attendeva. Caifa era con lui, più scompigliato, più confuso, più pauroso e più indeciso che lo stesso Hannah. Ottenni la loro attenzione, e li decisi, facendo loro considerare che, non potendo più indietreggiare, si doveva lasciar agire gli avvenimenti, che si producevano da sè medesimi.
Caifa uscì per far mettere all'opera la sua gente.
Hannah mi raccomandò d'eseguire strettamente le sue istruzioni.
Nel partire incontrai Justus quasi travolto da una immensa folla, che lo portava in avanti come suo capo. La parola d'ordine era sempre la stessa: Abbasso l'acquedotto! rispetto alle offerte!
I Romani hanno una marcata predilezione per l'acqua e le fontane nelle loro città. Ne fanno un oggetto d'ornamento ed un mezzo d'igiene pubblica. Pilato intendeva illustrare il suo governo a Gerusalemme lasciandovi delle fontane, di cui la città, del resto, aveva ben d'uopo. Egli aveva principiato un acquedotto di venticinque miglia per condurre l'acqua da lontano: monumento d'arte e di pubblica utilità che avrebbe rivaleggiato e forse eclissato l'Acqua-Giulia. Non volendo per quest'opera caricare il popolo di tasse, aveva reclamato ed ottenuto da Caifa, per forza o per amore, quell'imposizione di mezzo siclo che ogni Ebreo è obbligato di pagare al Tempio tutti gli anni, ed il doppio se paga il giorno di Sabato. Questo sacro tributo si chiamava l'offerta.
Mi avvicinai a Justus, e gli dissi a bassa voce:
- Sempre avanti. Nulla è cangiato.
Intanto dalla porta Dorata, che conduce pel ponte sul Cedron alle strade del Giordano e del Mar Morto, dalla porta Giudiziaria, che s'apre sopra le strade di Gaza e di Egitto, dalla porta di Efraim che mena a Samaria, e da quella di Beniamino ove mette capo la via di Anathot e quella di Betlemme, delle onde di provinciali s'ingolfavano nella città, condotti da quei capi che erano scappati al tranello teso nella casa di Josafat da Pilato. Tutti si dirigevano verso il forum di Gerusalemme, la piazza del Pretorio che sta dinanzi al palazzo d'Erode. Io mi diressi da quella parte, toccando la piazza del mercato.
Là, in mezzo ad una folla immensa, vidi Bar Abbas che gridava:
- Dannazione dell'anima mia! Dell'acqua? ancora dell'acqua? Abbiamo noi bisogno d'acqua? a che serve l'acqua? È buona tutt'al più per annegarsi, pelle persone sudicie che hanno d'uopo di lavarsi; e per quei zelanti che non sfiorerebbero le labbra delle loro mogli senza credersi impuri!
- Sì, sì, abbasso l'acquedotto! gridava il popolo.
- Se si facessero almeno delle fontane di vino! allora si capirebbe. Il vino! Vi piace il vino, ragazzi?
- Evviva il vino! vociavano i biricchini: gloria al vino e a chi ne ha!
- Del vino sopratutto, ragazzi, continuava Bar Abbas. Val bene la pena di costruire degli acquedotti lunghi venticinque miglia per fornire d'acqua il popolo di quel Dio che si divertì a fare il diluvio, il popolo che durante quarant'anni ha bevuto dell'acqua nel deserto con Mosè! Anche a Mosè piaceva l'acqua. Ecco perchè era odiato da sua moglie. È dunque deciso. Non vogliamo acqua. Abbasso l'acqua! La pioggia ci bagna già abbastanza, la Dio mercè, quando le nostre case sono bucate.
- Abbasso l'acqua! abbasso l'acqua! rispondeva la folla.
- E rispetto all'offerta, figliuoli. La moneta santa! Per le corna di Mosè! e che cosa farebbero i nostri preti? Vogliamo dunque ch'e' diventino magri come tante cavallette? Si lagnavano già che la tassa santa era troppo leggiera. Figuratevi se la confiscano. Ci metteranno una tassa di un siclo a testa.
- Rispetto all'offerta! gridava la plebe.
- Mi piacciono i preti grassi, a me, seguitava Bar Abbas. Sono contenti, e quindi di buon umore ed umani. Samuele era magro, e inquietò Israele. Geremia era magro perchè non digeriva bene, e fece di Gerusalemme una valle di lagrime. Si andava a nozze piangendo, si mangiavano dei buoni pranzi versando lagrime, si abbracciava la moglie gemendo: si aveva disimparato a ridere. Prendere l'offerta? ma si vuol dunque ridurre i nostri amabili preti a nutrirsi di sterco, come.... rammentatemi un po' il nome di quel profeta maiale...
- Vivano i preti grassi! rispetto all'obolo di Dio! gridava sempre la plebe.
- E poi, ragazzi, i Romani devono forse darci da bere? non è abbastanza che ci prendano quello che abbiamo per mangiare, senza che vogliano ancora condannarci all'acqua per raffreddarci? Se amano l'acqua, vadano a berla a Roma. Noi siamo figli di coloro che si regalarono nella terra promessa di grappoli d'uva grossi come la torre Phasaelus. Non basta dunque ai Romani di prenderci tutto: vogliono far tavola rasa, tavola lavata, tanto che non ci resti più nulla sopra. Vogliamo essere sporchi noi! I nostri profeti lo erano e conversavano con Dio, malgrado ciò.
- Abbasso gli acquedotti! abbasso gli acquedotti! continuava la plebe.
- Sì, agnellini miei, ed andiamo a cercare una spiegazione chiara dal procuratore. Che lasci tranquilli i nostri preti! Quando i preti sono contenti, tutto prospera, principiando dalle vostre donne. Il nostro Dio è già abbastanza povero: lo derubano a chi può meglio. Vorrebbero infine ch'e' si mettesse al servizio dei Romani, per vedere il colore dell'oro? Egli fa dei miracoli: se vuole dell'acqua, come al tempo di Mosè, non ha bisogno di comperarla.
- No, no, che non si tocchi il denaro di Jehovah!
- Ebbene, è questo che andiamo a cantare gentilmente al procuratore. Seguitemi e zitti! Parlerò io per voi: unitemi soltanto alcuni di Galilea e di Samaria. Io so come si parla ai capi. Ho parlato a Tiberio, quando combattevo sotto di lui! Un capo fermo, quello! I vecchi avanti, i giovani in mezzo, le donne ed i bimbi a casa o nel Tempio.
In un batter d'occhio, quella moltitudine immensa si mise in ordine, e Justus ed altri quattro commissari si univano a Bar Abbas, costituitosi oratore dei lagni popolari. Allora, salendo verso il Moriah, lasciando a sinistra il palazzo dei Maccabei e l'Ippodromo a diritta, camminando lungo il Tempio dalla porta Occidentale fino al palazzo degli Archivii, essi traversarono la grande piazza, e si fermarono appiedi dei diciotto gradini che formavano la scala del Pretorio.
Pomponius Flaccus, che era stato avvisato fin dalla vigilia di ciò che doveva accadere in quel mattino, non si stupì nè si commosse per quelle grida del popolo. Egli digeriva ancora, del resto, la cena ed il vino della notte. Poichè Pilato, quantunque non bevesse che acqua pura, aveva una cantina eccellente. Claudia Procula, che ignorava tutto ciò che accadeva, si destò, o meglio, fu destata dalle sue schiave, spaventate dalla sommossa.
Pilato fece avvertire la moglie di non temere di nulla; ma Claudia, coperta ancora da quelle bandelle dell'acconciatura notturna di cui usavano le dame romane per conservarsi la pelle più fresca e più bella, si gettò sulle spalle una specie di pallium incarnato che la copriva da capo a piedi, e salì sopra la terrazza che circondava il palazzo.
Essa dominava la città.
Pilato, all'avvicinarsi della folla, aveva inviato i suoi prigionieri alla torre Phasaelus, temendo non glieli strappassero dalle mani. Aveva appunto finito di scrivere la sentenza di condanna per essi, allorchè il capo della guardia che vegliava alle porte del palazzo entrò per annunziargli che una deputazione del popolo desiderava di parlargli. Pilato esitò un momento fra il riceverla e il farla respingere a scappellotti. Alla fine si decise a lasciarla entrare.
Jesus Bar Abbas si avanzò alla testa dei cinque altri parlamentari, camminando nella sala con passo da re. I suoi stracci facevano spiccare la dignità della sua andatura. Aveva l'intenzione, semplicemente, d'esser sublime. Una mano al petto, l'altra sul fianco, la testa alta e un po' indietro, mentre fissava lo sguardo su Pilato, sembrava ammirare gli intagli in legno di cedro del soffitto. Puzzava d'aglio come tutti gli spagnuoli uniti insieme. E siccome Justus lo incalzava troppo da vicino, egli spingeva di tanto in tanto il piede indietro, affin d'allontanarlo e tenerlo al suo seguito, non al suo fianco. Ond'è ch'ei sembrava zoppiccare.
Le sopracciglia di Pilato si aggrottarono, il suo respiro divenne agitato.
- Signor procuratore, son io, disse Bar Abbas, avanzandosi davanti la sedia curule di Pilato.
- Quella bruzzaglia non aveva dunque nulla di meno sporco da inviare come suo ambasciatore? domandò Pilato volgendosi agli altri parlamentari.
- La bruzzaglia sa che io sono un oratore, rispose Bar Abbas, interrompendo Justus che era lì per fare una scusa; ecco, o Pilato, la ragione perchè io varco la soglia del palazzo dei nostri padri.
- Dei tuoi padri? Sì, sì, disse Pilato sogghignando: parla dunque, parla.
- Il popolo d'Israello.... cominciò Bar Abbas.
- La canaglia! interruppe Pilato da focoso spagnuolo ch'egli era.
- Se mi esprimo male in latino, che, per altro, ho parlato per vent'anni nelle legioni di Cesare, ti arringherò in greco. Vedi, Pilato, sono letterato, sai! Ho insegnato ai Galli il passo che David danzava dinanzi l'arca, ed ai tuoi compatriotti il concime di quelle lenti per le quali Esaù vendette la sua primogenitura.
Pilato si contorceva sulla sua sedia, ma Bar Abbas continuò:
- Non ho avuto tempo, o Pilato, di comporre la mia concione. Gli avvenimenti mi hanno sorpreso nella piazza del Mercato, e l'amore pel mio popolo m'ha detto: Va avanti. Mi sono posto alla sua testa, e vengo a dirti a suo nome: Quousque tandem abuteris, Pilate, patientia nostra?
- Non c'è' nessuno fra voi che abbia un po' di senso comune per prendere la parola? gridò Pilato battendo col pugno sul tavolo.
- Come, del senso comune! io vengo a nome del popolo ebreo per parlarti dell'acqua e non del senso comune, io che ho avuto l'onore di parlare al divino Tiberio, tuo padrone, e di dirgli: Buon giorno, Cesare!
- Gettami codesto galuppo fuori della porta a pedate, ordinò Pilato ad un decurione8 di guardia nella sala.
Il decurione obbedì alla lettera; ed intento che eseguiva l'ordine, Bar Abbas sgambettava gridando e grattandosi le parti offese.
- Andiamo, via, Lentulus, a modo, fa da vecchio camerata, più dolcemente, non colla punta, dal lato... Ah, bravo, ora la tunica è forata, ed ecco la mia faccia posteriore esposta agli sguardi del signor Pilato e delle stelle della Siria.
Justus si avanzò allora, e domandando scusa delle buffonerie di Bar Abbas, espose a Pilato i piati del popolo ebreo.
- Sta bene, rispose il procuratore: non ho consigli a prendere dal popolo ebreo, e non ho conti da rendere che a Cesare. So quel che faccio, e quel che faccio è ben fatto. La città ha bisogno di fontane, ed io voglio farle. Se il popolo ebreo trova che agisco male nell'adoperare l'offerta, invece di aggravarlo con un'altra tassa, e fa come l'asino, che, soccombendo sotto il peso, dà delle calciate al padrone, che si affretta ad alleggerirlo. Ecco la mia risposta. Andate.
- Dunque, dimandò Justus, l'acquedotto sarà finito, e l'offerta continuerà ad essere spesa in quella costruzione?
- Sì. Andate.
La deputazione salutò e partì.
La folla rumoreggiava di già al racconto fantastico che Bar Abbas le tratteggiava dell'accoglimento ricevuto. Quando gli altri commissarii vennero ad annunziargli che la volontà di Pilato era incrollabile, che i lavori dell'acquedotto non sarebbero sospesi, la tassa del Tempio non rispettata, un grido immenso partendo dalla piazza del Pretorio, circolò di strada in strada, di fila in fila, da Sion al Moriah, dall'Akra al monte degli Ulivi, risuonò nell'aria, avviluppò la città tutta.
Claudia ne fu spaventata.
Flaccus si risvegliò.
Pilato sorrise. Egli l'aveva di già castigato, questo popolo, allorchè non voleva che girassero per le vie della città le insegne con l'effige di Cesare, la legge ebrea proibendo le immagini come idolatre. Senza dunque commuoversi, fece chiamare Decius Crispus, comandante di tutte le forze romane che occupavano Gerusalemme, e gli disse:
- Prendi le due coorti che stanno nella corte del centro, e, l'arma nel fodero e la frusta alla mano, disperdimi quella marmaglia. Non fate sangue; ma batteteli bene e forte.
Decius Crispus, che Pilato sceglieva perchè lo conosceva per umano e dolce, lo salutò e cinque minuti dopo uscì dal palazzo.
La folla non s'era mossa, gridando sempre: Abbasso l'acquedotto! non toccate l'offerta! Crispus le rivolse alcune parole concilianti, consigliandola di cessare dal rumore e di rientrare nelle sue case. Fu insultato. Allora diede ordine ai suoi di respingerla.
Ai primi colpi di frusta le grida raddoppiarono. Ma quelli che sentivano cincischiarsi la faccia indietreggiarono e spinsero indietro gli altri. Allora principiò la ritirata. Qualche pugno ricevuto dai soldati accrebbe la loro collera e la forza delle loro braccia. Ma accadde per disgrazia che uno dei soldati insanguinò di un colpo di frusta la faccia di Bar Abbas. Il dolore gli strappò un grido terribile. Nello stesso momento cacciò fuori di sotto il pastrano un coltello, e lo immerse nel ventre al soldato. Il Romano cadde gridando: ci assassinano!
Questo fu il segnale.
I soldati che non avevano fatto uso fino a quel momento che delle verghe, sguainarono le daghe e principiarono a ferire. Gli Ebrei erano disarmati: la carnificina non incontrò ostacolo. I soldati di Pilato si aprirono una strada di sangue attraverso quella moltitudine di vecchi e di giovani che erano venuti lì più per supplicare che per rivoltarsi. Essi li abbattevano a dritta e a sinistra come le spighe sotto le mani dei mietitori. Quelli che fuggivano rovesciavano i più deboli e li schiacciavano. Guai a coloro che cadevano: non si rialzavano più. Le botteghe, le porte delle case si aprivano per dare asilo a quei disgraziati; ma il sangue dava la vertigine ai soldati. Il tempio stesso non fu rispettato: la corte dei preti come quella dei pagani, il lishcath ha-Gazith, come il mercato sacro, i chiostri e le camere sante, tutto fu contaminato dal sangue, e coperto di cadaveri. Tremila vittime perirono, fra cui due soli soldati romani!
All'indomani le valli dell'Hinnom, di Josafat e il Cedron erano coperte di cadaveri, per la maggior parte Galilei, sudditi del tetrarca Antipas Erode.
Claudia, durante tutto il primo momento di quella protesta, si era tenuta sul terrazzo ad ammirare lo splendido panorama che la circondava. Ella contemplava il Tempio, il cui frontone, coperto di lamine d'oro luccicanti al sole, l'abbagliava; la valle che sempre scendendo finisce a Betlemme, a Gerico, al Giordano, al deserto, al mar Morto, vasto spazio d'azzurro e d'oro, che chiudeva una parte dell'orizzonte come uno zaffiro termina il rostro di una corona. Essa ammirava i giardini di Silohè, i gruppi argentati degli alberi del monte degli Olivi, gli splendidi giardini del suo palazzo, la catena delle montagne della Giudea e di Beniamino, le quali si riattaccano con un altipiano ai due speroni di Sion e di Akra; e molto lontano, al di là del Giordano e del deserto, le montagne di Moab, che rassomigliavano ad una nuvola violetta pagliettata di oro.
Quando si fece udire il terribile ruggito del macello, Claudia portò i suoi occhi dal cielo alla terra, e seguì, senza impallidire e senza dare indietro, il solco della daga romana a traverso i figli di David. Poi, quando il sole cominciò a darle noia, temendo per la tinta della sua pelle, rientrò lentamente mormorando a Cypros, la schiava gallica che aveva la cura della sua testa:
- Arrivo a tempo!
Flaccus seppe nel suo bagno la notizia della carnificina, mentre i suoi schiavi gli grattavano la pelle con una pietra pomice di Lesbo, dolce come i labbri d'una fanciulla.
- Bah! disse egli, quei birbi se la caveranno coll'aguzzare di nuovo le loro spade domani.
Ed ordinò che si ponesse un'altra pastiglia di mirra nelle cassolette d'oro che profumavano il suo appartamento.
Pilato, invece, alla vista di quella terribile catastrofe si strappò i capelli dalla disperazione. Si gettò di slancio sul primo cavallo che trovò nella corte, e corse dietro agli uccisori, gridando: Fermatevi, fermatevi!
Ma egli, ahimè, s'avanzava lentamente!
I cadaveri, i feriti, i caduti gli ostruivano la strada. Le grida di maledizione che attristavano la via, lo opprimevano. Egli riescì alla fine a calmare il furore dei soldati; ordinò che si ritirassero, e ritornò egli stesso al palazzo col cuore piagato e l'anima piena di dolore e rimorso. Entrò nella sala dei giudizii. Gli fu presentata la sentenza contro i ventidue prigionieri ch'egli aveva condannati il mattino. La rilesse, restò lungamente a riflettere, e domandò ai suoi consiglieri se la era giusta e secondo la legge. Gli risposero affermativamente.
- Allora, disse egli, fate venire i prigionieri.
Davanti le porte del palazzo - gli Ebrei separatisti si credevano contaminati varcando la soglia della dimora di Pilato - si stende una corte aperta, in mezzo alla quale, dacchè il palazzo d'Erode è divenuto il Pretorio Romano, è incrostato un quadrato di mosaico che segna il sito del giudizio. Noi chiamiamo quel luogo il Gabbatha. Nel mezzo del Gabbatha si alza un piccolo banco di pietra, screziato di marmi a varii colori, sopra il quale si metteva la sedia curule del pretore, quando doveva leggere la sentenza dei delinquenti. Si poteva, secondo le nostre costumanze, pronunciare la sentenza nella sala di udienza, ma la si doveva pubblicare all'aria aperta innanzi al pubblico che voleva udirla.
Quando Pilato venne a sedersi al suo posto, i prigionieri, legati in due catene di undici ognuna, lo aspettavano in due file, una a diritta, l'altra a sinistra. Le guardie del Pretorio si stendevano in cerchio intorno ad essi, ma popolo non c'era. La corte era vuota. Malgrado ciò, Pilato passò oltre. Egli domandò ai condannati:
- Avete nulla da aggiungere in vostra difesa?
Nessuno rispose. Alcuni sorrisero sdegnosamente e con ironia.
- Leggi la sentenza, disse Pilato al suo scriba.
Questo personaggio lesse la sentenza in latino. Un interprete la tradusse nella nostra lingua. In sostanza essa decretava così: i ventidue prigionieri incatenati saranno esposti domani nell'anfiteatro alla vista del popolo che non li ha veduti oggi, avanti che principiasse lo spettacolo, e saranno frustati con dieci colpi di verga ciascuno. Dieci di questi delinquenti (di cui la sentenza dava i nomi) saranno crocifissi nella sera stessa. Sei altri (di cui parimente erano scritti i nomi) saranno dati in preda alle bestie feroci nel secondo giorno. I sei ultimi infine, i più vigorosi ed i più giovani, combatteranno il terzo giorno le bestie, armati soltanto di spada corta. Quando la sentenza fu letta, Pilato domandò di nuovo, rivolgendosi al popolo che non c'era in realtà:
- V'è qualcuno che abbia osservazioni a presentare?
Naturalmente nessuno rispose. Allora egli si volse ai condannati, e soggiunse:
- E voi avete niente da opporre? Avete qualche cosa da domandare, che non tocchi la sentenza?
I condannati tacquero. Solamente dopo un minuto di silenzio, durante il quale si avrebbe potuto udire i battiti di tutti i cuori, Menahem gridò:
- Dio che accende i giorni nel cielo maturerà quello della vendetta.
Pilato scosse lievemente il capo, e rispose con calma.
- Se codesto giorno trovasi in un anno qualunque, il tempo non l'ha ancora segnato nel suo libro.
Un minuto dopo, l'usignuolo gorgheggiava nei giardini del palazzo, stesi ai piedi dell'Ophel e bagnati dalle acque deliziose di Enrogel; le tortorelle gemevano, il vento del mezzodì folleggiava con le fragranze della valle di Siloam, le farfalle svolazzavano, spiegando il loro scrigno di gioielli in mezzo ai fiori della corte.
Il pranzo di Pilato e del suo ospite era pronto.
IV
L'anfiteatro di Gerusalemme era stato costrutto dal re Erode.
Il re sapeva benissimo che la legge proibiva il genere di spettacoli che vi si danno per solito. Ma egli provava questo mezzo di seduzione, come ne aveva tentato tanti altri, nobili, utili, politici, umani, per spezzare quella cerchia di bronzo, ch'estraniava gli Ebrei dalla comunanza degli altri popoli dell'Oriente e dell'Occidente. Egli fallì in questa, come in tutte le sue altre idee, troppo grandi per un popolo così incolto e così rozzo.
L'anfiteatro, al tempo di Erode, era sempre stato popolato, come lo è oggidì quello di Pilato, da spettatori venuti perfino dalla Grecia e dall'Egitto - da Damasco a Memfis, da Gaza a Tiro, - dalle città greche e romane che s'innalzano sopra il suolo dei figli di Jacob, - Cesarea, Gadara, Sephoris, Pella, Scitopoli, Hippos, Phasaelus, Tiberiade. Le città di Samaria si vuotavano, tutti andando a vedere le feste di Pilato, che coincidevano con quelle dei Tabernacoli degli Ebrei. Il vasto circo rigurgitava quindi di popolo fin dalla mattina.
V'erano anche degli Ebrei, ma dei due partiti estremi: l'aristocrazia sadducea, e quella infima plebe che non si classifica, ma si ammonticchia. Siccome da noi non ci sono vestali, il podium era stato riservato alle dame di alto grado, per le quali c'era una sportula apposita di entrata. Le file superiori erano tutte occupate dalle donne, quasi tutte velate; le prime, dagli uomini di condizione più elevata, magistrati, principi, capi di milizia, preti, antichi ufficiali delle sinagoghe. Una inferriata, non molto alta veramente, li proteggeva dalle fantasie di quelle bestie che avessero voluto cercare altrove che nell'arena un sito per rappresentare la loro parte.
Ad una delle estremità di questo ovale, a nove o dieci piedi al di su dell'arena, si trovava la loggia di Pilato - rimpetto al podium - separata dagli altri spettatori soltanto da una corda di seta ed oro, tesa ai due lati, dalla graticola di ferro ai gradini superiori. Sul davanti, sopra due sedie d'avorio incrostate d'oro, siedevano Claudia Procula, con ai piedi dei cuscini di seta azzurra ricamata di argento, e Pomponius Flaccus che li poggiava sopra un tappeto persiano. Dietro ad essi il seguito delle loro corti e degli ufficiali. Pilato occupava un seggio speciale un po' più lungi, come mastro dello spettacolo; poichè a Gerusalemme non vi erano come a Roma edili o direttori speciali per questo oggetto. Un velarium tessuto di bianca lana di Bethania, a righe cremisine di lana di Sion, copriva bene o male tutto il vasto ricinto.
La varietà di costumi degli spettatori allettava lo sguardo. Ma coloro che qualche volta nella loro vita avevano assistito ai circhi romani ed agli ippodromi greci, ove il popolo è sì gaio e rumoroso, avrebbe creduto di vedere, in quella folla così tranquilla e così seria, un'assemblea che assiste ad un processo capitale in una corte di giustizia. D'altronde quei combattimenti al cesto, quei reziarii, quei dimacheri, quegli andabati, che potevano avere di interessante per gente che si era trovata la vigilia presa in quella strana caccia che i soldati romani avevano data al popolo ebreo, trafiggendo petti, dorsi, fianchi, tagliando teste e membra, e correndo sempre innanzi, sempre innanzi, sopra feriti, morenti e cadaveri? Non c'era una famiglia ebrea che non avesse il suo lutto; donde poteva spillare la gioia? Nessuno conosceva quei combattenti, nessuno scommetteva per uno o contro uno di essi; come potevano interessarsene? Il popolo ebreo ha della sensualità per la bellezza, come tutte le razze orientali, ma non il sentimento del bello, come il Greco ed il Romano. Il popolo ebreo teme la forza ed è malfidente della destrezza; egli non l'ammira, non la coltiva, e nemmeno, a mo' dei Greci e dei Romani, l'apprezza. Come si sarebbe egli appassionato per le belle forme dei gladiatori greci, per l'ammirabile abilità di quei dimacheri italiani, i quali, pugnando di spada e di pugnale, senza armi difensive, si uccidevano a vicenda; o per l'agilità di quel reziario, e di quel mirmillone, l'uno ucciso e l'altro ferito a morte? Appena se si rise un po' degli sbagli di quei Galli andabati, di cui uno - camuffati come erano di un elmo di ferro che non aveva aperture che alla bocca ed alle orecchie - dopo diverse balordaggini, ebbe un braccio spiccato fuor netto, e l'altro il ventre squarciato. Tutto questo era accolto con freddezza.
Ma una scena d'altro genere venne ben tosto a destare una dolorosa commozione.
La giornata doveva chiudersi con una pantomima di ballo e di canto di una festa di Sileno, interrotta dall'irruzione di un toro, aizzato da cani che lo cacciavano e che lasciavano il tempo così ai cori ed ai cimbalisti di mettersi in salvo per la sana vivaria e le altre uscite dell'arena. Ma avanti che si rappresentasse questa commedia, Pilato volle che la sua tragedia precedesse.
Le trombe suonarono. Il silenzio del deserto si fece profondo nella festa. Allora un araldo si alzò dietro a Pilato, ed avanzandosi, gridò: Ecco la sentenza dei cospiratori contro Cesare.
Dopo che l'araldo ebbe letto il decreto pronunziato il dì innanzi dal procuratore, questi fece un segno. Allora il vomitorio che stava al disotto del podium si aprì, e apparvero i condannati. Erano divisi in tre file, legati da corde pugno contro pugno. Quelli che dovevano esser crocifissi la sera precedevano gli altri. Erano i più vecchi, i più deboli; li conducevano soldati indigeni. Il secondo gruppo era composto dei condannati alle bestie, in semplice tunica, con un solo pugnale a difesa. Moab era alla testa di questo; dei soldati Romani marciavano dietro a loro. Finalmente venivano i sei condannati alle bestie, ma armati questi di tutto punto, eccetto la corazza e lo scudo. Menahem era fra costoro; i legionarii gli scortavano.
Quando apparvero nel circo, un grido immenso echeggiò in mezzo alla folla: Gloria ai figli d'Israele: coraggio, coraggio! Poi seguì un silenzio che faceva fremere. I condannati non pronunziarono una parola. Tutti avevano il passo sicuro, l'aria calma, l'aspetto dignitoso, quasi andassero a compiere un sacrifizio religioso.
Menahem camminava, la testa alta, lo sguardo9 perduto nel cielo, come se avesse voluto squarciare il velarium, e incontrare nel firmamento lo sguardo, il sospiro, il bacio forse, ch'e' vi cercava. Moab scorreva degli occhi ansiosi le gradinate dove stavan le donne, visibilmente inquieto, concentrando tutta la potenza della sua vita in quegli sguardi investigatori. Percorsero così tutta l'arena da dritta a sinistra, tenendo il dosso voltato al podium, durante la metà del loro passaggio.
Io stava rimpetto a quella parte dell'anfiteatro. Allorchè i condannati arrivarono sotto la loggia di Claudia, alla vista quindi delle donne che avevano preso posto nel podium, osservai un brusco movimento di una di queste, che era seduta in prima fila, all'istesso livello della moglie di Pilato. Mano mano che i condannati avanzavano verso quella parte dell'arena, la agitazione di quella donna aumentava. Ella si alzò e spinse il suo corpo sì avanti, sì avanti, che un'altra donna seduta vicino a lei, la prese per la vita onde tenerla. Alla fine gettò un grido. Tutti gli occhi si voltarono subitamente di là. Moab lo intese, egli pure, e fu preso da un terribile tremito in tutto il suo corpo. Appena se poteva più camminare; ma arrivato sotto quel sito, gridò egli pure: Addio, Miriam!
- Moab! rispose la conosciuta, e ricadde sopra il suo cuscino, lasciando andare la testa sulle spalle della sua vicina.
A questo movimento, il velo si sciolse. La fu una vista abbagliante per tutti. Si sarebbe detto che il velarium si aprisse, e che il sole inondasse l'arena. Mai non s'era seduta una simile bellezza fra le figlie d'Israello fino da Esther, forse da Eva la figlia di Dio, in poi. Un grido di sorpresa scoppiò in mezzo all'assemblea. Pilato impallidì come un cadavere. Moab era caduto affranto, e lo avevano trasportato svenuto. Claudia disse qualche parola al suo vicino Flaccus, questi le ripetè a Pilato che non rispose. I suoi occhi erano fissi al posto ove sedeva Mirjam. Questa si era alzata precipitosamente ed era sparita sotto il vomitorio che conduceva dalla galleria interna al podium. Io mi precipitai per vedere questa donna che m'era sconosciuta, a me che conoscevo tutte le donne di Gerusalemme. Ma ella erasi deleguata come un soffio d'aria, senza lasciar traccia di sè.
Questo incidente mise un po' di freddo nel resto dello spettacolo.
Uscendo dal circo, il popolo s'incontrò coi condannati che andavano al supplizio.
Il popolo d'Israello, che non aveva assistito al combattimento dei gladiatori, andò ad assistere alla morte dei suoi compatriotti. I contorni del Golgota erano gremiti di gente; ma pareva che quelle migliaia di uomini e di donne fossero pietrificate. Non un grido, non un gesto: si respirava sordamente, ed ogni sospiro10 conteneva una maledizione.
Mentre gli stranieri si divertivano coi gladiatori ed i mimi di Pilato, i suoi carnefici alzavano la croce. L'operazione fu breve. Essi ne avevano l'abitudine. Un'ora dopo avevano issato i condannati sulla croce, piedi e mani legate; poi, quando tutti pendevano dal patibolo, ruppero loro con una sbarra di ferro le gambe e le braccia, le coscie e gli avambracci.
Al grido straziante dei suppliziati, rispose un grido terribile del popolo: grido inarticolato che non esprimeva nulla e diceva tutto. E fu il solo. Il popolo svignò dagli accessi del Golgota, come l'acqua irrompe da un vaso forato.
La sera era fresca e bella. Io aveva cenato con Maria. Bar Abbas era venuto a sparecchiare gli avanzi. Justus era arrivato un po' più tardi; poichè quel cattivo mobile avrebbe passata tutta la sua vita ai piedi della mia amante. Finita la cena, io li invitai ad accompagnarmi. Maria volle venire anch'essa.
Uscendo dalla porta Giudiziaria, che s'apre sulla strada di Silo e di Gabaon, lasciammo a sinistra la tomba di Anania, ed incominciammo ad ascendere, a dritta, il piccolo cocuzzolo del Golgota. La luna lo rischiarava completamente. Un venticello acuto cacciava dinanzi a sè una peluria di bianco vapore frangiato in piccoli fiocchi, che svolazzavano capricciosamente, lasciando puro e netto un firmamento azzurro come la grotta dell'isola di Capri. La luna avanzava frettolosa.
Una fila di forme bianche che si staccavano sul fondo ceruleo, apparve ai nostri occhi. A misura che ci facevamo più presso, quelle forme prendevano una figura, e vedemmo i corpi nudi dei suppliziati.
Il sito era deserto. Le guardie, dopo aver ferito a morte i condannati, non s'erano curate di udire l'ultima maledizione o l'estrema preghiera. Dei cani vagabondi, che venivano dall'orgiare nel Carniere dei cadaveri, abbaiavano per distrarsi. La civetta rispondeva loro. Un gemito sordo, corto, affogato, rompeva il silenzio notturno.
- Questi infelici non avevano dunque nè sorella nè madre, nè.... mormorava Maria stringendosi a me senza finire la frase: essi muoiono soli!
- Forse, risposi; ma la paura.... D'altronde è più triste il morire senza funestare lo sguardo della vista di una faccia umana?...
Eravamo ai piedi delle croci. I condannati avevano gli occhi chiusi o rivolti al cielo. Nessuno d'essi era ancor morto. I loro petti si sollevavano con uno sforzo che faceva scricchiolare le loro coste. Le ossa delle estremità erano rotte; il corpo contratto e impiccolito projettavasi in avanti. L'agonia era orribile.
Udendo dei passi sotto di sè, una sola voce proruppe da tutte quelle fauci bruciate e soffocate: Sete! sete!
Noi non avevamo acqua, nè scale. Bar Abbas si precipitò dall'altipiano per andar a cercar qualche cosa. Quel buffone era anch'esso addolorato! Io dissi il mio nome. Io ero conosciuto da tutti i patrioti dell'ex regno d'Erode. Allora un'altra parola scappò fuori da tutte quelle labbra infiammate come la bocca di un forno: Vendetta!
- Sì, fratelli, risposi io: morite in pace; voi sarete vendicati.
Due o tre di quei petti avevano cessato di sollevarsi.
Maria piangeva.
Justus, la testa china, sembrava desolato e guardava quella donna.
Io mi torceva, non potendo dar loro nessun soccorso, non potendo nè alleviare nè abbreviare quell'agonia.
Restammo silenziosi, ascoltando quel singhiozzo che straziava l'anima.
La luna continuava la sua ridda scapigliata in mezzo alle nuvole cacciate dal vento; il grillo si lagnava nelle fessure della roccia che cominciava a divenir fredda; il cri-cri chiamava la sua compagna; il cucullo gettava la sua monotona11 nota al vento che soffiava l'alito appestato dalla valle ai nostri piedi; lo sciacallo più lungi latrava dalla gioia. Mentre le finestre del palazzo d'Erode risplendevano per la festa di Claudia e del governatore della Siria, il respiro dei suppliziati poco a poco si spegneva. E Bar Abbas non arrivava! Non potei più rattenermi.
- Addio, gridai, precipitandomi verso il giù della collina.
- Nel cielo! mi risposero le due ultime voci che restavano ancora distinte.
Quegli infelici credevano quasi tutti alla risurrezione.
Poco dopo, Justus mi ricondusse Maria. Bar Abbas arrivò troppo tardi. Il sacrifizio era consumato.
L'aria ripeteva ancora il grido: Vendetta! vendetta!
- Oh sì vendetta!... Chi era dunque quella donna che avevo veduta nel circo? Come era bella, mio Dio, come era bella!
Il giorno seguente, fino all'alba, quegli ebrei che si erano astenuti la vigilia di andar a vedere i giuochi dei gladiatori stranieri, occupavano quella parte dell'anfiteatro che circonda come due ale la loggia di Pilato, per andare a sollazzarsi del morituri te salutant dei loro martiri. Erano tristi, silenziosi, concentrati; si sarebbe detto che fossero in corruccio.
Lo spettacolo di Pilato non valeva, certo, quello dei suoi padroni di Roma. Egli non dava il combattimento di venti elefanti contro un pugno di Getuli armati di giavellotti che Pompeo presentò nel suo secondo consolato, nè le sessantatrè pantere di Scipione Nasica e di Lentulus, nè i cinque ippopotami opposti ai ventitrè coccodrilli di Sagurus, nè la caccia dei cento leoni organizzata da Silla, nè quella dei trecento e quindici leoni data da Pompeo, o quella di quattrocento data Cesare. Non c'erano i tremila e cinquecento leoni, tigri e pantere d'Augusto, nè finalmente i trecento orsi contro altrettanti leoni e pantere di P. Servilius. Ma il povero spettacolo di Pilato, tal quale era, bastava al gusto poco ancora solleticato di quegli Asiatici.
Pilato faceva uccidere, in quella seconda giornata di feste, dieci tigri, dieci coccodrilli, dodici leoni ed una pantera, che, dicevano, li valeva tutti; e per aguzzare l'appetito, dodici condannati per delitto d'alto tradimento verso Cesare: quarantacinque teste!
Allettato dal sangue della vigilia, il popolo si mostrava oggi di buona voglia. Lo spettacolo non prometteva egli di essere ben atroce? Si udivano qua e là ridere le donne, gli uomini smettevano la loro gravità, e s'imbrattavano la faccia con grappoli d'uva, e là ove trovavasi Bar Abbas era un susurro, uno scattar di lazzi, una gesticolazione animata, un vociare alto, un tale sconcio diavoleto infine che pareva d'essere al mercato dei legumi.
Credetti per un momento che quel monellaccio intavolasse da un capo all'altro del circo una conversazione con me, o con Pilato, o che scoccasse dei baci a Claudia, e dei torsoli di cavolo a Pomponius Flaccus. Bar Abbas aveva portato sotto il mantello un piccolo maiale, che aveva trovato non so dove, poichè quel quadrupede è cosa rarissima ed antipatica nella Giudea ed a Gerusalemme. Lo mostrava di tanto in tanto, lo mordeva all'orecchio, e lo faceva grugnire come un ossesso. È in questa guisa che si era procurato un posto, e molto comodo, avendo messo in fuga tutti i suoi vicini; di maniera che se ne stava tanto comodamente quanto Pilato.
Al tocco, gli abitanti del palazzo d'Erode arrivarono, e si posero nei loro posti come il giorno prima. Qualche minuto dopo, le trombe suonarono per annunziare che lo spettacolo cominciava. Questo fu il segnale per i bestiarii di sollevare le grate di ferro alle bestie feroci, per i guardiani di condurre i prigionieri, e pel popolo ebreo di levarsi come un sol uomo e scappar fuori dall'anfiteatro. Il vuoto più assoluto si fece quindi intorno a Pilato, a sua moglie ed al governatore di Siria, ai due lati dove stavano.
Justus ed io restammo soli, vicinissimi a Claudia. Io sperava di vedere la maliarda del giorno precedente.
Claudia, Pilato e Flaccus si guardarono negli occhi.
L'effetto di quella protesta non durò lungamente. Altri oggetti vennero a far diversione.
I guardiani del circo collocarono al fondo del circo i sei condannati.
Li avevano coperti di una camicia rossa, credo pel decoro dello spettacolo, perchè i loro abiti erano stati ben maltrattati nelle vicende dei giorni precedenti. Moab, questa fiata, era voltato dalla parte di Claudia. Tutti sei, s'erano piantati all'estremità del recinto, dosso contro dosso, serrati, le braccia incrociate al petto, la diritta armata del pugnale in avanti. E' formavano come un pilastro: e non un muscolo del corpo loro, o della faccia, tremava. Soltanto parevano molto pallidi. Con la testa e i piedi nudi - quella panoplia vivente serbava ancora un aspetto formidabile. Gli occhi giravano nelle loro orbite lanciando degli sguardi terribili. Quei denti serrati, quelle bocche semiaperte per respirare un alito potente, quelle narici dilatate promettevano una lotta terribile: la carne morderà forse la bocca che vorrà divorarla.
Ma quelle bocche altresì, erano spaventevoli.
Appena i bestiarii ebbero sollevate le grate, situate non alle due estremità dell'anfiteatro, ma ai lati, ecco da una parte lanciarsi come in un gruppo solo dieci tigri, dall'altra strisciar fuori come un fiotto dieci coccodrilli.
Un fremito di piacere, anzi che di terrore, corse in tutte le fila.
Il silenzio era completo.
Le tigri entrarono prime. I loro sguardi furono all'istante colpiti dalla presenza della folla che siedeva tutta intorno e di quel gruppo rosso ed immobile che era più vicino ad esse. Le loro narici fiutavano un odore forte, acre e pestilenziale. I coccodrilli coi loro occhi piccoli e rossastri scorsero a prima vista le tigri che stavano loro di faccia: e d'uno sguardo di traverso, a dieci passi dalla loggia di Claudia, i condannati. Tigri e coccodrilli compresero immediatamente, per istinto, che il loro più grande pericolo non veniva dagli uomini. Tosto le due bande sostarono per osservarsi reciprocamente. Le tigri si accosciarono ventre a terra, la testa allungata, lo sguardo fisso e come affascinato. I coccodrilli si serrarono in linea, l'uno toccando l'altro, non dando segno di vita che per un movimento inquieto degli occhi. Uno solo fra essi, il più vecchio forse, una bestia enorme, indietreggiò fino alla parete dell'anfiteatro, e col ventre appoggiato contro il muro cominciò a farne lentamente il giro a ritroso.
- Olà, tigri, principi miei signori, gridò Bar Abbas dal suo posto, attenti! attenti! ecco il sagan Hannah che vi minaccia alle spalle.
Un grande scoppio di risa accolse questa giullarata, ed il nome di Hannah restò al coccodrillo della retroguardia.
L'esitazione dei due eserciti non durò a lungo. I coccodrilli si decisero i primi. Essi avevano confidenza nelle loro corazze, come arma difensiva, e nei loro rictus - vere voragini irte di pugnali - come arma offensiva. All'uopo, la loro coda di porco avrebbe servito di clava.
Le tigri compresero che non avevano che a tenersi bene, e si tennero bene. Uno dei coccodrilli, il più giovine, fece un passo avanti, levando il capo radendo col ventre la sabbia, giacche è al ventre ed alla gola soltanto che quei mostri sono vulnerabili. Il movimento audace del primo trascinò gli altri; la banda intera, comprendendo la forza della sua solidarietà, avanzò. Le tigri non lasciarono la loro posizione; solamente da accovacciate che erano si appoggiarono sulle loro piote, come per prendere uno slancio. Questa prudenza sembrò senza dubbio disonorante per uno di essi, che gettando un urlo soffocato spiccò un salto di fianco, isolandosi dai suoi colleghi. Dopo questo primo salto, quel tigre audace ne fece un secondo da un altro verso, tentando una diversione, e con un terzo, si slanciò sopra il coccodrillo dell'estrema sinistra. Esso calcolava forse di piombargli sul dorso, ed impegnar la lotta su quel terreno roccioso. Ma aveva mal calcolato lo slancio. Il coccodrillo minacciato fece un piccolo scarto da parte, e ricevette il tigre nella sua bocca. Fu affar d'un minuto. In un lampo si vide il tigre tagliato in due, e il coccodrillo rovesciato sul dorso, col collo orribilmente lacerato.
- Bravo! gridò Bar Abbas: l'onore è intatto dalle due parti. Se per altro avessero pensato a profumarsi l'alito sarebbe stato migliore.
Infatti l'aria ne era infettata.
Mentre che due membri dei campi opposti avevano impegnato quello sconsigliato duello, il resto dei combattenti, non cessava di sorvegliarsi. Il risultato di quella prova, sembrò per altro impressionare i coccodrilli, che si credevano invulnerabili come Achille. Essi indietreggiarono leggermente. Al contrario le tigri, alla vista del primo sangue, cominciarono ad agitarsi.
Non una di esse stava adesso tranquilla e silenziosa. S'udiva un ruggito sordo come il borbottare lontano del tuono. Il gruppo si ruppe. Mentre quattro o cinque si davano a scambietti fantastici, le altre si tenevano ferme al loro posto.
I coccodrilli non comprendevano niente di quella danza pirrica dei loro nemici. E' si sbrancarono per seguirli cogli occhi, e forse, prenderli al volo. Ma in sul più bello di questa evoluzione sentirono che le tigri danzatrici, piovevano sui loro dorsi come tanti blocchi di granito, mentre le altre facevano un movimento di fianco per assalirli di dietro. La mischia cominciava.
Le tigri s'erano accampate sui dorsi dei loro nemici, e dopo aver provato colle zanne e le unghie, di sdruscirne le dure squame, li abbracciarono, e cominciavano a straziare l'epidermide più tenera del ventre. Così dilaniati, i coccodrilli si rovesciavano, e quelli che non potevano colpire il loro nemico fuori di portata, divoravano l'inimico aggrappato al dorso del fratello vicino. In un volger d'occhi l'arena fu gremita di visceri e di brani di carne. Cinque coccodrilli e quattro tigri erano morti.
Restavano ancora sei tigri, quattro coccodrilli e il solitario che Bar Abbas chiamava Hannah, il quale continuava il suo giro d'osservazione lentamente, non perdendo mai di vista il campo di battaglia, nè staccando mai il suo ventre dai muri del circo. Ogni prudenza era ormai cessata. I combattenti erano in preda al furore. I quattro coccodrilli insanguinati inseguivano le tigri, strisciando rapidamente, presentando sempre il loro rictus formidabile, ghignando atrocemente. Le tigri saltabeccavano con rapidità vertiginosa da ogni parte, il più alto che potevano, di maniera che i coccodrilli obbligati a tener la testa volta in su, lasciavano scoperto il collo ed il fianco. Le tigri attaccarono per di dietro. E l'attacco ebbe luogo ai piedi dei condannati, forzati così ad entrare in battaglia.
Qui avvenne qualche cosa di spaventevole, di impossibile a raccontarsi, perchè gli occhi non ebbero tempo di seguire l'azione.
Vedemmo succedersi due truci gomitoli che rotolarono nell'arena. Il primo delle tigri aggraffate ai coccodrilli, dilacerantili, e ritirantisi esse stesse straziate; il secondo, dei prigionieri gettatisi su ciò che restava di quelle bestie feroci, tigri e coccodrilli, accollacciantisi, e rivolgentisi nella sabbia. Il sangue spruzzava fino a noi. C'era come una pioggia di lembi di carne, che volteggiava nell'aria. I coccodrilli restarono a mezza via, estinti, distrutti. Ma quel gruppo delle tigri aggrappate agli uomini, e di uomini attaccati alle tigri, ora gli uni avendo il disopra ed ora le altre, rotolò a balzi fino all'altra estremità del circo, dove si fermò, come una massa ammadiata di sabbia, di sangue, di pelli, di carne e di stracci.
Un momento si credette che tutto fosse finito, e Bar Abbas già domandava gli onori del trionfo pel prudente Hannah, che s'era tenuto a parte della mischia. Ma ben tosto quel mucchio fangoso si animò nuovamente.
E allora vedemmo una testa spiccar dalle viscere di una tigre, e sollevarsi con una precauzione infinita; poi una mano, tergere il sangue dagli occhi. Il possessore di quella testa e di quella mano guardò da prima il carnaio ove si trovava, poi attorno attorno, come chi si risveglia da un sonno d'ubbriachezza. Questa ispezione non fu lunga. Immediatamente un essere che aveva le forme umane, uscì da quella pozzanghera infetta, e saltò in mezzo dell'arena, avendo cura di munirsi d'un pugnale.
Nessuno a prima visto riconobbe quell'uomo. Era nudo, ferito, e come emerso da un bagno di marciume e di sangue. Raccolse un lembo di clamide, e si rasciugò il viso per vedere. Allora potemmo riconoscere Moab. Egli guardava stupidamente intorno a sè. Ma un grido di Bar Abbas lo riscosse in sussulto.
- Moab, in guardia, in guardia, Hannah entra in battaglia.
Difatti, il vecchio coccodrillo, vedendo che gli restava ancora un pericolo in quel coso vivente che si agitava all'altra estremità del circo, girò rapidamente e andò diritto verso di lui.
Non c'era tempo a riflettere. Il coccodrillo spiegava adesso altrettanta attività, collera e decisione, quanto aveva fin qui mostrato di calma. Moab, ferito, non poteva più correre a sua voglia. Il coccodrillo si spingeva sempre più avanti. Non avendo più la celerità per difesa, non restavagli che l'astuzia. Moab afferrò un blocco di carne e di stoffa in quella pasta sanguinosa che gli stava vicino, prese posizione, ed aspettò.
Il coccodrillo marciò sopra di lui con l'abisso della sua nera gola spalancato. E' si rizzò per inghiottire l'uomo. L'uomo cacciò il suo gomitolo di carne nella voragine. Non avea che un secondo di tregua. La pillola non soffocava il coccodrillo: e' l'inghiottiva. Ma in quel lampo di sosta Moab si gettò ventre a terra, saltò alla gola del mostro, col suo pugnale, lo squartò d'alto in basso e si tenne avvinto al suo collo come ad un albero. Il coccodrillo si dibattè ancora alcuni minuti, poi, nell'ultimo spasimo dell'agonia, slanciò a dieci passi lontano Moab svenuto, tanto per l'orribile fetore della bestia quanto per lo sforzo fatto.
I guardiani del circo accorsero allora, onde spazzare quelle carcasse, e trovarono Moab ancora vivente.
- Grazia, grazia, cominciò a gridare la folla.
Ma avanti che Pilato avesse tempo di decidersi, Claudia aveva alzato la mano col pollice ritto come le vestali romane. La grazia era accordata. Si trasportò Moab per la sanavivaria, e lo si lasciò alle cure dei medici.
In pochi istanti, gli schiavi sbarazzavano l'arena, ed aprirono alcuni vomitorii onde disinfettare l'aria il più presto possibile; poi con dei rastrelli coprirono di sabbia le pozze di sangue. La seconda parte dello spettacolo principiava.
Le trombe suonarono.
Il direttore dei giuochi fece aprire una porta di fianco, e sei cavalieri entrarono nell'arena.
Erano sudditi di Aretas re di Petra. Le loro tuniche gialle armonizzavano coi loro visi bruciati dall'alito del deserto, e coi loro magnifici cavalli neri della Numidia. Portavano sul capo un superbo turbante celeste, colore della loro tribù, ed erano armati di spade, giavellotti, pugnali, e d'uno spiedo. I cavalli non portavano sella nè briglie.
Dal lato opposto del circo, si condussero i sei condannati vestiti di una leggera tunica rossa, la testa ed i piedi nudi, armati soltanto di una daga romana.
I cavalieri fecero il giro del circo, e si fermarono in isquadrone sotto il podium. I sei condannati vennero a mettersi davanti a loro alla testa dei cavalli.
Allora il cancello sotto la loggia di Claudia si alzò, e dodici leoni con lunga criniera irruppero nell'arena.
Passando dalle tenebre dei loro antri alla luce del giorno, sembrarono come abbagliati. Gli uni sbadigliarono, gli altri ruggirono, alcuni si misero a sgambettare, mentre ve n'era che si ruotolavano con voluttà nella sabbia. Cosa era l'uomo per questi re del libero spazio perchè essi dovessero prendersene pensiero o accorgersi della sua presenza? Ma l'uomo non sembrava neppur egli tocco da quel formidabile pericolo. I cavalli soli tremavano, e si ricoprivano di un sudore agghiacciato. Essi allungavano le loro sottili teste sopra le spalle dei condannati allineati dinanzi a loro, come per implorarne protezione. Un nitrito imprudente scappato al più pauroso, li denunziò ai leoni.
In un lampo, e' si rizzarono tutti, orecchie tese, faccia al vento, occhio scrutatore: e scoprirono di rimpetto il nimico e la preda che li attendeva. I leoni per altro non si affrettarono. Alcuni, odorando l'aria o battendosi i fianchi colla coda, sedettero sopra le lacche, mentre gli altri fecero lentamente un movimento in avanti.
Uno dei cavalli, il più spaventato, vedendo avvicinare il pericolo, si slanciò e cominciò a correre pel circo, demente e scapigliato, trascinando il suo cavaliere. Questo fu il segno della caccia e del combattimento.
Tutti i leoni corsero dietro al fuggiasco passando come turbine dinanzi al gruppo dei cavalieri. Questi lanciarono i loro giavellotti in mezzo a quella muta infernale, per attirarla a sè e liberare così il loro disgraziato compagno. Quattro o cinque leoni, feriti, si fermarono di fatti, e vedendo di dove era loro venuto il dolore e l'attacco, fecero fronte gettando un ruggito che incusse sgomento negli spettatori. Il fuggitivo fu raggiunto.
Egli abbattè un leone che aveva abbrancato il collo del cavallo; immerse il suo spiedo nella gola d'un secondo, che gli aveva afferrato la coscia colle sue zampe. Ma due altri leoni avevano azzannato per di dietro il cavallo, che si abbiosciò dal terrore sotto il suo cavaliere. Cavallo e cavaliere perirono. Nondimeno il terribile Siriaco, morendo, ebbe ancora il coraggio di immergere il suo pugnale nel fianco d'un terzo leone.
Dall'altra parte, quattro leoni piombarono sopra la banda che stava ferma sotto il podium. I condannati li ricevettero sulla punta della daga, i cavalieri sui loro spiedi. V'ebbe un istante in cui non si distingueva più nulla. Ad un punto, quattro cavalieri furono travolti dai loro cavalli che nitrivano di spavento. Tre uomini a piedi, un cavallo col suo cavaliere e i quattro lioni, non si alzarono più. Uno dei combattenti, ferito mortalmente, rotolava dalla sua cavalcatura, e arrestava, come il pomo d'oro di Atalanta, le bestie feroci che lo inseguivano. I giavellotti solcavano l'aria del circo. Menahem s'impadronì allora d'uno spiedo, e saltò sul cavallo che volava nel ricinto come un'aquila. Gli uomini a piedi, tutti feriti, corsero sopra i due leoni che facevano strazio del cavaliere caduto. Là s'aprì un combattimento come nell'Iliade sul corpo di Patroclo. I cavalieri, non potendo padroneggiare i loro cavalli, la cui paura sembrava delirio, attirarono fuori della lotta i tre leoni di cui erano inseguiti, aiutandosi dei loro giavellotti e dei loro spiedoni. I due uomini furono messi a brani ed i leoni feriti gravemente, Menahem ne uccise un altro, ma due cavalieri soggiacquero ancora.
Non restava dunque più fra i condannati che Menahem leggermente ferito, ma il cui cavallo era intatto. Cinque dei Siriaci del re Aretas, erano estinti. Otto leoni erano stati ammazzati, e gli altri quattro vagavano feriti intorno al circo. Due uomini dunque contro quattro leoni; partita in equilibrio.
Menahem prese l'iniziativa, ed assalì. Uno dei leoni gli saltò sopra, mentre ch'egli uccideva l'altro conficcando nel suo potente petto la daga che appoggiava sul suo cavallo fino a rovesciarnelo. L'ultimo dei Siriaci lo disimpegnò, uccidendo quel mostro per di dietro, traversandolo da parte a parte. Nello sforzo, per altro, l'infelice Siriaco perdette l'equilibrio, e cadde. E' si trovò fra gli artigli dei due ultimi leoni i quali, feriti mortalmente, ebbero però ancora bastante forza per ridurlo a minuzzoli. Quando Menahem, rialzandosi, accorse in suo aiuto, fu a tempo per finire i leoni ma non per salvarlo. Quindi, di tutto il combattimento, restava solo Menahem ferito, ed un cavallo, il quale era ito a morire a pochi passi da lui, esausto dalla fatica e dal terrore più che dalle ferite.
La prova però di quel disgraziato non era ancora finita. Doveva scontrarsi ancora con quella terribile pantera che si diceva fosse più temibile che tutte le tigri ed i leoni già uccisi.
Ad un segno di Pilato una grata si alza, e la pantera è messa in libertà, innanzi che Menahem abbia il tempo di riaversi. Egli aveva un braccio divorato, il fianco sdrucito, ma la mano diritta intatta, le gambe sane, e ogni specie d'armi a sua disposizione. Gli schiavi non avevano spazzato fuor dell'arena i cadaveri e le carcasse dell'ultimo massacro.
Uscendo dalla sua tana, e trovandosi in mezzo a tutta quella carnificina, la pantera sembrò per un istante sorpresa. Indietreggiò, si postò al muro, o piuttosto si accosciò sotto un fremito vertiginoso che s'impadronì di tutto il suo corpo. L'istinto le rivelava la presenza di un inimico che aveva causato quell'eccidio d'individui della terribile sua razza. Non monta pel cavallo, non monta per l'uomo, ma chi aveva ucciso tutti quei leoni? Tutto quel rosso l'abbagliava o meglio l'affascinava.
Allungò il grugno non pertanto sopra una di quelle pozze di sangue e la leccò. Quella libazione cominciò a inebbriarla. Un giavellotto che la colpì sulle narici la fece balzare. Allora comprese il pericolo, e scoprì l'inimico. Menahem si avanzava. Questa volta era l'uomo che dava principio alla caccia.
Menahem conosceva le pantere, le tigri, i leopardi, gli sciacalli, come i cani ed i gatti della casa paterna. Egli passava le giornate intiere nelle solitudini del deserto, per stanare quei formidabili devastatori delle greggie di suo padre.
Il dolore raddoppiò il fremito della pantera. Si slanciò su Menahem, che si tirò da una parte e la punse dello schidone. Egli si divertiva ora. La pantera si mise a sgambettare pel circo. Menahem la seguì, scoccandole soltanto dei giavellotti. Voleva ucciderla sotto la loggia di Claudia. La pantera balzava urlando orribilmente, si aggrappava alle sbarre della grata12 delle bestie ed a quella che serviva di riparo agli spettatori della prima fila, i suoi sbalzi erano prodigiosi, ma ovunque trovava degli spettatori che la impaurivano. Menahem la incalzava senza ressa, incrociava i suoi salti, la spingeva, l'incalzava sempre più verso il sito ove voleva ucciderla, sbarrandole la strada, e non cessando di tormentarla coi giavellotti. Il terrore della pantera divenne demenza. Il suolo le sembrò mortale da per tutto.
Essa mirò allora a quella parte dell'anfiteatro, che gli Ebrei avevano lasciata vuota per manifestare a Pilato il loro orrore. Menahem la rigettava verso quel sito. La pantera, ridotta all'estremo, fece un prodigioso salto. Passò al disopra delle sbarre che proteggevano gli spettatori, e venne a cadere a dieci passi da me e da Justus, vicino a Claudia. Un grido di terrore scoppiò in mezzo alla folla, ed un mortale salva chi può cominciò. Claudia si alzò in piedi, e strappò dai suoi capelli quel piccolo pugnale lungo ed affilato, di cui le Romane facevano uso per tenere confitti sulla loro testa il giro di capelli posticci che formavano torre. I centurioni, il governatore di Siria che le stava vicino, suo marito, tutti si disponevano a coprirla del loro corpo. Io mi alzai pure sguainando il mio pugnale.
- È una Romana, disse Justus, tirandomi della falda del mantello.
- È una donna, risposi, collocandomi in guisa che la mia spalla toccasse la persona di Claudia, separati soltanto dal cordone di seta che segnava la demarcazione fra i Romani e la loggia. Claudia udì la parola di Justus e la mia risposta.
In questo mentre la pantera si rialzava. Trovandosi in faccia ad un nuovo pericolo, quando forse si credeva salvata, entrò in furore. Fece un balzo per gettarsi sopra di me o di Claudia. Io l'aspettava al varco, il braccio steso, il tallone sinistro appoggiato solidamente al muro del vomitorio, e la gamba diritta in avanti. La pantera venne a rovesciarsi su me. La ricevetti sul pugnale, ove s'infilzò. Il contraccolpo mi fece piegare sui garretti, e mi respinse così vicino al petto di Claudia, che l'alito ardente della belva ci percosse a entrambi la faccia. Il pericolo era immenso. Con uno sforzo immenso rigettai la pantera nel circo, e Menahem, che alla sua volta l'attendeva, la ricevè sul suo spiedo e la sterminò.
- Il tuo nome, mi disse Claudia, per nulla spaventata di ciò che era accaduto sì vicino a lei.
Io la guardai, poi salutandola con un sorriso, le risposi:
- Sei molto bella, o Romana.
E mi allontanai.
- Seguilo, la intesi dire a Cneus Priscus, che stava dietro a lei.
- Lo conosco, rispose il centurione.
Egli mi conosceva! Bel miracolo!
Chi era io?
V
Chi era io?
La storia della mia famiglia si confonde con quella del mio paese.
Due giorni dopo quel macello d'uomini, di donne, di fanciulli e di vecchi, fatto dai soldati d'Antioco nelle caverne del deserto che si stendono dalle vicinanze di Betlemme al Giordano, - perchè gli Ebrei, essendo giorno di Sabato, non si difesero - un adolescente di sedici anni si presentò a Mattatia, il padre dei Maccabei, e domandò di battersi contro il nemico d'Israele. Quell'adolescente si chiamava Gad, e veniva da Kariot. Suo padre l'inviava, ma era troppo povero per dargli delle armi. Mattatia lo provvide di una spada.
- È troppo brutta, disse il giovincello al gran sacerdote, non la voglio.
- Ma allora, ragazzo mio, con che cosa ti batterai?
- Con questo, rispose Gad, tirando di sotto la sua tunica una specie di coltellaccio, un lungo pugnale, fino a tanto che io mi abbia conquistato delle armi che mi vadano a genio.
L'occasione non si fece aspettare.
Mattatia morì poco stante. Giuda gli succedette, e il suo primo scontro con Apollonius, generale dei Samaritani, ebbe luogo. L'esercito nemico fu battuto. Apollonius ed alcuni dei suoi luogotenenti cercarono di arrestare gli Ebrei, ma Giuda Maccabeo e Gad si gettarono sopra di loro come due leoni e li uccisero13. Gad prese le armi bellissime d'uno dei capi dell'esercito di Apollonius, che sono sempre state di poi le armi dei miei antenati, e sono tutt'ora le mie.
Da quell'istante, in tutti i campi di battaglia, Gad si trovò alla diritta di Giuda. Egli era con lui allorchè Saron e ottocento dei suoi furono uccisi a Bethoron: quando Gorgias fu sconfitto a Emmaus, ed in seguito fino ad Ashdod, a Jenina e nelle pianure dell'Idumea. Egli era con lui quando Lisias fu battuto a Bethsur, ed ebbe cinque mila uomini uccisi. Gad accompagnò Giuda a Gerusalemme, che fu restituita al culto di Jehovah ed al popolo ebreo. Gad partecipò poscia a tutte le gesta, a tutte le glorie dei figli di Mattatia. Con Giuda egli concorse a domare i discendenti di Esaù, gl'Idumei, a Acrabattene, poi gli Ammoniti, di cui prese e distrusse la città di Jazer, e di cui condusse prigionieri i figli e le donne. Con Simone Maccabeo, Gad prese Tiro e Tolemaide. Aiutò Giuda e suo fratello Gionata a distruggere il paese di Gilead, e percorse il deserto, spianando le città di Bosar, Malle, Casphore, uccidendo tutti, aggiungendo all'orrore del deserto della natura, l'orrore del deserto dell'uomo14.
Timoteo, il comandante degli Ammoniti e degli Arabi, soccombette, come tutti i generali dei re Siriaci; giacchè Naim ed il suo tempio furono distrutti: tutto fu ucciso. A Ephon i maschi soli furono ammazzati; dopo di che, si ritornò a Gerusalemme cantando salmi! Se a Dio piace lo sterminio, doveva essere ben contento.
Ora si trattava di prendere la cittadella di Gerusalemme ancora in mano dei partigiani di Antioco, che era morto in allora nell'età di cento quarantanove anni, lasciando la corona ad Antioco Eupator, suo giovane figlio. Gli assediati domandarono aiuto al nuovo re. Antioco partì da Antiochia con un esercito di circa 100,000 fanti, 20,000 cavalli e 32 elefanti. Giuda gli venne incontro e si fermò a Batzachaviah, ove si impegnò la battaglia.
Gad era con Eleazar, fratello di Giuda, allorchè, vedendo un magnifico elefante, che egli credette portasse il re, si cacciò sotto il suo ventre e lo uccise. Eleazar ne restò schiacciato. Gad potè salvarsi, e seguì Giuda nella sua ritirata verso Gerusalemme, poichè il numero dei nemici l'aveva spaventato.
Antioco assediò Gerusalemme. Giuda sostenne l'assedio con grande valore e costanza. La fame, - tutto il paese era distrutto ed incolto a causa dell'anno sabatico, - obbligò ben presto Antioco a levar l'assedio ed a ritirarsi, tanto più che le faccende del suo regno lo richiamavano ad Antiochia. Egli fu poi vinto ed ucciso da Demetrius figlio di Seleucus, che s'impadronì del regno, ed inviò Bacchides per abbattere la potenza dei Maccabei.
Bacchides ritornò senza aver fatto nulla contro l'inimico, Demetrio inviò allora Nicanor. Questi tentò di impadronirsi di Giuda col tradimento in un finto convegno. Gad scoprì il tranello da un movimento fatto da Nicanor, ed ambi riuscirono a scampare. Nicanor fu battuto ed ucciso ad Adassa, e il suo esercito fu disperso. In pari tempo Alcimus, il primo gran sacerdote scelto dal re fuori della famiglia di Aron, fu avvelenato dagli altri preti e morì. Giuda fu nominato allora dal popolo a quel posto, riunendo così nella sua persona il potere politico ed il potere religioso.
Gad accompagnò l'ambasciata che Giuda inviò a Roma per invocare l'amicizia e l'appoggio del popolo Romano. Ma Giuda non ebbe il tempo di goderne i beneficii. Demetrio lanciò di nuovo Bacchides sul nostro paese per vendicare15 Nicanor, ed alla fine Giuda fu vinto ed ucciso sulla montagna di Aza. Gad era stato gravemente ferito. Quando si rialzò dalla sua lunga malattia egli prese per moglie Oldah, la primogenita delle figlie di Simone, terzo fratello di Giuda.
Giuda aveva liberato la nazione dal giogo dei Macedoni, ma la sua opera non era consolidata.
Gionata, che gli succedette nel doppio potere, lo vendicò, battendo Bacchides e obbligandolo a levar l'assedio di Bethagla, dopo varie vicende. Bacchides gli accordò alla fine la pace, ma Gionata dovette rinunziare a Gerusalemme e ritirarsi a Michmash.
L'alleanza di Gionata fu più tardi domandata dai due re rivali: Alessandro Bela e Demetrius, che ambi gli facevano grandi promesse. Gad, che godeva di grande influenza sopra il suocero Simone, lo decise per l'alleanza di Alessandro, ed egli a sua volta decise Gionata in questo senso. Demetrio non ebbe il tempo di vendicarsene; fu ucciso in battaglia essendo caduto col suo cavallo in un fosso. Alessandro permise a Gionata d'indossare la porpora come i re.
Apollonius Daus, governatore della Celesiria per conto di Alessandro, non si rassegnò al vedere Gionata sì libero e sì onorato. Gli cercò briga. Gionata non indietreggiò dinanzi la guerra, e dopo aver maltrattato l'esercito di Alessandro, prese e distrusse Ashdod, Ascalon, ed altre città. Alessandro gli inviò in regalo il bottone d'oro per aver battuto il suo governatore, il quale aveva dichiarato la guerra agli Ebrei contro la sua intenzione.
La Giudea era divenuta un principato teocratico sotto la protezione dei re di Siria, ai quali pagava un tributo di trecento talenti, le tre toparchie di Samaria, Perea, e Galilea incluse. Gionata stette senza decidersi apertamente e con abilità fra i due pretendenti al trono siriaco. Dopo aver aiutato Alessandro Bela, aiutò Demetrius Nicanor suo avversario, e quando Trypho, generale d'Antioco, figlio di Bela, attaccò Demetrius, Gionata l'assistette ancora.
Lo scopo del governatore della Giudea era di sbarazzare della guarnigione straniera la cittadella di Gerusalemme, che dominava il Tempio e la città inferiore. Non ottenendo ciò da uno, sperava nell'altro: egli tentò anche l'alleanza coi Romani; la cittadella era la sua indipendenza. Egli non doveva assistere alla sua liberazione. Trypho aveva concepito il progetto di uccidere Antioco suo padrone ed impadronirsi del trono. Egli vide in Gionata un ostacolo, sapendolo affezionato al re. Marciò quindi verso Gerusalemme. Gionata gli venne incontro con un esercito di 40,000 uomini. Trypho dissimulò, ed ingannò così bene il gran sacerdote, ch'egli licenziò il suo esercito e accompagnò Trypho a Tolemaide con soli mille uomini. Una volta nella città, Trypho ne fa chiudere le porte, uccide i mille uomini di Gionata e lo ritiene prigione insieme con Gad.
Il popolo Ebreo nominò Simone gran sacerdote e successore di Gionata. Trypho, chiamato dalla guarnigione di Gerusalemme assediata, accorse; ma la gran quantità di neve caduta lo forzò a ritornare in Antiochia. Arrivato a Gilead fa uccidere Gionata e Gad. Simone diede ordine che il corpo di suo fratello fosse riunito a quelli di suo padre e di Giuda a Modin, ove eresse il magnifico sepolcro che Claudia volle visitare. Alla fine Simone liberò la cittadella dalla presenza dei soldati stranieri, e redense il popolo Ebreo dal tributo ai Macedoni, dopo cento e settant'anni di dominazione assira16, da Seleucus Nicanor in poi. La cittadella fu demolita, il Tempio fu riedificato più alto e dominò la città. Il carattere del governo dei Maccabei si delineava sempre più.
Il governo di Simone, l'ultimo dei cinque figli di Mattatia, fu meno turbato che quello di suo padre, ma la sua fine fu altrettanto tragica. Sorpreso in una festa dal suo genero Ptolomeo, Simone fu ucciso, e sua moglie e due dei suoi figli fatti prigionieri. Ptolomeo inviò anche due assassini per uccidere Hircanus, il terzo figlio di Simone; ma avvertito da Nahum figlio di Gad, egli potè salvarsi e rifugiarsi a Gerusalemme, che lo riconobbe come successore di suo padre e rifiutò l'entrata a Ptolomeo.
Hircanus, come i suoi antenati, ebbe lunghe contestazioni con i re di Siria, e profittò dei loro dissensi per saccheggiare Samaria e stendere e consolidare le sue provincie. Egli organizzò una guardia di soldati stranieri, per pagarla mise la mano nel tesoro della tomba del re Davide, fortificò la sua lega coi Romani, ond'essere più sicuro contro i re Siriaci. Hircanus finalmente abbandonò il partito dei Farisei che l'aveva sostenuto fino allora, ed ecco per quale causa.
Hircanus, essendo di buon umore, in un festino disse ai farisei:
- Se mai v'accorgete che io non cammino nella via della legge, avvertitemene, e ritornerò indietro.
Un certo Eleazar, ch'era presente, gli rispose:
- Poichè tu vuoi conoscere la verità, eccola: Se vuoi essere un uomo giusto, rinunzia al gran sacerdozio e contentati del governo civile.
- E per qual ragione dovrei io rinunziare, figlio mio, al gran sacerdozio? domandò Hircanus.
- Perchè, rispose Eleazar, abbiamo udito dire dai nostri anziani che tua madre era stata schiava sotto Antioco Epifanio.
Hircanus, punto da questa rivelazione, divenne malinconico, poichè amava l'eroica madre sua: quella stessa che dall'alto delle torri di Dagon, ove Ptolomeo la flagellava insieme agli altri fratelli d'Hircanus, gli aveva fatto segno di non rallentare l'assedio, di prender la fortezza e di castigare Ptolomeo, dovesse questi ucciderli tutti. Nahum17 osservò:
- Ciò che Eleazar ti ha detto, gli è stato consigliato dai Farisei.
- È impossibile, rispose Hircanus.
- Ebbene, domanda loro che castigo merita Eleazar per l'insulto che ti ha fatto.
Hircanus seguì questo consiglio. Gli fu risposto: Le verghe. Hircanus, offeso, passò al partito dei Sadducei, e poco dopo morì.
Aristobulo, che succedette a Hircanus suo padre, fece il primo tentativo per cangiare il governo in reame, e cinse la corona, 481 anni dopo il ritorno degli Ebrei dalla cattività di Babilonia. Quest'uomo fu crudele. Egli gettò in prigione i suoi fratelli, fece morir di fame la madre, ed uccise per gelosia politica il fratello Antigono.
Ad istigazione di Alessandra, moglie di Aristobulo, Nahum l'avvelenò. Alessandra era stata minacciata dell'istessa sorte.
Alessandro Inneus, fratello d'Aristobulo, gli succedette.
Questo re non ebbe un sol giorno di riposo. Gli intrighi delle alleanze concluse al mattino e rotte alla sera, le continue guerre coi Parti, cogli Arabi, coi Siriaci e cogli Egiziani, le insurrezioni interne, gli dettero sempre da fare. Egli trucidò più di 30,000 dei suoi sudditi, che durante sei anni sostennero la rivolta. Essi avevano cominciato ad insultarlo a Gerusalemme, alla festa dei Tabernacoli, lapidandolo con dei cedri18.
Nahum fu una delle vittime di Alessandro Inneus. I Farisei eccitavano il popolo. In una sola esecuzione egli ne fece crocifiggere 800, e fece scannare le loro donne ed i loro figli appiedi di quelle croci, mentre egli s'immergeva nell'orgie del suo palazzo colle sue concubine. Ottomila dei suoi soldati abbandonarono la bandiera e si gettarono nelle montagne per saccheggiare. Finalmente, dopo aver aggiunto diverse città degli Stati vicini al proprio, consumato da una febbre ostinata e dall'eccesso del vino, e' morì, dando il consiglio ad Alessandra, sua moglie, di riavvicinarsi ai Farisei se voleva regnare tranquilla.
Alessandra seguì il consiglio, e col titolo di reggente, ma in realtà lasciando governare i Farisei, tenne il potere per nove anni. Essa aveva investito il figlio primogenito, Hircanus, della dignità di gran sacerdote, conservando la corona pel secondogenito Aristobulo. Ella morì a tempo, giacchè Aristobulo, aiutato dal mio bisavolo Amon, era riuscito a scappare di notte dal palazzo e si era impadronito della maggior parte delle fortezze del regno. L'avrebbe egli deposta, se la non fosse morta a tempo. Il mio bisavolo, sadduceo come i suoi padri, aveva abbandonato Alessandra quando ella si era gettata ciecamente nelle braccia dei Farisei.
Hircanus, che era stato relegato nel Tempio da sua madre, non si rassegnò a lasciare il trono al fratello Aristobulo. Essi principiarono col farsi la guerra, ma poi vennero ad un accordo. Poco dopo però Hircanus si rifugiò presso Aretas, capo dell'Arabia. Essi levarono insieme un esercito, e vennero a mettere l'assedio a Gerusalemme. Essi contavano senza i padroni che erano di già in Asia: i Romani.
Un luogotenente di Pompeo, il quale batteva Tigrane nell'Armenia, fu inviato in Giudea. Scaurus ricevette l'offerta dei due fratelli - quattrocento talenti - ma siccome egli riteneva che Aristobulo, essendo più ricco e più generoso, fosse più solvente, rigettò le proposizioni di Hircanus, e forzò Aretas a levar l'assedio del Tempio, ove Aristobulo si era barricato.
Non era sufficiente l'aver comperato quei pirati Romani, l'essersi in seguito fatta la guerra, e che Aristobulo avesse battuto Aretas e Hircanus. I due fratelli portarono davanti a Pompeo stesso la loro querela. Pompeo si spiegò in maniera ambigua. Aristobulo marciò col suo esercito19 sopra la Giudea, e Pompeo gli tenne dietro. A Gerico, egli fece prigioniero Aristobulo e salì verso Gerusalemme. Amon, mio avo, e Absalon, zio e avolo di Aristobulo, chiusero le porte della città. Gerusalemme ed il Tempio furono presi d'assalto, e la Giudea divenne tributaria dei Romani, provincia della Siria, e diminuita di tutte le città che i nostri antenati avevano conquistate sugli Stati vicini.
Pompeo si mostrò moderato. Egli ristaurò le città ch'erano state danneggiate dalla guerra. Aristobulo ed i suoi figli furono inviati a Roma. Gabinus, comandante delle forze romane nella Siria, abbattè poco alla volta tutti i partigiani dei due fratelli, e divise la Giudea in cinque provincie, ognuna amministrata da un consiglio.
Hircanus era restato gran sacerdote. Aristobulo riuscì a fuggire di Roma: ma Gabinus lo riprese ben tosto e lo rinviò in ischiavitù. Il mio bisavo Amon divise la sua sorte; mentre che Ozias, il padre di mio padre, restava a preparare la sommossa che fu affrettata da Alessandro, fratello di Aristobulo.
Alessandro si trovò ben presto alla testa di una forza di trenta mila Ebrei. Ma Gabinus lo raggiunse presso il monte Thabor, lo sconfisse e gli uccise dieci mila uomini.
Crassus, che succedette a Gabinus, saccheggiò le immense ricchezze del Tempio, quantunque Eleazar, per salvarle, gli avesse scoperto e consegnato il balsamo d'oro che le valeva tutte.
Cesare, dopo aver trionfato di Pompeo, liberò Aristobulo e l'inviò in Giudea con due legioni. Ma i partigiani di Pompeo lo avvelenarono, e tagliarono la testa ad Alessandro, suo figlio, in Antiochia. La discendenza dei Maccabei si trovava così, se non distrutta, avvilita; e quell'Idumeo Antipater, che era stato l'amico ed il consigliere di Hircanus, e che fu il padre d'Erode, insinuandosi nell'amicizia di Cesare, divenne l'arbitro degli affari della Giudea.
Antipater, per ordine di Hircanus, assistette Cesare nella sua guerra contro l'Egitto. Gli è per questo che alla fine della guerra, Hircanus fu confermato da costui nella sua dignità di gran sacerdote, ed Antipater venne nominato procuratore della Giudea, malgrado le proteste di Antigonus, altro figlio di Aristobulo. Antipater, profittando della sua autorità sopra il debole Hircanus, s'affrettò ad elevare i suoi figli, l'uno, Phaselus, il primogenito, a governatore di Gerusalemme, e l'altro, Erode, il minore, appena quindicenne, a governatore di Galilea.
Questo adolescente esordì coll'impadronirsi di Hezekiah, capo di briganti e dei suoi complici, e col farli sterminare. Il sanhedrin si commosse di questa infrazione alla legge; perocchè, presso di noi, nessuno può essere messo a morte senza essere stato giudicato dal sanhedrin. Hircanus, spinto da questo corpo, citò Erode a venire a render conto della sua condotta. Erode si presentò dinanzi ai suoi giudici circondato da una guardia così forte che li ridusse al silenzio. Nondimeno, alla fine, il sanhedrin avrebbe pronunziato la sentenza di morte d'Erode, se Hircanus non l'avesse salvo, consigliandogli di uscire da Gerusalemme. Il governatore della Siria nominò Erode generale dell'esercito di Celesiria. Ed egli avanzavasi verso Gerusalemme per vendicarsi quando suo padre e suo fratello lo impegnarono a tornare indietro.
La storia della Giudea principia da questo momento ad essere quella di quest'uomo, e fu il più grande della nostra nazione, allato di Salomone e di Giuda Maccabeo. La Siria divenne il campo delle lotte delle depredazioni dei partigiani di Cesare e di Pompeo. Erode non si mise a tutta prima con i partigiani di Cesare. Cassius lo protesse, Marco Antonio lo ingrandì, Antipater era stato avvelenato. Erode lo vendicò facendo uccidere l'assassino. Il mio avolo Oziaz restò fedele alla discendenza dei Maccabei; mio padre si legò ad Erode, sedotto dalla sua audacia. Erode era stato confermato da Cassius nel comando della Celesiria.
Erode si trovava di fronte a tre pericoli: la vendetta di Antonio che aveva vinto Cassius protettore di lui; la gelosia di Hircanus, che altri cercavan sempre di eccitare; e le imprese di Antigonus, figlio di Aristobulus. Erode comperò Antonio, che non solo gli perdonò, ma nominò lui e suo fratello Phaselus a tetrarchi, e diede loro in mano gli affari della Giudea. Erode sposò la figlia di Hircanus, avendo già un'altra moglie della Idumea, Davis, che lo fece padre di Antipater. Egli si preparava a calmare i partigiani di Aristobulus, sposando Mariamne, figlia di Alessandro, uno dei figli di Aristobulus. Tutto ciò, per altro, non stornò la tempesta. Antigonus, aiutato dai Parti, si impadronì di Gerusalemme, prese per tradimento Hircanus e Phaselus, ed obbligò Erode a fuggire in mezzo ai più grandi pericoli, con sua madre, le sue mogli, sua sorella e i suoi amici. Egli li rinchiuse nella fortezza di Masada, a fine di sottrarli alla vendetta di Antigono, che aveva tagliato le orecchie al vecchio gran sacerdote Hircanus, ed avvelenate le ferite che Phaselus s'era fatte battendo della testa contro le mura della sua prigione per suicidarsi. Erode pure si sarebbe data la morte dalla disperazione, se mio padre non l'avesse fatto arrossire della sua viltà, e non avesse rialzato il suo coraggio20.
Dopo aver messo al sicuro nella fortezza la famiglia, i parenti ed ottocento dei suoi amici, e dato congedo ad altri otto mila ch'egli non poteva proteggere, Erode s'accinse a restaurare la sua fortuna. Mio padre l'accompagnò presso Malchus re d'Arabia, che era stato colmato di favori dal padre di Erode. Malchus gli rifiutò ogni aiuto. Allora Erode si salvò in Egitto, ove Cleopatra si prese d'amore per lui. Mio padre lo strappò dalle braccia di quella sirena, che aveva perduto tanti Romani. Erode s'imbarcò in Alessandria onde andare a Roma, e venne a Pamphilica, di dove una terribile tempesta lo sbalestrò in Rodi.
La città era rovinata dalla guerra contro Cassius. Erode l'ajutò a riedificarsi. Egli si fece costruire una trireme, e approdò a Brundusium, e di là si recò a Roma. Erode, sempre accompagnato da mio padre, restò a Roma sette giorni, e furono bastanti. Egli ricomperò da Marco Antonio il regno di Giudea, come aveva comperato la dignità di tetrarca. Il senato pubblicò il decreto. Ottavio ed Antonio lo colmarono di feste, ma egli partì immediatamente. La sua famiglia era assediata, i suoi amici perseguitati. Sbarcò a Tolomaide, vicino a Joppa, s'impadronì di tutte le città della Galilea, liberò la sua famiglia da Masada, presso Gerico, saccheggiò la piazza, e dopo tre anni di combattimenti, di avventure, di fortune e di rovesci, condusse il suo esercito sotto le mura di Gerusalemme.
Antigonus era stato dichiarato nemico dei Romani, ed Antonio, allora nella Siria, aveva inviato Sosius con diverse legioni per ajutare Erode. Gerusalemme fu assediata dallo stesso lato nord, donde Pompeo l'aveva presa. La resistenza degli assediati fu grande, ma alla fine le truppe di Erode e le romane presero la città d'assalto. La strage fu sì enorme che Erode intervenne, e domandò a Sosius se intendesse non lasciargli che un deserto per regno. Ottenne in fine dai Romani che Gerusalemme fosse risparmiata, pagando una taglia onde liberarsi dal saccheggio e dallo sterminio. Antigonus andò a gettarsi ai piedi di Sosius, che lo chiamò Antigono, ma lo trattò da uomo, ritenendolo prigioniero. Egli lo presentò ad Antonio. Questi lo riserbava pel suo trionfo, ma Erode lo comperò e gli fece tagliar il capo in Antiochia. E così finì, dopo cento e ventisei anni, il regno degli Asamonei - famiglia di preti, illustrata da tanti fatti coraggiosi, lasciando il regno ad un Idumeo, un mezzo ebreo, di nascita volgare, ma di cuor forte.
Parlerò altrove d'Erode.
I Maccabei sono stati dipinti come tipi d'eroi. Cosa hanno fatto essi pel loro paese?
Liberarono gli Ebrei dai Macedoni, e li diedero in mano ai Romani. Si francarono dai re di Siria, per cadere sotto la protezione dei proconsoli imperiali. Ma liberarono essi l'anima della nazione? L'Ebreo restò ebreo - cioè al di fuori del movimento del mondo, suddito d'un prete, allorchè si sarebbe dovuto alzarlo a cittadino libero. Ora il giogo della dottrina farisea abbrutiva il popolo ben più che il giogo della dominazione greca. Poichè si violava la legge di Mosè, non si doveva sostituirle la legge orale delle sinagoghe e del gran collegio. Il patto di Mosè era pesante; lo si fece più grave ancora con un'aggiunta di ridicole ordinanze. I Maccabei avevano cumulate le funzioni di gran sacerdote con quelle di re, ed avevano creato la monarchia teocratica che è una tirannia sovrapposta ad un'altra tirannia. Mosè aveva nel gran sacerdote abbozzato un sorvegliante del re; i Maccabei ne fecero il complice e la ripetizione.
Coi Maccabei, la classe di mezzo trionfò. Questa era ritornata dalla cattività di Babilonia non già istrutta dalla civiltà fastosa, splendida, voluttuosa, attiva degli Assiri, ma turbata, spaventata dall'idea che il popolo, sedotto da quell'esca, potesse sfuggirle di mano, e invidiosa delle classi aristocratiche che tendono a dare al popolo la libertà del benessere e quella della coscienza. L'esiglio per questa parte degli Ebrei - l'aristocrazia sadducea - che godeva e pensava, non era a Babilonia, ma in Gerusalemme. Il Fariseo era il carceriere dell'anima di questo popolo, di cui Mosè aveva voluto fare non lo schiavo di Dio, ma il suo sacerdote. Che aveva guadagnato questo popolo ad essere liberato dai Macedoni? L'intolleranza, la miseria, la solitudine. Il mondo si chiudeva intorno a lui; questo mondo era il peccato, l'inimico, l'impurità, peggio ancora che sotto le leggi del grande legislatore; la riserva che egli aveva imposto, aveva preso sotto i Farisei le proporzioni di un delitto. I Maccabei non emanciparono la nazione ebrea; la fecero soltanto cangiare di giogo.
Ecco da quali antenati io discendeva; ecco a qual setta io apparteneva. La mia famiglia, sadducea e gente da guerra, aveva nelle vene una goccia di sangue degli Asamonei; mio padre le infuse poi una goccia di sangue straniero.
VI
Io pensava a tutto questo, o per dir meglio tutto questo scorreva nel mio pensiero, come l'acqua d'un fiume passa sotto i nostri piedi, mentre che dall'alto del ponte noi contempliamo un lontano paesaggio perduto nell'ombra. Le due parole di Cneus Priscus «lo conosco» rilevate da un tal tuono amabile, che nella bocca di quel carnefice degli ebrei diveniva sinistro, fiammeggiavano dinanzi al mio spirito, e lo assorbivano.
La mia tempera non è di quelle che piegano sotto la paura. Io creava il pericolo per avere la gioia dell'emozione. Lavoravo da due anni ad infiammare la Giudea come gli altipiani di Puteoli, onde dare la caccia ai miei nemici. Non m'ero per nulla nascosto, nè stato in guardia, senza ostentazione però nè storditezza; in guisa che tutti sapevano che io ispirava ed incoraggiava tutto ciò che aveva forma d'odio contro i Romani. La gioventù di Gerusalemme mi salutava come suo capo, perchè io mi decidessi ad essere tale. La mia nascita, il partito al quale appartenevo, il mio lungo soggiorno a Roma, i miei viaggi in Grecia, in Egitto, nella Fenicia e nella Siria, in tutta l'Asia insomma, i miei gusti, le abitudini della vita, l'eleganza dei miei modi, le mie relazioni21, la mia apparente frivolità, le mie avventure, la mia ganza Maria di Magdala, che io aveva messa su come regina di Gerusalemme, tutto, incluso la mia persona, mi faceva risaltare come il punto più saliente e più risplendente della città. Era egli da stupirsi, se Cneus Priscus mi conoscesse? Nulla ostante mi sembrò che nella intonazione dolce della sua voce vi fosse una minaccia, nel suo sorriso una condanna.
Justus mi aveva seguito senza che io me ne fossi accorto. Mi trovai senza avvedermene dinanzi la casa bianca di Maria, nascosta dietro una verde cortina di tamarindi. Passando la soglia della piccola corte scoperta che precede la casa, vidi Justus.
- A proposito, gli dissi io, vieni a cenare con noi stasera. Cerca di trovare quella mala lana di Bar Abbas; ho d'uopo di distrarmi. E se Menahem è in istato di venire, magari in lettiga, conducilo teco.
Mentre dicevo queste parole, Maria, che non era ancora rientrata dal circo, si mostrò sulla porta. Justus, che partiva, si fermò come affascinato. Egli aveva forse ragione.
Quella ragazza era risplendente di bellezza. Si sarebbe detta un raggio d'aurora scolpito a donna. Uno sciame di giovanotti l'aveva accompagnata fino alla sua dimora, raccontandole mille bazzecole, coprendola di fiori, non potendola coprire di baci. Io l'avevo creduta la più bella creatura della Giudea, prima di quel guizzo di donna che m'era apparso nel circo chiamando Moab, e che dominava la stessa misteriosa nebbia in cui Cneus Priscus aveva immerso il mio spirito. Maria non aveva nulla conservato del costume delle figlie della Giudea. La si era foggiata una forma di tunica e di peplum come una cortigiana greca, tagliati in una stoffa di Babilonia. Pareva una Ester acconciata dalle mani di Laide. Allorchè ella penetrò nella corte, mi sembrò che una nuvola cosparsa di stelle argentee mi si sciogliesse addosso. Mi saltò al collo. Ella era stata testimone della mia piccola scena colla pantera, e mentre tutta Gerusalemme credeva che io mi fossi sottratto ai ringraziamenti di Claudia per modestia o per noncuranza, Maria aveva pensato: È per me che egli sfugge la vista dalla superba nipote di Cesare!
- Bravo il mio leone, esclamò ella, colmandomi di carezze. Oh! come eri bello, e quanto t'amo!
Justus si precipitò al di fuori per andare in cerca di Bar Abbas. Rientrammo, ed io mi lasciai cadere sopra i cuscini di porpora. Maria s'accorse allora che ero pallido e distratto.
- Che hai, amor mio? sclamò essa. Si direbbe che t'abbi la febbre.
Raccontai a Maria le mie preoccupazioni. Ella scoppiò dalle risa.
- Abita forse la luna il tuo Romano?
- Mica d'abitudine, io imagino.
- Il bel miracolo allora ch'egli ti conosca! Ve ne sono forse due a Gerusalemme che abbiano questi occhi azzurri come il lago di Genezareth; questa pelle fina e bianca come quella delle figlie della Grecia; i capelli biondi come quelli dell'angelo che tentò Eva; questa lanugine che come un musco dorato sfiora le tue labbra ed il tuo mento; questa bocca ove il bacio nasce come la Venere dei Greci nasce dalle spume del mare; questa fronte, infine, questo tutto insieme che turba il sonno di tutte le fanciulle di Gerusalemme, e brucia il sangue di tutte le donne maritate?
Noto qui per incidenza che mio padre, accompagnando il re Erode nel suo ultimo viaggio a Roma, vi incontrò un oratore brettone di Eboracum (York), e ne sposò la figlia, che alla corte d'Augusto era chiamata la Stella della22 Bretagna. Io era il ritratto virile di mia madre.
- Sì, risposi a Maria, ma Cneus Priscus non è nè una ragazza, nè una donna maritata: egli è lo sciacallo di Pilato.
- Su via! continuò Maria, ve ne ha dunque un altro a Gerusalemme che faccia del suo mantello un pallium, e se lo panneggi addosso come fai tu? che domi un cavallo come te? che seduca una donna come te? che racconti le sue impressioni di viaggio, che abbia l'epigramma e la spada così pronti, sì l'uno che l'altro, che abbagli, che stordisca per la bizzarria, pel lusso, per l'imprevisto, per la morbidezza quando sei nella tua casa, per l'agilità nel ginnasio, per l'eleganza in pubblico, per lo splendore e l'estro nei circoli.... come te, come te, mio tesoro, cui tutta la gioventù imita o invidia, e cui tutti i mariti temono?
- Sì, risposi io, ma Cneus Priscus non è nè un giovine stravagante, nè un marito geloso; egli è uno dei bracchi di Pilato.
- -Oh! l'astuto bracco, sclamò Maria, per iscoprire un uomo che è consultato dai savii del paese, al quale il sagan obbedisce, che i figli d'Israello considerano come la loro anima, i guerrieri come la loro spada, i timidi come la loro voce, i prudenti come la loro audacia, e che risuscita i cuori morti alla speranza per la patria.
- -Sì, la mia entusiasta; ma Cneus Priscus non è una pazzerella come te, nè niente di tutto ciò. Egli è il boia di Pilato.
- Che si appicchi dunque al suo patibolo, Pilato! Sai che sua moglie è molto bella?
- Davvero? non me n'ero accorto.
In quel momento Justus e Bar Abbas entrarono. Maria balzò dai miei ginocchi. Le sue donne si facevano vedere alla porta della sua stanza, onde abbigliarla per la cena.
- Ho fame, Maria, fa presto.
- Si parla di fame qui? chiocciolò Bar Abbas: presente! È la sola cosa di questo mondo che mi sia restata fedele.
- E Menahem?
- Sparito. I Galilei l'hanno portato via dal circo.
- E Moab?
- Anche lui sparito. Gli Esseniani l'hanno trasportato nel deserto.
- Nessuna traccia di quella donna che sembra così innamorata di lui?
- Che disgrazia che io non l'abbia veduta! disse Bar Abbas. Guardavo altrove; guardavo mastro Pilato divenuto bianco e verde come una foglia di ulivo. V'è della gente che ha il colorito a molle: io non cangiai la mia tinta di bronzo di Corinto, quando perdetti una scommessa di cinquecento dramme. Quella infame pantera m'ha rubato. Credevo che l'avrebbe ingojato Menahem, per far piacere alla Romana, e per l'onore delle bestie del nostro paese. Niente affatto! s'è condotta vilmente come le altre. Ah! perfino le pantere divengono lepri nel nostro paese. Le tigri adottano i costumi romani.
- Ti spiace dunque che Menahem sia salvo?
- Non pel denaro perduto sulla parola e che del resto pagherò con parole, ma per l'onore degli abitanti del deserto della nostra Giudea. D'ora in poi bisognerà dare la caccia agli Essenii per avere una qualche emozione. Non avremo più di feroce, in quanto agli indigeni, che i grandi sacerdoti.
- E i creditori, credo.
- L'è roba vecchia codesta; quei carnivori hanno finito per consumare financo i motteggi che si fanno sul lor conto. Ma v'è di peggio ancora oggidì, ci son coloro che non vogliono più far credito. Ecco lì gli implacabili.
- Cosa hai, Justus, che sei lì serio come un bue che rumina.
- Egli annasa dietro la porta la tua Maria che si veste, disse Bar Abbas ridendo.
- Non sarebbe certo un famoso cane, risposi io, poichè siamo in mezzo ad un aere pregno di profumo.
- Per conto mio preferisco il profumo della cucina, rispose Bar Abbas. La più bella donna del mondo non vale un quarto di capriuolo bene speziato.... quando si ha fame.
Maria apparve, e nel medesimo tempo uno schiavo egiziano aperse una porta dal lato ove la cena ci attendeva. Nel medesimo tempo altresì udimmo, all'entrata dell'abitazione, un rumore di passi misurati, come quelli di legionarii che passano. Il rumore cessa, ma poco dopo udiamo aprirsi la porta della corte, qualcuno camminare, e parlare allo schiavo all'uscio della casa. Do un'occhiata al balcone. La notte era venuta, la luna piena s'alzava maestosamente dietro la collina di Sion, e tuffava i suoi raggi nel sobborgo di Bezetha.
Cneus Priscus s'era fermato sulla soglia della camera ove eravamo. Sembrava un po' imbarazzato.
Noi ci trovavamo in una sala vivamente illuminata, dove un gruppo di persone si disponeva a dar l'assalto ad una cena, ch'egli avrebbe indovinata al suo profumo, se non avesse scôrto a diritta, per la porta aperta, le tavole preparate ed i domestici all'opera; dall'altra, uno sciame di giovani schiave che portano i cuscini, i ventagli ed i fiori della loro padrona; e ritta nel mezzo della sala, bella come un giorno di primavera, la padrona stessa circondata dai suoi convitati. L'esitazione di Cneus Priscus non durò per altro che un istante. Egli si avanzò con un sorriso sardonico che contraeva i muscoli del suo viso. E' sembrava felice del contrasto di quella gioia con ciò ch'egli aveva a dire ed a fare.
Se Cneus sapeva chi ero io, sapeva altresì ove trovarmi. Lo prevenni. Lanciandogli uno sguardo significante per indicargli quella povera donna, di cui egli stava forse per frangere, od almeno insanguinare il cuore, gli dissi:
- Siate il benvenuto, ospite mio. C'è a tavola un posto che vi aspetta.
Cneus Priscus sembrò comprendere, se pur non era commosso.
- Giuda, figlio di Simone, e' rispose, vengo io invece ad invitarti a cena da parte del procuratore, riconoscente del nobile sacrifizio di te, di cui stamane hai dato prova.
- Codesto bruto non è poi affatto un bruto, dissi in vecchio ebraico a Justus. - Poscia ad alta voce, in greco, lingua ordinaria di tutti quelli che non conoscevano il latino, usato fra gli Ebrei ed i Romani, aggiunsi: - Avevo qui dei convitati; ma essi mi perdoneranno se li lascio per obbedire all'invito del generoso straniero, che me lo invia per mezzo di colui che più sovente è il suo genio della morte.
Maria sembrava nulla comprendere; Justus divorandola dello sguardo, non capiva nulla neppur egli. Bar Abbas rispose:
- Ti auguro che quella cena non ti dia una indigestione romana.
Baciai gli occhi e la bocca di Maria senza rispondere, e seguii Cneus Priscus, che mi precedette senza salutare alcuno.
Alla porta della strada la scena mutò. I soldati che attendevano, dietro un ordine, o piuttosto un segno di Cneus, mi circondarono, ed innanzi ch'io mi avessi fatto un movimento, le braccia e i polsi m'erano legati.
- Dove andiamo? chiesi senza perdere il sangue freddo che mi ero imposto, che non avevo mai perduto e non perdevo mai nelle circostanze pericolose.
- Alla torre Phasaelus, rispose Cneus con un lieve sorriso. Vi sei atteso per cenare.
- È là che Pilato ti manda i resti della tavola dei suoi schiavi? domandai con aria insolente.
Cneus non m'intese forse: e' non rispose.
La città formicolava di popolo perchè le feste duravano ancora. Sotto le tende delle grandi piazze alcuni cantavano, altri giuocavano o passeggiavano al chiaro di luna. Le donne preparavano la cena e venivano a cercar acqua alle fontane, la brocca sulla spalla, chiacchierando dello spettacolo del giorno e del combattimento degli elefanti del domani. Incontrai uno dei figli di Hannah che mi riconobbe e fece un balzo di sorpresa. Gli dissi in vecchio ebraico: Sta calmo!
Dieci minuti dopo eravamo nella corte della torre di Phasaelus. Abbandonandomi nelle mani del carceriere, Cneus osservò:
- Non è precisamente a cena che il procuratore t'invita, ma e' ti offre un riposo tranquillo. In quanto alla cena, siccome qui noi non abbiamo che i resti degli schiavi, non oserei umiliarti facendoteli presentare. Buona notte, e che Venere ti dia in sogno ciò che la tua amante dà al tuo amico in realtà.
- Grazie, camerata. La tua non ha più nulla a dare; la è stata svaligiata. Tu sei più felice di me.
Fui condotto sotto la porta di un sotterraneo che s'addentrava nelle viscere della collina. Mi sentii spinto, rotolai non so quanti gradini, e mi trovai lungo disteso sopra un corpo fetido e molle urtando dei piedi, nelle tenebre, in qualche cosa che mi sembrò una carcassa, e toccando colle mani un non so che di freddo e di viscoso, che spiccò un salto al mio contatto e che doveva essere probabilmente un rospo od una lucerta. A questo senso di ripugnanza balzai, e mi arrampicai di nuovo fino al gradino superiore della scala. Là cercai di restare in piedi il più che potei; poscia, come io sentiva il sangue danzare un'ardente pirrica nelle vene, e la vertigine mi trascinava ad onta della tranquillità perfetta del mio spirito, sedetti.
I sorci, i rospi, le lucerte, che so io? si davano una festa od una battaglia nel torace dello scheletro. Gridavano e si divoravan l'un l'altro. Dei rettili più timidi strisciavano ai miei piedi. I gradini della scala erano lubrici per l'umidità. Tutte queste cose schifose non mi lasciavano dimenticare che avevo fame e sopratutto sete. La mia gola sembrava accesa, la bocca era secca come le foglie del deserto. L'anima fe' prova di domare il corpo; poi vi rinunciò. Io pensava freddamente, mentre tutto il mio individuo bruciava. Cosa strana! nelle situazioni difficili è il passato che ci accascia, e l'avvenire che ci sorride. Io non aveva nulla per altro che dovesse inquietarmi molto, nessun rammarico e nessun rimorso. A ventitrè anni non si hanno a contare che i piaceri gustati. Tutt'al più delle pene d'amore. E io non aveva neppur queste.
Avevo lasciato a vent'anni Roma, ove dei maestri greci avevano perfezionato la mia educazione. Avevo viaggiato, tornando a Gerusalemme, in Grecia, in Egitto, nell'Arabia, nella Fenicia, in tutta l'Asia, infine, a traverso le cortigiane, le feste, le corti, le avventure le più deliziose, avendo un corpo d'acciaio cesellato in forma di donna. A Tiberiade, la mia parente Erodiade aveva fatto delle pazzie per trattenermi. Maria che avevo incontrata a Magdala, mi aveva, dirò quasi, rapito. Tutto ciò era gaio, rosa, trasparente, e ciò nonostante quelle memorie mi opprimevano. Il piacere s'era volto in agro. Mio padre era morto. Mia madre, sempre malaticcia e annoiata del sole della Siria, non si occupava che di sè stessa, e un poco delle mie sorelle. Ma essa fuggiva i dispiaceri come una minaccia di morte, e pensava solo alla sua persona, alla sua vita, alla sua salute, al suo ben essere. Avrebbe torto il collo allo Spirito Santo per farsene una coppa di bibita lassativa. Avrebbe appreso con eroica rassegnazione che io era in prigione.... per la causa del mio paese. Quella povera donna non odiava che i Romani, e non comprendeva che la sua Bretagna.
Maria non aveva che a scegliere la sua consolazione, fra due: oh, povero Giuda! Tutta la gioventù di Gerusalemme le offriva questo alleviamento al suo dolore, compresi i vecchi, ed alla loro testa il sagan.
Perchè dunque io mi sconfortavo al ricordare mia madre e Maria? Le tenebre, la fame e la sete si stemperano e stingono sull'anima: la stoffa resta l'istessa; il colore s'insudicia. Cosa potevo io temere dall'avvenire? La morte sulla croce e nel circo. A ventitrè anni questa sorte era lugubre, quando la società e la natura hanno fatto di tutto per seminarvi la via di felicità. Eppure io non me ne spaventava. Al posto della croce io vedeva quella Romana, di cui avevo salvato la vita, che dettava la sentenza dietro la sedia curule di suo marito; nel circo, io vedeva quella donna misteriosa che si mischiava a tutti i miei sogni e avviluppava le mie memorie e le mie speranze. Ovunque l'anima mia s'apriva, la si urtava a quel fascino. Da quell'immagine principiò la mia corsa a traverso il passato e l'avvenire. Sopra quell'immagine mi addormentai.
Quanto tempo durò quel sonno? Era notte ancora, o il giorno era già spuntato? Non ne sapevo nulla. Un dolore acuto mi risvegliò di soprassalto. Un topaccio cominciava a rosicchiarmi il tallone dopo aver divorato il sandalo. M'alzai. La battaglia sullo scheletro durava ancora. E nessun altro rumore arrivava fino a me.
Diverse ore passarono ancora così. Questa fiata l'anima riposava; il corpo si lasciava andare a tutti gli spasimi. Dico tutti gli spasimi; realmente, uno li assorbiva tutti: la sete! Sentivo il sangue ribollirmi negli occhi.
Alla fine mi parve d'udire un rumore nei corridoi della prigione; poi un passo pesante avvicinarsi, una voce brontolare sordamente, un mazzo di chiavi agitarsi, una chiave entrare nella serratura della porta contro la quale io m'appoggiava, e sentii quell'uscio aprirsi, stridere sui suoi cardini, colpirmi nelle spalle, spingermi con forza e precipitarmi in fondo alla scala.
Allo scarso lume che filtrò da quell'apertura abbracciai in un colpo d'occhio il quadro indefinibile della mia prigione. Tutti i figli della putrefazione saltarono, fuggirono, s'arrampicarono, sguizzarono in ogni senso, ed andarono a profondarsi in una specie di voragine nera ed infetta che s'apriva spalancata in un angolo della prigione. Era uno scheletro davvero che giaceva sopra quella terra nera ed umida come quella di un pantano. Le mura verdastre erano marcate da segni fatti con dei chiodi: forse delle memorie, forse delle maledizioni. In cima alla scala, sulla soglia, nel vuoto della porta, staccandosi in nero per la luce che lo rischiarava di dietro, tenevasi ritto il carceriere. Era un vecchio.
- Hai dormito bene, ragazzo mio? - mi chiese egli con una voce melliflua che mi diede un brivido, voce che rassomigliava al dolce nicchiar della tigre quando giuoca coi suoi piccoli.
Lo guardai, salendo, alcuni gradini, e mi fermai d'un tratto vedendolo indietreggiare di qualche passo.
- Perfettamente, risposi, e voi, babbo?
- Malissimo: una pulce mi ha dato rovello. Ma tu devi aver fame, povero figliuolo, - continuò coll'istesso tuono di voce.
Io avevo preso l'abitudine, trovandomi in situazioni ardue, dinanzi a cose od a persone che non comprendevo bene, di recitare una parte che si presta a tutte le evoluzioni: la fatuità. La fatuità è un terreno neutro da cui puoi prendere qualunque mossa. Un passo in dietro, è la melensaggine: sei Antonio. Un passo avanti, è lo spirito: sei Cesare o Alcibiade. Un passo da una parte, sei uno sciocco: Sansone o Goliath. Uno dall'altra, è l'arguzia pretenziosa, è Salomone. In breve, dal punto centrale della fatuità si può entrare in tutte le altre parti senza sforzo, ed avere il tempo di scandagliare, di comprendere, di decidersi, senza nulla compromettere storditamente. Così, per esempio, alla domanda singolare del carceriere, io risposi:
- Fame? neppur per idea. Finisco di pranzare.
- Come dunque? gridò con voce rauca e tremante dalla collera. Avrebbero forse preso la chiave dalla mia cintura?
- Niente affatto, caro babbo, risposi tranquillamente.
- E dunque allora?
- Allora, ho ucciso con un pugno un sorcio grosso come un lepre, che si divertiva a provare i suoi denti contro questo sandalo, e l'ho mangiato. Era delizioso! Altro che i grilli degli Esseniani del Giordano!
- Corpo di mille saette! gridò il vecchiaccio, e dire che non ho mai pensato ad utilizzare quel selvaggiume per nutrire i miei ospiti! Grazie, ragazzo mio: tu mi fai una rendita. Mi dispiace però che tu abbi pranzato così bene. Avevo l'intenzione di darti un bel palombo arrostito in mezzo a due fette di pane impregnato d'olio ed aceto, con due foglie di lauro.
- Eccellente, babbo mio, eccellente: vi permetto di darlo per cena ad un conduttore di camelli o di dromedarii, al quale andrà certo a genio.
- Te' te'! il re Erode se ne faceva un regalo.
- Il re Erode era il pronipote d'un cammellaio di Ascalon.
- E cosa diresti tu d'un piatto di fegato di capriuolo e di pollo al rosmarino, cotto nel vino, reso più piccante con delle olive o dei funghi, ovvero ancora di una frittura d'azzimi al latte e miele innaffiata da un fiasco di vecchio Cipro?
- Sì, risposi io noncurante, ho veduto qualche volta regalarsene gli schiavi galilei delle mie stalle.
- Ma dunque, il mio principe, cosa ci vorrebbe per incontrare il tuo gusto? fece il vecchio brigante.
- Oh! il mio solito, e semplice; un filetto di tigre arrostito sulle brage con sale e pimento, o delle animelle di coccodrillo bollite nella mirra. Costa poco ed è squisito.
- I tuoi ordini saranno eseguiti, mio signore, disse quell'uomo sogghignando, e se ne andò.
Il carceriere romano è atroce. L'ebreo è orribile. Io principiai ad aver paura delle intenzioni sinistre che intravvedevo. Si mandava quel miserabile per aggiungere al supplizio reale della fame e della sete, quello dell'aspettare, della visione di un desinare che si voleva forse farmi sperare senza darmelo mai. E il mio timore era confermato dalla circostanza che l'ora ordinaria del pranzo degli Ebrei era passata da lungo tempo; poichè alla luce del giorno che aveva intravvista, m'era sembrato che metà della giornata era già scorsa.
La conversazione sul cibo aveva aumentato gli spasimi del mio stomaco. Mi assisi di nuovo sull'alto della scala, e per distrarmi stetti ad ascoltare.
La ronda infernale dei rettili e degli esseri striscianti della mia carcere era cessata. Non c'erano più che le arterie del mio collo e delle mie tempia che battessero, e di cui udissi il rumore nel vuoto. Non avrei mai creduto che fosse così spaventevole per l'uomo il trovarsi faccia a faccia di sè stesso nelle tenebre, nel silenzio e nella solitudine. A forza di fissare la mia attenzione per discernere dei suoni, echi della vita, m'addormentai, o piuttosto m'assopii di nuovo.
Quanto tempo passò ancora? Ero forse caduto dall'assopimento nello svenimento? Non ne so nulla. Ritornai in me stesso al contatto d'una mano che si posava sul mio collo a traverso la porta semichiusa, per impedirmi di rotolare di nuovo al fondo del mio pozzo, ed alla luce affumicata che spiccava la lanterna del mio carceriere. Questi aveva l'aria un po' contrariata.
- Vieni, mi disse ruvidamente.
- Dove? domandai, stendendo le braccia e sbadigliando come qualcuno che si sveglia.
- Dove? replicò egli; dove si va, uscendo da qui? dove si può andare?
- Alla propria casa, per Dio! risposi io, quantunque un brivido percorresse le mie vene.
- Sì, disse la mummia; da suo Padre, certo.
Mi legarono le mani al dosso, e mi spinsero nella corte. Là, Cneus Priscus mi attendeva con soli quattro uomini. Fece un segno. Uno degli uomini mi attaccò sul viso un pezzo di vecchia stoffa, così stretto, che per un momento temetti non mi volessero soffocare.
- Non posso più respirare, sclamai facendo uno sforzo.
- Non è punto necessario, rispose Cneus; è un lusso di cui metà della creazione ha trovato la maniera di fare a meno.
Mi spingevano sempre.
Compresi che bisognava mettersi in cammino. L'aria fresca della sera che aveva sfiorato la mia fronte mi aveva un poco rianimato. Il moto mi faceva bene. La respirazione fuori dell'orribile puzzo della prigione, quantunque non fosse pienamente libera, m'insoffiava la vita. Tutto il creato taceva, eccetto la rondinella laboriosa, che prendeva in iscambio le prime luci rosse della piena luna per quella del sole che tramonta. Io aveva gettato un subito sguardo su quel ritaglio di cielo punteggiato di stelle, che m'aveva incantato. Non sapevo ancora che il cielo fosse così bello a contemplare! Uscendo dalla corte del castello cominciammo a discendere; ma mi avevano fatto fare tanti giri e rigiri, e attraversare tante porte e tanti corridoi avanti di principiare questa discesa che non potei più orientarmi, nè comprendere dove andassimo. Questo mistero a momenti mi spaventava, poi mi consolava.
- Da quando in qua Pilato è egli divenuto così pudico e così pieno di cautele nelle sue esecuzioni? dicevo a me stesso. Da quando in qua, aggiungevo, fa egli giustiziare avanti il giudizio? Questo romano è scuro e severo, ma giusto, o meglio, è schiavo della legalità. L'uomo che l'altro giorno ha trucidato un popolo disarmato, avrebbe del pudore questa notte e civetterebbe col cosa se ne dirà a Gerusalemme? Hum, hum!
Un soffio d'aria profumata che mi carezzò le narici, malgrado la stoffa tesa sul mio viso, m'avvisò ch'eravamo vicini ad un giardino. Ancora una rivelazione. Per farmi cangiare di prigione o condurmi al pretorio o al sanhedrin non c'era giardino da traversare. Penetrammo in un viale. Sentivo sotto i miei piedi la fina sabbia del fiume. L'odore che m'inebbriava non poteva venire che da qualche conserva, poichè l'autunno nei nostri climi non ha di quei fiori. Udii qualcuno della scorta allontanarsi, probabilmente per andar a prendere degli ordini, e ritornare poco dopo, sempre silenziosamente. Nondimeno comprendevo perfettamente ch'eravamo vicini ad una casa, perchè la mia benda non impediva al rumore delle voci e del movimento di arrivare alle mie orecchie. Attendemmo un quarto d'ora forse. Alla fine mi sembrò udire un passo leggero e il fruscio di un vestito di donna. Non m'ingannavo. Udii il passo della scorta che si allontanava, poi una mano di donna prender la mia dicendomi dolcemente: «Vieni.»
Io non risposi. Il mio cuore batteva forte. Quella mano era così soffice e così tepida, quella voce era così vellutata, che per un istante credetti toccare quelle mani delle cortigiane romane che davano il brivido allo stesso Catone, ed udire quella voce delle etaire di Corinto, che turbava la ragione di Socrate stesso.
Seguimmo diversi corridoi e passammo per alcuni atrii, scendemmo per più scale, mentre un delizioso mormorio d'acqua, cadente nelle vasche di porfido, blandiva le mie orecchie, irritava la mia sete. Ci fermammo ancora. La persona che mi accompagnava soffiò all'orecchio d'un'altra alcune parole che non potei comprendere, quantunque io conoscessi il greco. Cinque minuti dopo23, la stessa persona ritornò; disse ancora alcune altre parole nell'istessa maniera, e riprendemmo il cammino discendendo alcuni gradini e seguendo un portico; poichè l'aria che sfiorava la mia fronte era fresca. Finalmente penetrammo in una stanza la cui atmosfera calda e densa era soffocante.
- Eccoci arrivati, disse ella, che gli Dei realizzino i tuoi desiderii.
Disparve. Io restai un momento silenzioso. Poi una mano sollevò la mia benda, mentre un'altra tagliava le corde che mi martoriavano i polsi. Le corde si staccarono, la benda cadde. Io vidi. E restai abbagliato.
VII
In quell'istesso momento, i miei amici, in casa del sagan, mi davano per perduto.
Era l'ultimo giorno della festa dei Tabernacoli, e l'ultimo delle feste del circo date da Pilato. Gli Ebrei delle provincie, venuti a Gerusalemme per la solennità nazionale, stavano per ritornare alle loro case, nella notte o all'indomani. Gli Ebrei di Gerusalemme che avevano preso posto sopra i gradini dell'anfiteatro erano stati ancora in minor numero dei giorni precedenti. Il livello dell'odio della grande città aumentava; il sangue spazzato via aveva lasciato traccie indelebili. I capi partito della Galilea, della Perea, delle due tetrarchie, volevano intendere l'ultima parola onde agire in conformità. La notizia del mio arresto non era conosciuta che da loro, ed aveva irritato la loro collera. Hannah tremava per sè stesso, ed era imbarazzato. L'altezza alla quale io l'aveva condotto gli dava la vertigine.
Si sapeva che io era inghiottito nelle viscere della torre Phasaelus. I bracchi del sagan avevano scandagliato il palazzo d'Erode: e' si taceva. Questo silenzio spaventava ancor più il sagan. Maria credeva che dopo il banchetto di Pilato io avessi fatto una gita a Gerico per vedere mia madre.
Hannah avrebbe voluto evitare di ricevere i nostri emissarii delle provincie, sapendosi sorvegliato da Pilato, e sapendo di più che c'era una spia in mezzo a noi. Ma non poteva non riceverli senza abdicare, senza sollevare i sospetti negli amici, come li aveva risvegliati nell'inimico.
L'ex gran sacerdote si era giusto alzato dal suo sontuoso pranzo, allorchè i cospiratori sfuggiti alla trappola di Josafat, principiarono a fare irruzione nel suo superbo palazzo. Primo fu Jesus Bar Abbas, che dopo aver fiutato tutto il giorno intorno la residenza del procuratore onde buscar notizie, veniva ora dalla torre Phasaelus ove aveva ricevuto, per sola guisa d'indizio, una serie di calci e scappellotti. Decisamente, per essi, Moab era sparito ed io rapito. Bar Abbas entrò grattandosi le parti abbondantemente offese e brontolando:
- Oh no! non si dirà più che Bar Abbas non paga i suoi debiti: questo qui lo pagherò. Credo che ci sia lesione d'ossa nelle mie regioni occipitali. E poi sono stato quasi quasi rapito ancor io. Forse che il pranzo quotidiano mi darebbe una bella cera? Una mariuola, alla vostra porta stessa, si è aggrappata al mio mantello, che non ne poteva più, dicendomi con una bocca rosea, - che odorava deliziosamente di cipolla, - che aveva adornato il suo letto con un tappeto dipinto d'Egitto, che aveva profumata la sua stanza con mirra, aloè e cinnamomo, e che m'invitava quasi che mi fossi il re Salomone24. E la tirava il mio mantello da una parte, mentre io, premuroso di arrivar qui, lo tirava dall'altra, ed ecco come la metà del mio copridosso se n'è andata dove avrei voluto veramente andar ancor io. Avreste un mantello di ricambio da prestarmi, sagan?
- Diverresti tu per caso un onest'uomo?
- Giammai. Ciò rimpicciolisce. Io aspiro a divenir gran sacerdote.
- Va a cena, disse il sagan ridendo. Un posto a tavola ti conviene meglio, cred'io, che un posto di gran sacerdote.
Menahem, appoggiato ad alcuni dei suoi amici, entrava in quel momento, e poco dopo arrivarono gli altri.
Il sito ove il sagan riceveva i cospiratori era una camera ritirata, in un angolo remoto del palazzo, che sporgeva sopra un cortile e metteva sulla strada per una porta nascosta in un assito. Le mura erano incrostate di marmo verde, il soffitto di legno di cedro intagliato a rosacci. Rischiarata da un solo candelabro, quella stanza aveva l'aspetto funebre; quell'assemblea, l'aria di una riunione di banditi. Perocchè le fisonomie di quei giovani erano in gran parte fiere e tristi. La luce inondava della sua fiamma rossastra la testa gialla e la barba grigia del sagan; ed i suoi occhi neri, vivi, inquieti brillavano d'un doppio guizzo, aguzzati dalla lunga tunica bianca e da un caftan celeste contornato d'un cerchio d'oro. Egli aveva l'aria grave e tacevasi, giuocando colla sua lunga barba. Hannah era un uomo di poco più della cinquantina. Si aspettavano da lui le spiegazioni sul mio arresto e sulla mia situazione, sulla strage causata dalla richiesta dell'offerta, sull'attitudine presa dagli abitanti di Gerusalemme, sulla condotta che si doveva tenere. Vedendo che Hannah si preparava piuttosto ad ascoltare che a parlare, Menahem disse:
Sagan, noi partiamo questa notte; che dobbiamo dire ai nostri fratelli per consolarli della funebre notizia che ci ha già preceduti e che ha messo il lutto in tanti cuori?
- Dite che bisogna sperare, rispose il sagan. Ove la semente cade, nasce la spica.
- Non basta questo, riprese Menahem. Bisogna che sappiano quando questa spica nascerà; chi la mieterà e di chi sarà l'alimento. Noi non abbiamo tutti le stesse credenze e l'istesso scopo.
- Abbiamo tutti almeno l'istesso odio, spero.
- Sì, ma a chi profitterà l'esplosione di quest'odio? Quando Giuda venne a visitare i nostri villaggi e mettere la mano sui nostri cuori esulcerati; quando egli si inoltrò nel deserto per risvegliarvi delle anime che abborrono il sangue e non hanno per patria che la pupilla di Dio; quando egli legò all'istessa opera lo sdegnoso sadduceo ed il cupido fariseo; egli aveva trovato un terreno neutro, ove della gente che si batteva ieri, poteva darsi domani la mano.
- Egli aveva prefisso il terreno che io gli avevo indicato.
- Ebbene, gli è precisamente di codesto che noi ora dubitiamo. Giuda ci aveva promesso: non più giudici, non più re, non più re-preti, non più re-prefetti dello straniero, non più tetrarca o etnarca. I giudici hanno finito con Samuele che rese il potere ereditario nella sua famiglia, nei suoi figli prevaricatori, avari e crudeli, Joel e Abrà. I re ci hanno condotto a Roboamo che diede occasione alla divisione della monarchia, e ad Osea e Sedecia che causarono la schiavitù del popolo ebreo a Babilonia. I re-preti ci hanno condotti al tiranno Aristobulus, all'imbecille Hircanus, all'intervenzione romana. Il re-prefetto di Roma ci condusse allo spezzamento della nazione in provincie straniere. Non c'è più popolo ebreo. Ora gli è questo popolo ch'è mestieri far rivivere!
- Non sono forse codeste le mie idee?
- Sì; ma a vantaggio di chi questo popolo rinascerà? Ecco ove la questione si complica ed ove le opinioni si separano. Voi, Hannah, vorreste farvi dichiarare nostro re ed investire vostro figlio della dignità di gran sacerdote. E avete già preparata la via facendo occupare questo posto dal vostro genero Caifa.
- Che graziosamente ci tradisce, sclamò entrando Bar Abbas, cogliendo a volo questo nome sospetto.
Hannah lo fulminò di uno sguardo di sprezzo e senza degnarsi di rispondergli, disse:
- Non ho quest'idea.
- Se non l'avete oggi la vi verrà domani, continuò Menahem. I farisei vorrebbero ritornarci a' tempi della regina Alessandra, quando essi eran tutto, regnando sulla regina e sul popolo. I sadducei dicono a sè stessi: Se noi non governiamo il paese, meglio vale avere i Romani che ci danno la pace e la sicurezza. Gli essenii vorrebbero fare una comunità universale, abolendo il matrimonio, ed abbandonando così fra cinquant'anni la Siria in preda ai leopardi ed ai lupi. Noi, figli di Giuda il Golonite, vogliamo il regno del popolo, col popolo, pel popolo.
- Voi vedete dunque che tutto ciò essendo assurdo, interruppe Hannah, bisogna fondere i partiti in una grande idea.
- Bisogna fonderli in un comune interesse, ci aveva detto Giuda, continuò Menahem.
- Ascoltate, figliuoli, interruppe ancora Hannah: il generale Lysius, che veniva ad irrompere sul piccolo esercito di Giuda Maccabeo, conduceva seco dei mercanti di schiavi romani onde vender loro i prigionieri che contava fare: e fu battuto. Non imitiamo quel pazzo. Cacciamo prima i Romani, dopo vedremo.
- Codesto dopo si troverà forse a fronte di una risoluzione già presa.
- La redenzione dei popoli è sempre stata un'opera di fede. Se è discussa avanti, naufraga; se la si discute dopo, la si perde. Il popolo domandò forse a Mosè: Ove ci conduci?
- Ecco la ragione per cui Mosè lo fece passeggiare per tanto tempo nel deserto, nutrendolo di grilli alla salsa di rugiada, saltò su Bar Abbas. Amo meglio le cipolle per conto mio, le quali, fra parentesi, sono eccellenti in Egitto. Ci si dice: Fatevi uccidere, per aver poscia l'onore di un sepolcro, o di mostrare le vostre cicatrici in un paese sottoposto ad un indegno padrone! Grazie tante, papà: gli è un padrone precisamente quello che io non voglio, sia esso Pilato o Hannah. Con questo che si cena bene da te veramente, o sagan!
- Vediamo figliuoli; non è per discutere queste questioni che siete venuti da me a quest'ora, alcuni istanti prima della vostra partenza. Accorciamo. Cosa siete venuti a dirmi? cosa volete sapere?
Hannah sembrava annoiato. Tutti questi ragionamenti erano nuovi per lui. Egli figurava come il capo di una cospirazione di cui perfino il programma gli giungeva come una rivelazione. Egli non vi si riconosceva più. Io non l'aveva mai iniziato allo scopo finale di quest'opera di cui egli appariva creatore. Egli non era altro che un nome: perchè ne avrei fatto un corpo, un pensiero, un essere? Ero stato costretto a spiegarmi coi fratelli di Giuda di Gamala, perocchè costoro erano i soli uomini in mezzo a tutti quei fanciulli che si credevano tali perchè avevano barba. Ecco dunque il sagan imbarazzato e gli altri sviati. Menahem, che era il più giovine dei fratelli di Giuda di Gamala, e che sostenne poi una gran parte nel tentativo di liberazione del nostro paese, rispose:
- Abbiamo una cosa a dirti, sagan, e vogliamo saperne molte. Giuda è caduto nelle mani dei nostri nemici. Bisogna a qualunque prezzo impedire che lo uccidano. Se gli abitanti di Gerusalemme non sono abbastanza forti per opporsi a questo attentato, noi non partiremo, e resisteremo.
- Se Giuda non è già caduto vittima, se Pilato non lo soffoca nel fondo delle sue mude, Giuda sarà salvo, affermò il sagan.
- Lo promettete?
- Lo giuro, disse il sagan.
- Sì, replicò Bar Abbas, ma non ripetere, Hannah, codesto tuo giuramento al tuo Vicario Caifa. Questi te ne farebbe sciogliere da Pilato, effettuando tutto codesto trinceramento di se, di cui hai circondato la tua promessa. Quel gran sacerdote lì, non m'ispira nessuna confidenza. Quella figura appuntita, sopra un corpo frusto, quella faccia gialla come un limone, sopra un corpo festonato di azzurro, d'oro e di gioielli, m'ha l'aria d'essere un serpente rannicchiato nella pelle d'una volpe. Egli vende le pecore ebree ai beccai romani, i quali a loro volta gliene apparecchiano le costolette pel suo pranzo.
- È un'infamia codesta che tu dici, urlò il sagan. V'è nessun altro qui che osi ripeterla?
- Nessuno l'oserà, osservò Bar Abbas, perchè l'infamia ha un privilegio regale: poter dire tutto! Ma molti pensano come me.
- Basta così, sclamò il sagan. Sì, Giuda sarà salvo se Pilato ne ordina il supplizio pubblico. Ma non siamo abbastanza forti per demolire le sue torri. E dopo?
- Ecco ora quello che vorremmo conoscere, sagan, riprese Menahem. Che dobbiamo noi dire ai nostri fratelli della provincia per giustificare Gerusalemme della strage dei giorni scorsi?
- Che non volendo impegnare una battaglia, ma soltanto scandagliare lo spirito pubblico, contarci, riconoscerci, non avevamo preparato nè distribuito armi; che Gerusalemme è stata sorpresa, assalita improvvisamente, e vinta prima che avesse neppur cognizione dell'attacco del nemico; che Gerusalemme ha dato una larga parte di vittime, e che voi l'avete veduta nel lutto, protestare, colla fuga e colla sua assenza dagli spettacoli, contro un padrone straniero.
- E che diremo loro per illuminarli sull'avvenire?
- Che l'avvenire è sovente nelle mani di Dio, ma che l'uomo audace glielo strappa sempre di mano; che bisogna volere, volere, e poi volere. Chi vuole può.
- Noi vogliamo tutti, disse Menahem; ma che bisogna egli fare per potere?
- Avere delle armi, saper servirsene; aver cuore, confidenza, disciplina; non stancarsi mai; non disperare nei rovesci; non inebbriarsi nei successi; credere alla propria forza, al proprio diritto; non indietreggiare davanti nessuna cosa quando si tratta di perdere l'inimico; restar uniti; guardarsi dalle carezze dello straniero, rifiutarne perfino i beneficii, perfino la giustizia, perfino l'amore; non dar mai quartiere; divenire un'idea modellata in un uomo, e fare di questa idea una ostinazione.
- Noi lo faremo, disse Menahem.
- Allora, la vittoria è certa.
- Sono troppe cose che occorrono, brontolò Bar Abbas. Ho veduto gli Spagnuoli, i Brettoni, i Galli, i Germani voler tutto ciò, e malgrado tutto ciò soccombere. I Romani non conoscono che una cosa sola.
- Quale dunque?
- Il momento. Tutto è là. Quegli uomini lì passano la lor vita a osservare la meridiana dei popoli. Varo, che era guercio, fu tagliato a pezzi. Volete schiacciare i Romani? fatevi Romani. Dacchè sono Giudeo, io non ricevo che dei calci; quando ero nelle legioni menavo botte da orbo.
- Continuate, disse il sagan a Menahem.
- Cosa farà Gerusalemme?
- Darà il segnale.
- Hum! fece Bar Abbas. Non ho mai veduto i trombettieri battersi fuorchè nelle rotte, ove ognuno se la cava come può. Preferirei che Gerusalemme facesse qui la sua parte, mentre gli altri la fanno altrove, tutti nell'istesso tempo.
Il sagan si contorceva, perchè, alla fin fine, quel birbo non aveva tutti i torti.
- E poi? domandò Hannah.
- Quando suonerà l'ora dell'azione? In che luogo? A qual parola d'ordine bisognerà dar principio? domandò Menahem.
- Ogni ora è buona quando s'è pronti. Noi vegliamo. Nessun luogo disegnato prima dell'azione. Nessuna parola d'ordine, che può essere male intesa. Nondimeno, venite al prossimo peschah (pasqua) come verreste ad una battaglia: dite addio alle vostre donne, ai vostri figli, ai vostri vecchi, e.... mirate al Tempio. Dio è la forza e la verità.
- Bah! bah! bah! esclamò Bar Abbas. Tutto codesto non è che un bisticcio di coloro che vedono sempre le cose da lontano. Questa Forza e questa Verità ci hanno fatto le più inette burle del mondo. Il popolo ebreo ha sempre mirato al Tempio, e ciò non ha impedito che gli Egiziani, che gli Assiri, che quelli, che questi, che tutti insomma che l'han voluto, l'abbiano condotto schiavo come delle bestie da lavoro. Il Tempio è stato preso, ripreso, bruciato, rifatto, profanato le tante volte; e la Forza e la Verità non si sono mai incomodate per scoccare la folgore la più piccola, la più ridicola, che qualunque Giove di villaggio avrebbe trovato nel suo focolaio. Udite me, cari fratelli, che ho vissuto vent'anni con quei bellimbusti. L'ora ed il luogo per estirpare i Romani dal vostro suolo è quando essi se lo aspettano meno, dove essi se lo aspettano meno, se tuttavia non potete attaccarli in ogni sito nell'istesso tempo. Quanto alla parola d'ordine, non ce n'è che una: Grazia a nessuno! distruzione, dispersione perfino delle ceneri di ciò che avete distrutto. I Romani sono come una cimice, che, risparmiata l'autunno, rinasce legione nella primavera.
Il sagan guardò Bar Abbas con un fulminante aggrottamento di ciglia, urtato, irritato di vedersi contradetto da un uomo simile, e in quella forma. Bar Abbas, fingendo di sbadigliare, gli fe' cenno schizzando l'occhio in modo significante. Menahem domandò:
- È necessario il silenzio?
- La nostra lotta è quella del diritto contro la forza: non abbiamo d'uopo dunque di parlare per giustificarci: abbiamo d'uopo d'agire per riuscire. Il silenzio è la metà del successo.
- Ah! ancora delle parole vuote di senso, saltò su di nuovo Bar Abbas, alzando le spalle. Il silenzio mostra paura. Perchè cangiare in una cospirazione ciò che può, ciò che deve esser guerra? Per abbattere i Romani abbiamo bisogno del numero; tutta la nazione deve metter le mani alla scodella. Ora, se voi vi nascondete, se parlate basso, se non chiamate che gli iniziati e gli eletti, sarete in piccol numero, e schiacciati come lucertole. Se nessuno l'osa, m'incarico io di andare a presentare a Ponzio Pilato - l'uomo dalla faccia livida e dal cuore di sangue - il suo congedo pel 15 di nizam, giorno del peschah dei figli di Giacobbe. Birbo di Vecchio! Fu egli fortunato di avere una moglie che gli guarniva il letto di giovani ganze! Ah! no, non era lui, era suo padre.... ma non fa niente.
- Allora che attitudine dobbiamo prendere di fronte ai due tetrarchi, principalmente di Antipas?
- Il riserbo, disse Hannah. Osservarli, perchè essi non sono più gli amici del popolo ebreo, ma i carcerieri di Roma.
- Questa poi l'è bella! sclamò Bar Abbas. Come! voi volete25 dunque aumentare il numero dei vostri nemici? Non vi bastano dunque i Romani? Bisogna comprometterli, al contrario, codesti tetrarchi; bisogna sedurli coll'esca della ricostruzione del regno di Erode, ch'essi già ambiscono. Più cacciatori avrete in questa maledetta caccia, e più sarete sicuri d'ammazzare la belva. Vedremo poi chi s'avrà la pelle. Certo, non mi sarò io quegli. Mi contenterò di averne gli avanzi come i cani.
- Ma allora chi sarà il capo che condurrà tutta questa grand'opera? domandò Menahem. I tetrarchi, il sagan, il gran sacerdote, la sinagoga, il senhedrin, il gran collegio, i figli di Giuda di Gamala, i sadducei, tutti si credono avere il diritto di comandare e di dirigere. A chi dobbiamo noi obbedire?
- La direzione, rispose Hannah visibilmente imbarazzato da quella domanda, spetta al consiglio dei delegati dei partiti. Durante il combattimento, quando l'ora della battaglia sarà suonata, ogni partito sceglierà il suo capo. Dopo il trionfo, tutti concorreranno alla nomina del capo, se tuttavia capi e semplici gregarii non saremo tutti uniti nell'istesso supplizio.
- Ecco un bel caos! obbiettò Bar Abbas. Capisco per altro che non è cosa da potersi decidere prima. Il più ardito, il più fortunato, forse il più ricco, il più astuto o il più intrigante, sarà il capo. Ma egli sorgerà sicuro dagli avvenimenti, non egli s'imporrà ad essi. Supponete che sia io che abbia la fortuna di cacciar via Pilato da Gerusalemme; credete forse, potente sagan, che vi lascerei fare la pioggia ed il bel tempo nella città, come fate ora? Ricordatevi Erode. Ma non tocchiamo questa questione per ora. Si tratta di cacciare i Romani; ci scanneremo dopo fra noi per darci un padrone che scannerà quelli che resteranno. Che volete che faccia un padrone arrivato in questa guisa, se non si mette anche lui a scannare un po'? Non vorrete certo che il vostro nuovo signore muoia di noia. È così dolce il trucidare gli amici della vigilia che diverrebbero sì esigenti all'indomani! Val meglio liberarsene e restar franco.
Un vecchio, tutto vestito di bianco, abbronzato come un camellaio del deserto, che era restato fino a quel momento silenzioso e ritirato, si avanzò allora nel mezzo della sala, e interrompendo e scostando colle mani Bar Abbas, gridò:
- Io ve lo dico: tutto codesto, non è che fanciullaggine. Ci vuole un profeta od un messia26.
Questo esseniano aveva posto il dito sul cuore della situazione. La sua proposizione riassumeva tutto, risolveva tutte le difficoltà, rispondeva alle circostanze ed alle tradizioni del popolo ebreo. Un profeta è Dio. Dio primeggiava su tutti, aveva diritto di pretendere a tutto, all'umano ed al sovrumano. Un capo poteva imporre ai suoi subordinati dell'eroismo; un profeta esigeva da loro dei miracoli.
Il lungo silenzio che accolse questa proposizione provava che l'esseniano aveva colpito giusto. Tutte le coscienze gli rispondevano: «Sì, è duopo d'un profeta.»
Hannah finalmente disse:
- Ebbene, sia: avrete un profeta.
- Quando? quando? domandarono tutti unanimi.
- Nol so, rispose Hannah. Abbiamo bene nel Tempio ciò che occorre per produrre un messia: ma non possiamo abolire nè il tempo nè lo spazio. Ora la Grecia, l'Egitto, l'India, la Persia, sono lontane: Apollonio di Tiane, Jarchas, i Mitra, gli Orfei, gli Hermes, non si trovano a Gerico. Poi, bisogna apparecchiargli un teatro e degli spettatori, a codesto messia: delle donne ossesse che sputino fuori il diavolo e a tempo; dei catalettici che si risveglino a ora fissa, degli epilettici disciplinati... che so io? La scienza si compera, la fede si costruisce; ma bisogna del tempo. Nondimeno io penso che quando ritornerete pel peschah io vi presenterò un profeta bene ammannito, ben tarchiato, il quale colla sua parola solleverà il popolo, come il vento alza la polve.
- Accettato, replicarono tutti i cospiratori; a rivederci a peschah.
- Infrattanto, aggiunse il sagan, preparate il popolo, e quando verrete, dite addio alle vostre donne, ai vostri figli, ai vostri vecchi, e siate armati. Si verrà qui per morire, forse.
- Avremo delle armi, risposero tutti ad una voce, e verremo per vincere.
- Allora che Dio sia col suo popolo, sclamò Hannah, con un tuono che significava che tutto era stato detto e che l'assemblea era ormai sciolta.
I delegati uscirono poco a poco, alcuni silenziosamente, altri dicendo qualche parola al sagan. Bar Abbas restò per ultimo.
- Ora, miserabile, gridò il sagan furibondo, mi spiegherai alla fine ciò che vuol dire l'attitudine impudente che hai presa stasera.
- Non l'hai indovinato?
- Io non indovino, rispose il sagan con tuono severo, io interrogo.
- Ebbene, ho voluto gettare la confusione in mezzo a degli spiriti che avrebbero potuto principiare a vederci chiaro. Non ci andavi di mano morta, tu, o sagan, a precisare, a scender nei particolari, e spiegare filo per filo tutti i segreti delle nostre operazioni, a svolgere l'andamento della nostra impresa! Diavolo! e non dubitavi tu che lo stesso onest'uomo che ha tradito i nostri fratelli della casa disabitata di Josafath, poteva forse trovarsi anche questa sera in mezzo a noi?
- Hai ragione, disse Hannah riflettendo.
- Ti ho parlato di Caifas: te lo denunzio nuovamente. Bisogna strisciare per vedere nei fondi tenebrosi. Io credo di averlo indovinato. Guárdatene bene. Tu sei minacciato pel primo da quella ambizione infatica, ma persistente ed astuta.
Hannah sorrise e non rispose. Bar Abbas continuò:
- Dopo tutto ciò che ho detto io, quella gente non sa più dove dare del capo, nè ciò che facciamo, nè ciò che faremo, nè ciò che dovrebbero far essi. L'amico di Pilato, anche se vuole denunziarci, ha perduto la pesta. Ti par dunque che quella gente lì debba pensare e sapere? Devon essi forse conoscere per quale strada li conduciamo al macello? Insomma: in tutto ciò che s'è detto questa sera, non c'è stata che una parola di sodo.
- Il profeta?
- Il profeta. Sì, dobbiamo fabbricarne uno. Egli sarà il tuo scudo, o sagan. E' ti covrirà nella lotta e tu t'innalzerai sopra di lui dopo il combattimento. Soccomberemo? Pilato lo sacrifica. Trionferemo? l'avveleni e prendi il suo posto. Tu non hai d'uopo certo che io t'insegni come si fanno queste cose. Un messia! se ne trova a tutti gli angoli delle vie, e sono cose molto utili. Le nostre provincie ne producono a ufo, e la canaglia non crede che in essi perchè parlano in nome di Dio. La canaglia non ha un orizzonte medio. Nel basso ove sta, la non scorge che fango, o, levando gli occhi, che Dio nel cielo. Tu non significhi nulla per essi, e quindi non hai presa su di loro, non hai alcun potere.
- È vero, disse il sagan.
- Allora, facciamo presto, improvvisiamo questo profeta. Ah! che peccato che non siamo nelle Gallie! ne ho vedute tante di drude o druide che non so come le chiamino.
- Ci penserò, disse il sagan riflettendo.
- In questo caso non ho più nulla a dirti. Dammi un mantello, e puoi, senza offendermi, offrirmi anche una tunica. Tuo figlio è della mia statura.
- Sì, fece Hannah. L'hai ben meritato; e questo in più.
E così dicendo il sagan diede a Bar Abbas un pugno di monete d'argento.
- Diavolo, diavolo, urlò Bar Abbas, intascando il denaro. Spero che troverò ancora all'angolo della via quella cialtrona che mi ha rubato la metà del mio mantello.
- Non dimenticar Giuda, disse Hannah.
Bar Abbas assentì col capo.
Justus non aveva assistito a quella riunione.
VIII
Essi mi compiangevano e mi credevano perduto. Ah! se avessero saputo!
Caduta la benda dai miei occhi, mi trovai in un gabinetto ovale, col suolo a mosaico, le mura incrostate di marmo giallo d'Egitto, ed il soffitto di legno di cedro a rosaccie. Delle sedie d'avorio ornate di bronzo di Corinto, s'allineavano intorno al gabinetto, rischiarato vivamente da una lampada d'oro. Quello era l'apodyterium, - sala del palazzo d'Erode, per ispogliarsi prima d'entrare nel bagno - che io conosceva. Al di là, una porta mezzo nascosta da una tappezzeria di Mesopotamia. Scorgevo a me dinanzi il tepidarium, grande stanza quadrata, in mezzo alla quale si apriva un bacino d'acqua tepida, pari ad un piccolo lago, che ripeteva la fiamma dei numerosi candelabri d'argento che lo circondavano come una fila di colonne.
Due giovani schiave galle, addette al mio servizio, s'impadronivano dei miei vestiti, che caddero in un istante ai miei piedi. La vista dell'acqua aveva svegliata la mia sete. Domandai da bere. Mi fu presentata subito una coppa d'oro con due vasi di vino color ambra, ed un'anfora piena d'acqua. Io bevetti dell'acqua appena ingiallita da alcune goccie di quel vino, e sentii ritornar le mie forze. Vedendomi affatto ignudo in mezzo a quelle due belle schiave, arrossii. Una d'esse mi prese per mano e mi condusse nel tepidarium. In quell'istante una dolce musica si fece udire, ed uno sciame di giovani ragazze, tutte nude, incoronate di narcisi e di ninfee, irruppero da una sala laterale, si precipitarono nella vasca, e principiarono a nuotare verso di me, invitandomi in mezzo a loro.
Avevo ventitrè anni. La vista di tutte quelle beltà, tanto più pericolose in quanto il cristallo dell'acqua e il riflesso della luce ne aumentavano lo splendore, mi fece fremere dal piacere. - I colori si alternavano sulla mia faccia. D'un tratto, scorsi in un angolo di quella stanza, quasi nascosta sotto la tappezzeria di una porta, una figura di donna mascherata della sua ricca, e avviluppata in una stola che le scendeva dal collo ai piedi. Un lampo traversò il mio spirito. Mi dissi: Cosa vuole quella donna che si nasconde e che mi getta in mezzo a tentazioni così seducenti? Il cangiamento che s'era operato nella mia posizione mi dava a riflettere. Per uno sforzo di volontà, finsi l'indifferenza, e scendendo nella vasca d'acqua profumata, mi misi a nuotare ed a giocare colle ragazze, assolutamente come se fossi stato coi miei giovani amici nel Giordano, o nelle acque azzurre di Genezareth. Non poterono strapparmi neppure un bacio; e Dio sa che scrigno di bellezza e di gioventù era aperto dinanzi ai miei occhi! Giuseppe ne sarebbe stato vinto. Durante tutto il tempo che io restai a saltellare, a ridere, a cantare perfino, a giuocare con quelle naiadi rapite al Caucaso, alla Gallia, alla Spagna, alla Siria, quella donna non si mosse dal suo posto d'osservazione. Quando uscii dall'acqua, due schiave egiziane s'impadronirono di me e mi condussero al calidarium.
Se io non fossi già stato a Roma, avrei creduto che mi si conducesse in una sala di tortura. I muri erano coperti di una rete di tubi riscaldati a rosso da una fornace esterna, e che erano maggiormente riscaldati dal vapore che si sprigionava dal serbatoio d'acqua bollente che stava nel mezzo di quella stanza circolare. Mi sentii venir meno e mi lasciai cadere sopra uno dei seggi che occupavano le nicchie praticate tutt'intorno.
Immediatamente uno degli schiavi tirò una catena, ed uno scudo d'oro, che coronava il soffitto, s'aprì e mi inondò d'un soffio d'aria fresca e di una sensazione deliziosa. Ogni qualvolta la temperatura diveniva incandescente l'operazione dell'apertura della valvola si rinnovava, ed un soave languore s'impadroniva di me. In quello stato mi avvolsero in un mantello di lana scarlatto, e mi trasportarono in un'altra camera riscaldata in grado minore, ove gli schiavi principiarono l'operazione della frizione. Quando le mie membra furon rimescolate e le mie giunture disarticolate, gli schiavi mi fregarono con olio profumato. Mi sentii rinascere. Mi asciugarono infine con una dolce mussolina d'Egitto, e mi lasciarono godere di alcuni minuti di riposo.
Due schiave italiane mi risvegliarono quasi, presentandomi una bianca tunica ornata di frangie azzurre. Dopo avere pettinato e profumato i miei bei capelli biondi, li cinsero di una corona di rose, come per le vittime destinate al supplizio.
Durante tutto il tempo dell'abluzione e dell'abbigliamento, non rivolsi una sola parola ad alcuno; lasciai fare, come un testimonio o come un padrone.
Quando tutto fu in ordine, le mie unghie tagliate, i miei piedi profumati, un'altra schiava vestita tutta di bianco e celeste con una cintura di porpora, venne a prendermi. Quattro suonatori d'arpa la precedevano. Io conosceva il sito. Traversammo due o tre sale imbalsamate dalle esalazioni degli alberi e dai fiori del giardino, ed arrivammo infine nel triclinium riservato, che il re Erode aveva fatto costruire per le sue cene voluttuose colla bella Mariamne, la più bella e la più amata delle sue nove mogli e delle sue numerose favorite.
Quella sala, di forma ovale, non era molto vasta. Il soffitto era mobile ed alternava secondo le ore e le fasi del pranzo, mostrando ora l'empireo gemmato di stelle, ora dei quadri di dii e di dee ignude, le cui voluttà esaltavano il cervello degli spettatori; altre volte cangiavasi in un nuvoleto bianco e rosato che aspergeva i convitati di una rugiada d'essenze odorose. Questa volta il soppalco rappresentava il firmamento: e' si avrebbe creduto di cenare sotto i raggi delle stelle. Delle colonne slanciate di malachite dai capitelli scolpiti e cesellati come un gioiello della regina Cleopatra, sostenevano la vôlta. Queste colonne facevano spiccare lo splendore delle pareti ricoperte di stoffe bianche di seta della Persia, ricamate a fiori e in oro, inquadrate in cornici pure di oro ornate di pietre preziose. Dieci piccoli quadri, squisitamente voluttuosi, pendevano dall'alto dei muri a cordoni di porpora e di oro. Il mosaico del suolo rappresentava la tavola di Giove in mezzo agli Dei. Le due finestre laterali, aperte sopra i giardini, erano mezzo nascoste da platani vigorosi innaffiati con vino. Tra i frammezzi, nel basso, si trovavano delle tavole di legni differenti incrostate d'argento, di bronzo, d'oro, di pietre preziose, qui rubini, là smeraldi, altrove amatiste o agate, e arricchite da medaglioni maravigliosamente dipinti. Su quelle tavole le schiave posavano i vasi, le ricche dapi - lancula - le vivande.
Non c'era che un sol letto per due persone. Questo letto era di scaglia indiana, che pareva dell'ambra liquida, trasparente come il vetro e tutta venata d'azzurro. Era incrostata di fileti d'oro e di piastre di smeraldi e zaffiri. Questo27 letto era rimpinzato di piumini di cigno, e coperto d'una stoffa di seta ed oro color porpora. Un monopodium ovale di madreperla, circondato da un cerchio d'oro scolpito ed ingemmato, si stendeva dinanzi al letto, la cui spalliera era leggermente curvata, e le cui braccia erano imbottite sofficemente dai cuscini di stoffa bianco-dorata. Del resto per farsi un'idea della ricchezza di quella tavola d'un re asiatico, si consideri che un semplice avvocato di Roma, Cicerone, aveva pagato la sua, così mi dissero a Roma, un milione di sesterzii (204,500 lire), ed un altro cittadino, Cæthegus, un milione e mezzo. Tutt'intorno a quella magica sala, delle statue d'alabastro, ignude, sostenevano dei candelabri che la rischiaravano come se il sole del mezzogiorno l'avesse inondata della sua luce. Dei vasi di fiori profumavano l'aere e accarezzavano lo sguardo.
Avanti di varcare la soglia, due schiave nubiane, una con un bacino d'oro, e l'altra con una stoffa di porpora, m'offersero a lavare le mani. Alla porta il maestro del banchetto mi ricevette e m'introdusse presso il mio ospite.
Le mie previsioni non m'avevano ingannato. Era Claudia, e Claudia sola, che m'invitava alla sua cena.
La sera dell'avventura della pantera, Claudia, distratta dalla festa che Pilato dava a Pomponius Flaccus, ai capi delle legioni e a diversi personaggi di Gerusalemme, non s'era ricordata di me. All'indomani, avanti di recarsi all'anfiteatro, fece chiamare Cneus Priscus e gli domandò conto della mia persona. Priscus le apprese che, dietro ordine di Pilato, egli mi aveva arrestato il giorno stesso, e m'aveva gettato nei sotterranei della torre Phasaelus.
Pilato nell'interrogatorio dei prigionieri non aveva raccolto elementi sufficienti per condannarmi alla croce od al circo, ma ne aveva saputo abbastanza sopra la mia condotta ed i miei sentimenti per diffidare di me. Egli aveva inviato Priscus da Caifa onde averne delle informazioni, e questi gli aveva risposto:
- Non ne conosco nessuno di più pericoloso a Gerusalemme. Si direbbe una femmina al viso, all'eleganza, alla mollezza, alla frivolità, alla noncuranza, ai gusti: guai a chi vi si lascia ingannare. La sua avvenenza è come le foglie che nascondono l'abisso; la sua eleganza è un'esca; la sua mollezza è l'elasticità dell'acciaio: la sua frivolità maschera l'opera di un Catilina: la sua noncuranza è il riposo d'una attività febbrile: i suoi gusti sono espedienti per riescire. Non principii, non fede, non cuore; dei sensi a suo talento, la parola che perde, il sorriso che uccide; il sangue, le lagrime e le carezze sono per lui semplici mezzi. Se si annoia strazia il cuore d'una donna, o mette a fuoco una provincia.
Questo ritratto astioso, in parte esagerato, in parte ridicolo, colpì Pilato, che diede ordine di sorvegliarmi. Priscus, per sorvegliarmi meglio, mi arrestò. Lo stesso ritratto, ripetuto a Claudia, affrettò la sua curiosità di vedermi. Per suo ordine Priscus mi condusse a lei, che assumeva di dare a Pilato delle convenienti spiegazioni.
Claudia volle mettermi subito alla prova. Assistè mascherata al mio bagno singolare, e ritirandosi mutò le disposizioni della cena, che doveva essere intima e semplice.
La ritrovai già distesa sul letto, bella come l'Ebe greca. I suoi capelli neri come la notte s'intrecciavano in una corona di rose non ancora sbocciate e scendevano in ricci sopra delle spalle ed un seno che si sarebbero detti l'Eden della voluttà. Era vestita di un velo rosa, quel tanto che bastava a rendere appetitosa l'immodestia. La si sarebbe presa per una statua greca che un Dio animava per le sue ore di frenetica ebbrezza. Si vedeva la sua carne palpitare sotto tutte le emozioni. Il suo seno dava la vertigine, meglio ancora dei suoi occhi se fosse stato possibile. Quegli occhi neri, profondi, grandi, vellutati, avevano uno splendore che ammortiva la luce ripercossa da tutto quell'oro e quelle pietre preziose. Le donne non si levavano i sandali per cenare; ma ella s'era lasciata togliere i suoi per mostrare un piede piccolo, bianco, elastico, arcano, delle gambe fine, ed il resto, sotto onde di velo, da dare i brividi a tutti i sensi. Aveva la bocca un po' grande: ma i denti scintillavano fra le sue labbra rosee e carnose, che invocavano i baci. Claudia era una di quelle donne che uccidono e che i morenti salutano con estasi: Cæsar, morituri te salutant.
Vedendola n'ebbi come un abbarbagliamento, e per un momento mi credetti perduto; poichè bisognava esser Tiberio per domare, per rattenere, per fissare quelle belve dell'amore. Un lampo traversò il mio spirito. «Chi sono io per provocare tanto fasto? dissi a me stesso. Cosa vuole ella da me?»
Sì, io mi rivestiva di fatuità, quando ciò stava nei miei interessi; ma non ne avevo poi tanta per credere di avere addomesticato con un solo sguardo quella leonessa, che essa sola avrebbe incendiato un'orgia. Quella donna aveva dunque uno scopo. La sua condotta la denunziava. Avessi io fatto mille volte più che fatto non aveva per lei, fossi io stato mille volte più venusto che non mi era, ella avrebbe potuto ricompensarmi con un sorriso. Perchè dunque questi apparecchi d'una festa frenetica?
Non comprendendola, mi trincerai nella mia finta fatuità, ed attesi.
Vedendomi entrare, Claudia mi fece segno di andare a prender posto presso di lei, e col più grazioso sorriso mi disse:
- Siate il benvenuto, ospite mio, benchè sia la guardia del pretorio che ti ha qui condotto.
- Se mi fosse dato averla fossile, quella guardia del pretorio28, le alzerei un cellario e l'adorerei, risposi. Orfeo traversò l'inferno, e al postutto non ritrovò che sua moglie.
Claudia sorrise. Sedetti a lei vicino. La sua testa sfiorava il mio petto.
- Ho un gramo cuoco, disse Claudia. Il mio Labdacus, nondimeno, è scolaro del famoso Mosquion, detto il Fidia dei cuochi, quegli che con i resti dei pranzi d'Atticus comperò due villaggi in due anni.
- Ho inteso parlare di quel povero diavolo a cui occorsero due anni per raggranellare la miseria di tre milioni. Un uomo come lui che dava al maiale il gusto dello storione, alle murene il gusto del cinghiale, che serviva dei ravani per acciughe, che conosceva la geometria, l'astronomia, la medicina, la pittura e la scoltura, mettere due anni per comperare alcune centinaia d'uomini e poche leghe di terra? Era un povero taccagno quell'Attico!
Le schiave che dovevano versarci il vino, presentarci le coppe, aspergerci di foglie di rose e rinfrescarci con le penne di struzzo, erano già al loro posto. Ad un segno dell'eunuco soprintendente al banchetto uno sciame di schiave di tutti i colori, mezzo ignude, come la loro padrona, irruppero nella sala, le une portando dei vasi o dei bacini, le altre sostenendo un immenso vassoio contenente il primo servizio.
- Ho ommesso, disse Claudia, tutte le ostentazioni, i giuochi, le facezie; ho ommesso perfino i due nani che Tiberio ha fatto allevare per me entro dei tubi, e che sono ancora più piccoli di Conopa, il nano d'Augusto, che pure non era alto che due piedi e mezzo. Ti do da mangiare soltanto, non t'invito ad una festa romana. Devi aver fame, a quello che mi fu raccontato.
- Fame! Ahimè! la fame è una voluttà che Dio ha serbata alla plebe, che neppur ne lo ringrazia. Io non principio ad aver fame che al sesto giorno dopo l'ultimo mio pasto.
- È peccato che non l'abbia saputo prima, mormorò Claudia; ti avrei procurato questo piacere, facendoti godere per qualche giorno di più dell'ospitalità della torre Phasaelus.
Il primo servizio era composto d'ova, olive bianche e nere d'Atene, cotogni del Libano conditi con miele e papavero, dei sanguinacci arrosti serviti sopra un letto di prune della Siria, e pasticceti di melogranate, di lattughe, e di garum (il caviale dei nostri giorni) che si paga alla libbra quel tanto che basterebbe a mantenere una legione.
- Ti piacciono le ova? mi domandò Claudia, mentre una schiava egiziana ci presentava un paniere d'argento e ce ne offriva sopra un tondo dell'istesso metallo.
- Sì, risposi io, ma ite in pulcini.
- Peccato, replicò Claudia, perchè eccole lì che se ne vanno in canari.
Infatti, rompendo le nostre ova di pavone, ne volò fuori un piccolo uccellino giallo, nel tempo stesso che una uccelliera s'apriva all'altra parte della sala e la riempiva d'un nuvolo d'uccelli di tutti i colori. Si sarebbe detta una pioggia di pietre preziose. Svolazzarono per un momento e poi fuggirono dalle finestre che davano sul giardino.
Da due giorni, io non aveva nel mio stomaco che due ova; Claudia lo sapeva. Nondimeno mi limitai a sfiorare quelle vivande che avrei voluto divorare.
- Pare che ier sera Cneus Priscus abbia avuto la inaccortezza di arrivare nella tua casa all'ora della cena, e che abbia attristato un bel visino.
- Sì, quel povero Bar Abbas, la cui parte dritta della faccia scappa a furia per non veder la sinistra.
- E nessun altro?
- Ah! quell'ipocrita di Justus, forse, che mi sta sempre alla cintola, striscia sempre a me vicino, arriva sempre avanti di me, e gode le delizie che io mi sono preparate.
- Anche del bel musino color d'ottone.
- D'ottone! Dell'oro purificato e bronzato ai raggi del sole, vuoi dire. Una donna bianca? Andiamo, via! La nera è la schiuma della grande caldaia della creazione; la bianca è la diluzione finale, esausta; la donna dalla tinta del bronzo levigato, l'è il metallo in ebullizione, purificato, vigoroso, ricco di tutta la sua forza, di tutto il suo valore. La donna bianca è la convalescente della specie.
- To', rispose Claudia ridendo, non mi credevo poi tanto ammalata. Una donna color di casseruola deve piacere ai guatteri.
Ci versarono del vino speziato di miele e cinnamomo. Poi, ad un segno dell'eunuco, le schiave si gettarono sulle vivande del primo servizio e tutto sparì in un batter di palpebra. Una schiava gaditana ci presentò del pane sopra un timballo d'argento. Un'altra mano di schiave, ancora meno vestite delle precedenti, entrarono allora nella sala, avendo alla lor testa un uomo con una lunga barba nera, vestito da mago, con una bacchetta d'ebano alla mano. Esse portavano sulle spalle un altro immenso vassoio coperto di una campana d'argento. Seguivale il cuoco Labdacus in persona, tutto vestito di bianco, preceduto da due maghi e seguito alla sua volta da una schiava nubiana che teneva nelle braccia un piccolo burchiello d'oro. Quando le nuove masserizie furono posate sopra le tavole, e che i vassoi furono scoperti, vedemmo servire sul nostro desco dei fagiani, del selvaggiume, una testa di cinghiale contornata da tordi, dei pasticci, dei crostacei; una lepre alata come il cavallo di Pegaso. Nella piccola barca nuotava uno storione in un mare di salse, in mezzo a triglie ed a piccole orate; e sopra una piccola conca a quattro bacini d'oro, quattro satiri accoccolati, che versavano dal ventre, quando era compresso, un liquore piccante ed aromatico, a differenti sapori, onde servir di condimento allo storione. Poi delle ostriche di Bretagna ingrassate nel lago Lucrino, un'anitra a datteri della Tebaide, una lacca di orsacchiotto, dei fegati di beccaccia al tamarindo, delle lingue di capriuolo al comino, una murena alla senape, delle lumache sopra una graticola d'argento, e dei legumi d'ogni sorta. Claudia bevette soltanto qualche goccia di vecchio Cipro, rassomigliante all'oro in fusione, e del secas, ossia succo di palma. Io gustai appena quei vini capitosi, vecchi d'un secolo, di cui i Romani erano altrettanto ghiotti quanto vani.
- Se la danza o la musica possono rallegrare questa cena, ho delle schiave che cantano e suonano così bene, che Tiberio le pagherebbe una provincia ognuna.
- Non conosco nulla di più volgare che il diletto della musica, risposi io, alzando le spalle. La musica è come il pane: tutti ne mangiano. Cosa è al postutto il canto?
- Diamine! il canto...
- Perdio! è l'epilessia del sospiro, il sussulto del grido; mentre che il suono è la contorsione d'una budella di cui si è fatto un Prometeo attaccato ad un pezzo di legno.
- Per altro, credo che la Giudea ebbe un re che suonava l'arpa.
- Per lo appunto. Ma perchè prima d'esser re era stato capraio. Quanto a me, io non conosco che una sola musica: il bacio; e mi vi tengo, fino a quando non potrò regalarmi di quelle canzoni che un re di Siracusa si faceva cantare da dei virtuosi chiusi nel ventre d'un toro di rame arroventato.
- Non contesto punto il gusto del tiranno di Siracusa, replicò Claudia ridendo: aveva del buono sicuramente. Ma non ammetto la musica del bacio. Un bacio l'è un cuac!
- Sarei tentato di provarti il contrario, mi sclamai io.
- Come! e la donna dalla faccia di pentola?
- Non è là che sta il pericolo, dissi sospirando.
- Ci sarebbe dunque una retroguardia? interrogò Claudia.
- Credo che ben presto la formerà tutto l'esercito.
- Davvero! Raccontami come sta questa faccenda.
- Non si raccontano i sogni. Raccontandoli perdono la doratura e non resta che il rame.
- Di' pur su; ti prometto di cambiarti codeste rame in oro.
- Ah! se ti prendessi in parola! risposi appoggiando le mie labbra sopra un riccio dei suoi capelli, che un suo movimento aveva avvicinato al mio viso.
La sentii fremere: impallidì, ma ebbe l'aria di non accorgersene.
Io non aveva commesso che un'imprudenza; avevo gettato uno scandaglio. Ahimè! doveva uscirne una catastrofe.
Ad un segno dell'eunuco che dirigeva la cena, il secondo servizio fu fatto sparire come il primo. Poi s'udì una musica rumorosa di flauti, crotali, castagnette, timballi, tamburini, citare, eseguita da piccoli mori, che precedevano una terza legione di schiave itale e greche quasi nude, o meglio velate da una nube di azzurro e d'argento. Queste schiave portavano il terzo servizio e le bellaria, ossia le ciambelle, le composte, ed i camangiari zuccherati. Sopra dei vassoi d'argento dorato e di porcellana delle Indie, trasparente come il cristallo, e dipinta di fiori ed animali, s'ammonticchiavano i pasticci d'uccelletti, beccafichi, tordi, ortolani, dell'uva di Corinto e di Sicilia, delle noci inzuccherate, dei cotogni irti di chiodi di garofani che parevano tanti porcospini, delle tarte al mele dell'Imetto, dei fichi, delle pesche, delle fragole, mille frutti infine, ed un Priapo in pasta di mandorle, il seno adorno di piccoli fiori e gioielli simulati in zucchero, profumati come una cortigiana ed imitati alla perfezione. Le schiave ci versarono nell'istesso tempo dei vini di Cadice e di Sicilia, fluidi come l'olio, dolci come il mele, e che insinuavano la febbre e la vertigine nelle vene. Quelle bellezze così perfette che mi passavano dinanzi agli occhi, quei tesori di voluttà divine che sfioravano le mie labbra, abbagliavano il mio sguardo, che io sentiva fremere; quella Claudia di cui l'alito mi bruciava quando si voltava verso di me; tutto ciò m'immergeva in una tale ebbrezza, mi ravvolgeva in un tal turbine di passioni, mi dava tali stordimenti, tali spasimi, che io mi sentiva svenire. Le tinte si succedevano sul mio viso come i lampi in una notte di tempesta.
Un momento mi tenni per perduto. Avevo già commesso il fallo mortale di accarezzare colle mie labbra un riccio dei capelli di Claudia.
Servirono tutte quelle leccornie sul nostro tavolo, mentre le schiave si abbandonavano ad una danza sfrenata. Poi ci aspersero di profumi e di foglie di rose, la cui freschezza mi temperò. Di poi, probabilmente dietro un segno di Claudia, tutte sparirono, eccettuata una schiava nera, che si sarebbe detta di marmo egiziano, tanto era bella, e che restò ritta, immobile ai piedi della sua padrona.
Claudia, dopo ch'io le ebbi toccato i capelli colle mie labbra, non mi aveva più indirizzato la parola, non si era neppur volta dalla mia parte. Vedevo che io l'avevo offesa. Ma la confusione delle mie induzioni s'imbrogliava sempre più nel mio spirito. «Perchè quest'orgia e tanto ritegno?» mi chiedeva io. «Cosa mai vuol ella da me?»
Cangiai tuono.
- Questa schiava comprende ella il greco, Claudia?
- No.
- Siamo soli, dunque.
- Sì.
- Allora mi permetti di farti una domanda?
- Secondo. Ma non fa nulla, parla.
- Che cosa sono io qui?
- Ma, il mio ospite, credo, rispose superbamente Claudia.
- E dopo la cena?
- Un uomo che mi ha reso un servigio, ed a cui io lo pago.
- Grazie tante, feci io; io impresto sempre a fondo perduto. Lascierei i tesori stessi della tua bellezza ai miei schiavi, o Claudia, se mi pensassi ch'e' potessero essere un prezzo.
Claudia mi fulminò d'uno sguardo, che credetti mi profondasse nelle viscere della terra. Tacque un momento, poi mi disse:
- Ti dipingono come un uomo pericoloso, ti accusano di cospirare contro Tiberio ed il popolo romano.
- E non s'ingannano. Sì, io cospiro. Sì, io sono il più mortale nemico del tuo popolo, o Claudia, e di tuo marito; e ne ho giurato la perdita.
Claudia sorrise, e soggiunse:
- Ti ho tolto via dalla prigione della torre Phasaelus; devo allora tenerti prigione qui.
- Preferisco la torre Phasaelus.
- Ed io, questa.
- Questa mi disonora come un vile, mi fa forse sospettare come un traditore; quella m'innalza alla grandezza del Bruto del mio paese.
- Hai ragione. Non ci avevo punto riflettuto, disse Claudia con voce commossa. Noi altre donne siamo frivole. Va dunque, sei libero. Però, credimi, lascia Gerusalemme questa notte stessa. Forse non potrei salvarti una seconda volta.
- Io non lascierò punto Gerusalemme, dissi io, tocco dal cangiamento che mi rivelava un altro aspetto del carattere di quella donna.
Ella aveva un cuore. Ma io non lo comprendevo bene ancora.
- Allora resterai qui, replicò con fermezza Claudia. Se gli è per sfidare dei pericoli che tu vuoi partire, sta tranquillo, ne troverai qui, e dei più mortali. Se gli è per vedere i tuoi amici, la tua amante....
- Che m'importa tutto ciò! risposi io allora con un sentimento del più alto disprezzo. Tutto ciò l'è roba che si compra, si paga, s'adopera, e non se ne tien conto.
- Sarebbe forse per quell'essere misterioso?
Tacqui. Le imagini di quelle due donne s'urtarono nel mio spirito come la folgore. Claudia anche ella aveva osservato, ed era stata abbagliata dalla bellezza della donna misteriosa di Moab. Ella corrugò le ciglia cariche di scintille.
- Io resto, dissi alla fine; ma potrò un giorno sperare?...
- Nulla, mai, sclamò Claudia, balzando sul suo letto. Tu cospiri contro Tiberio, dici tu, Giuda, sei implacabile, tu dici.... ebbene le passioni vere sono tiranne. Regnano sole. Resta. Resta.
- Sarebbe possibile? mormorai fra me stesso colpito da un lampo.
- Resta, resta, gridò Claudia. In questo mondo non c'è d'impossibile che ciò che non si vuole, ed il.... bene.
Fece un segno. La negra uscì e ritornò subito con un'altra schiava.
- Cypros, disse Claudia, questo giovane è tuo prigioniero.
IX
Justus non aveva assistito alla riunione in casa del sagan, perchè era andato da Maria.
Le portava la notizia della mia prigionia nella torre Phasaelus.
Questo colpo, che aveva rallegrato Justus, non abbatteva Maria. Ella non era donna da lagnarsi come una donna, da desolarsi, domandando aiuto al cielo.
Justus non era tale un amico, da non trar partito della disgrazia d'un amico.
Ritornando da Roma, io aveva incontrata quella ragazza sulle rive del lago di Genesareth, al momento in cui aveva perduto il suo ultimo parente, e restava sola nel mondo. Non mi occorse un lusso di seduzioni, per persuaderla a seguirmi a Gerusalemme. Sapendosi bella, la non disperava che un giorno o l'altro io mi sarei deciso a sposarla. Conoscendo il proprio carattere determinato, pronto alle risoluzioni, ricco di espedienti, ella contava far arrivare il più tosto possibile quel giorno. Una settimana dopo che ella aveva preso dimora nella mia casa, Maria aveva già compreso che i suoi progetti di Magdala non si sarebbero mai effettuati. Non esitò molto a decidersi di trarre dalla sua situazione il miglior partito possibile. Mi congedò, tra due dei più ardenti baci della luna di miele dell'amore29.
Era troppo tardi, e troppo presto. Troppo tardi, perchè io principiava a sentire per lei dei violenti desiderii; troppo presto, perchè non n'ero ancor sazio. In breve dopo una querela che durò tutta una notte ed una parte del mattino, andammo d'accordo: Maria consentiva a continuare ad amarmi, ma nella sua casa, padrona del suo domicilio, del suo cuore e delle sue azioni, rinunciando a tutti i vantaggi che la legge giudaica le poteva accordare su me. Per contro, io le diedi per abitazione una bella casetta fra due giardini, alle porte della città, nel sobborgo di Bezetha. E siccome io viveva quasi sempre con lei, vi portai tutto il lusso, l'eleganza, i piaceri che avevo osservato presso le dame romane e greche, e ci presi gusto anch'io.
Maria non aveva la tinta, in parte vera in parte presa a prestito dai cosmetici, delle cortigiane romane; ma la aveva nel suo colorito d'oro in fusione una freschezza, uno splendore, un mordente, un vigore, una giovinezza che la rendevano mille volte più seducente. Ella non aveva lo spirito, la coltura, il gusto, la grazia, il fascino morale della cortigiana greca; ma ne aveva tutta la civetteria; tutti i capricci; tutto l'imprevisto, tutte le voluttà, tutta la venustà scultoria delle forme. Era Cleopatra: quella misteriosa e tetra regina che aveva stretto il mondo due volte nelle sue braccia di bronzo, e l'aveva soffocato dei suoi baci. Maria era l'ideale della donna siriaca che possiede la taglia della palma, il color dell'aurora, gli occhi di serpente, la elasticità della tigre, la bocca che contiene un Eden di passione, sia che rida, o che morda. Questa regina di Saba ben presto adottò, dal momento che divenne libera, delle abitudini fantastiche. Sdegnò la moda delle donne ebree, pure così graziose e così semplici, e si compose un costume assiro, il quale le dava lo splendore che la notte ed il cielo azzurro danno alle stelle.
Non occorreva tanto per gettare lo scompiglio in mezzo alla gioventù ricca ed elegante di Gerusalemme. Maria l'ebbe presto tutta ai suoi piedi, mai nelle sue braccia. Giammai donna fu più fedele al suo amante amato, di quel che lo era Maria per me cui ella amava sì poco. Dovunque ella passava, tradita dai suoi profumi, dal suo seguito, dalla sua abbagliante bellezza, dai suoi adornamenti, dalla sua insolenza, dal suo riso che si sarebbe detto una cascata di perle sur un bacino d'oro, un riddare di raggi, dovunque la si mostrava, un vivo commovimento seguivala. Le altre donne impallidivano; gli uomini le si affollavano attorno. I sorrisi, le offerte, le parole amabili, la gaiezza, l'impertinenza, le risse, che so io? tutto scintillava e le turbinava intorno come il delirio.
Justus non aveva resistito a quella seduzione involontaria; tanto più che egli aveva visto Maria più da vicino, con me, nelle ore che la era ella stessa e non s'infingeva per altrui, ed era allora le cento volte più affascinante! Questa Greca di contrabbando era insomma una deliziosa Ebrea. Ella aveva, come io stesso, avvertito l'amore silenzioso di Justus, ma non fece mai nulla per provocarne la confessione; colui, dalla sua parte, non l'osò mai.
Dopo il mio arresto - e si sapeva che gli arresti di Pilato, cui nulla spaventava, erano mortali quasi sempre - Justus sperò; prese coraggio. Maria invece, che fino allora m'aveva impartito un così modesto bricciolo del suo amore, mi si diede con tutte le espansioni della sua anima.
- Ebbene, diss'ella, se Giuda è arrestato bisogna liberarlo.
- Gli è che.... riprese Justus.
- Non ci sono gli è che: lo si deve, dovessi io abbandonarmi nelle braccia del suo carceriere, come Giuditta, per strappargli le chiavi; dovessi mettere fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme. Quanto io ho, fino alle trecce dei miei capelli, prendete tutto e comperate la sua libertà.
- Maria, rispose Justus tutto tremante, ti sei mai accorta che io t'amo?
- Sì.
- Allora, puoi comprendere che farò tutto per piacerti.
- Va dunque e ritorna domani, quando avrai notizie più precise sulla situazione di Giuda.
Non vi erano che tre uomini i quali potessero dire alcun che sul mio conto: Pilato, Cneus Priscus, ed il vecchio carceriere della torre Phasaelus. Non c'erano quindi che due uomini i quali potessero andare ad informarsene: Hannah e Bar Abbas. Justus si rivolse ad Hannah, che rifiutò per tema di attirare l'attenzione sopra sè stesso. Bar Abbas accettò senza farsi pregare, perchè aveva già fatto i primi passi, coronati da quella serie di calci che il vecchio carceriere gli aveva regalati.
- Io non mi son mica uomo da aver paura nè di calci, nè di pugni, nè di colpi di daga, rispose egli alla proposizione che Justus gli fece; ma quando si agisce bisogna avere almeno una probabilità di successo; senza di che, l'azione è una follia.
- Certamente.
- Ebbene, per lavorar con efficacia, ho d'uopo di denaro.
- Ti vendi dunque sempre, Bar Abbas?
- Imbecille! gridò il galuppo. Quel denaro non sarà nè per me, nè per compensare i miei sforzi: devo corrompere qualcuno. Conosco il vecchio Ruben. Sono stato il suo pigionale più d'una volta. È chiacchierone, ubbriacone, goloso, infingardo. Ama le baldracche. Gli piace burlare. Tutto ciò, mio caro idiota, si compra e si paga. Se fossi ricco, non domanderei nulla. E non voglio andar a domandare nulla a Maria, perchè ella darebbe tutto, ella.
Justus prese un pugno di sicli, e lo versò nelle mani di Bar Abbas, dicendo:
- Non andar mai da Maria. Quando avrai speso questo denaro, ne avrai dell'altro, poi dell'altro ancora, e così sempre.
- Alla buon'ora! giovine ipocrita. Vuoi monopolizzare tutta la riconoscenza della pulzella. Va, va, fa la tua strada, ma sta in guardia: non si incespica mai che quando si guarda il cielo. Si direbbe che il cielo porta disgrazia.
- Ti metti subito all'opera, non è vero?
- Hai una premura che è sospetta, figliuolo mio. Sarei quasi tentato di domandarti la mia parte.
- Di che cosa? della premura?
- Di ciò che la provoca.
- Tu sai che Giuda è amico mio.
- Ma! appunto per ciò mi stupisco della tua magnanimità. Non si fanno tanti sforzi per un amico, che quando si tratta di perderlo.
Tre giorni dopo, Bar Abbas sapeva tutto.
S'era presentato al vecchio Ruben, per iscontare i calci della sera precedente. Aveva principiato lo scambio, con dei cazzotti, nella taverna ove il carceriere andava a gozzovigliare la sera, dopo di aver coricato i suoi pupilli. La partita saldata, Bar Abbas, da vecchio milite di fronte a vecchio milite - Ruben aveva combattuto contro Pompeo alla presa di Gerusalemme, - gli aveva offerto una riconciliazione.
- Non voglio distruggerti, gli disse egli, preferisco ubbriacarti, vecchio bestione.
La proposta non ammetteva una lunga riflessione, neppure per anomalia di gusti. Ruben accettò, colla riserva di bere ma senza ubbriacarsi. Promessa da beone. Egli bevve, s'ubbriacò, e parlò. Bar Abbas, per saldare i conti, lo fece rotolare con un pugno sotto la tavola dell'osteria, e uscì, mulinando così:
- Che la folgore soffochi il sagan, e Caifa in sua compagnia! Cosa significa tutto ciò? Levato dal carcere di notte, con una benda agli occhi, e condotto al palazzo di Erode per la porta del giardino? Che, che! messer Pilato si darebbe il divertimento di strangolare i prigionieri per suo proprio uso, in privato, senza giudicarli, nottetempo, e di preparare alle sue vittime la sorpresa di sentirsi torcer il collo, senza saper dove? Ciò è possibile. Le idee strane e malinconiche posson venire a cui casca sulla testa una donna che avea lasciata all'altro capo del mondo. Nonostante, gli è così dolce il contemplare i proprii nemici far le smorfie sopra una croce, dall'alto del monte Sion! Pilato è veluttuoso. No, no, egli non si sarebbe mai più giuntato dello spettacolo di Giuda crocifisso, nei suoi deliziosi panorami30 delle sere di autunno al chiaro di luna. C'è altra cosa. Vediamo un po': l'è quella benda indiavolata che m'imbroglia. Perchè hanno coperto il capo di Giuda di un lembo di drappo? Codesto mistero non indica un concetto d'un uomo, a meno che quell'orco di Priscus non abbia eseguito un ordine irregolare. Ma Bar Abbas mio caro, qual ordine? Per esempio, quello di una persona la quale avesse interesse di veder il prigioniero senza esserne conosciuta, in un sito remoto, e di farlo ricondur poscia nel suo carcere. Hum! Bar Abbas mio bello, tu spazii nella luna. Il vino di Gerico raffredda il tuo cervello. In fede mia, la più corta ancora l'è d'andare ad informarmene.
Sopra questa saggia determinazione Bar Abbas si recò al palazzo di Erode. Giuda non era ancora apparso al pretorio. Pilato adunque era fuori di causa. Quest'uomo di guerra del resto aveva potuto essere sovente aspro, ma non era mai stato soppiattone. Pilato posto da parte, non restavano che Pomponius Flaccus e Claudia, che avessero il diritto di far escire Giuda dalla sua prigione. Il governatore della Siria, perduto nelle sue dissolutezze, passando i suoi giorni nel letto e nel bagno, e le sue notti a tavola o altrove, avrebbe ben dato l'ordine di rapire una ragazza, od un ganimede, per rallegrar le sue feste; ma egli non si mischiava di sottrarre al carnefice le sue vittime. Pomponius quindi pareva innocente. Dunque?
Gli appartamenti di Cesare, abitati da Claudia, sporgevano sui giardini. Giuda era un bellissimo giovane. Le dame romane andavano pazze di orgie misteriose. Claudia arrivava, preceduta da una tetra celebrità, offuscata dall'odio degli schiavi contro i loro padroni. Ella aveva distinto Giuda in quella bella scena, che aveva commosso tutto il circo.... Occorreva altro? Bar Abbas diresse tutte le sue investigazioni nei contorni della bella Romana. Attaccò il segreto dalla parte del giardino e da quella della corte, con gli schiavi e con le schiave. Non potè scovrir nulla. Ma le sue induzioni non ne furono che più corroborate. Ruben mi aveva veduto passare pel giardino, e penetrare nel palazzo; i soldati che avevano accompagnato Cneus lo confermavano. A meno, dunque, che non m'avessero fatto escire di là morto o vivo, morto o vivo dovevo trovarmi in quella parte del palazzo.
Quando questa idea fu entrata nel capo di Bar Abbas, egli ritornò da Justus e gli comunicò le sue osservazioni. A Justus andarono a sangue; perchè egli ci aveva interesse, quand'anche non le trovasse verosimili, avendo in mente di profittarne.
Andò a vedere Maria.
- Ho scoperto il ritiro di Giuda, diss'egli.
- Il ritiro? Non è dunque più nelle segrete della torre Phasaelus? domandò Maria.
- Sarebbe stato meglio per te che vi fosse tuttavia.
- Perchè dunque?
- Perchè? Ami tu Giuda, Maria?
- Rispondi alla mia domanda.
- Ebbene, perchè Giuda è stato condotto al palazzo d'Erode, di notte, cogli occhi bendati, pei giardini, negli appartamenti di Cesare occupati da Claudia.
Maria impallidì.
- Allora....? sclamò essa.
- Non comprendi dunque?
- Ho paura di comprendere.
- Eppure è chiaro. Non c'è più traccia di Giuda. Pilato non sa nulla di tutto questo. La donna dalle orgie di Capri aveva ricevuto un servizio da Giuda. Tu sai se Giuda è bello supremamente. Se dunque non lo hanno ucciso, egli sdilinquisce nelle braccia della Romana che lo ricompensa del suo atto di coraggio.
- L'è una infamia, a codesta donna onesta, di rubare così l'amante di una favorita, per mandato della giustizia.
- Non hai altro da aggiungere?
- L'è una cosa infame, infame, ed andrò a proclamarlo in tutte le piazze di Gerusalemme.
- Ciò non ti restituirà punto Giuda. Claudia d'altronde è così bella! Maria, in tutta Gerusalemme, in tutta la Giudea, in tutta la Siria, non ci sei che tu - in ogni caso ai miei occhi - più bella di Claudia.
Maria restò pensosa alcuni minuti, cangiando ad ogni momento di colore, gli occhi ardenti, fissi, lucenti come una lama di pugnale, le mani increspate. Poi alzandosi con risoluzione:
- Justus, disse, l'altro giorno hai confessato d'amarmi.
- Io mi muoio di questo amore, Maria.
- Non te ne chiedo tanto. Vuoi tu, puoi tu salvar Giuda?
- Maria!... ma io t'amo. Non comprendi dunque tu che io ti amo, e che se Giuda ritorna....
- Bisogna ch'io lo strappi a quella donna, a qualunque prezzo: capisci? bisogna ch'io glielo strappi.
- S'egli fosse nella gabbia d'un leone, sotto le zampe d'acciajo di una tigre, non esiterei un istante. Non ci vedrei nessun pericolo.
- Va, sarai pagato, per Dio, del tuo pericolo, usurajo, poltrone.
- Maria, io t'amo: mi ucciderò dopo, se vuoi.
- Cosa ti occorre dunque? parla, vigliacco, confessa i tuoi desiderii. Vuoi forse che io ti getti il mio amore alla faccia?
- Un giorno, Maria, un'ora, ed io arrischio tutto. Io smuoverò il cielo, abbrucierò il palazzo d'Erode per arrivare fino a lui, per strapparlo dalle braccia, intendi? dalle braccia di Claudia.
- Tutto, tutto: io ti darò tutto, purchè tu riesca a liberare Giuda. M'hai tu compreso? tutto.
Justus era caduto ai piedi di Maria e li baciava con ebbrezza, sclamando:
- Gli è che io ti amo tanto, Maria! Gli è che traverserei il deserto sopra le mie ginocchia per arrivare fino a te, Maria! Un anno, un anno intero, mio Dio, ho sofferto il supplizio di vederti nelle braccia d'un altro, di sentire il rumore dei suoi baci, di sfiorare il soffio delle tue carezze. Mi sono trascinato la notte sotto le tue finestre, come un essere che striscia, per aspirare un profumo che trapelasse dalla tua camera, ed ho inteso.... Dio mio! e non sono ancora pazzo!
- Ma di che hai d'uopo ancora, cosa vuoi? Non ti ho forse detto tutto? La promessa non ti è bastante forse? Vuoi un impegno? un giuramento? Vuoi ch'io t'abbracci per farti partire, che mi getti ai tuoi piedi, per darti fretta? Cosa vuoi altro? dillo, ma dillo dunque! E resti invece lì ancora a leccare i miei sandali.
Justus si levò e sclamò:
- Maria, tu saprai ciò ch'io avrò fatto e giudicherai. Io non voglio giuramenti; tu avrai compassione di me, non è vero, Maria? addolcirai questo amore che mi uccide.
Alla sera, Justus ritornò da Maria. Bar Abbas aveva avuto ulteriori informazioni. Bar Abbas aveva fatto dei progetti di liberazione che Justus si attribuì agli occhi della giovine donna. Egli fomentava la gelosia di Maria, e strappava alla gelosia ciò che l'amore gli aveva rifiutato.
Qual era codesto progetto di Bar Abbas?
Bar Abbas era un vagabondo notturno. Gli restava ancora probabilmente una casupola, ch'egli chiamava la sua magione; ma ordinariamente e' passava la sua vita in casa altrui, o meglio nella casa di tutti: nelle piazze pubbliche, all'angolo d'una via, nel bugigattolo di una di quelle povere disgraziate che la notte sollecitavano i viandanti nelle stradelle remote, o in prigione, raccolto ubbriaco fradicio dalle guardie di notte, o facendo baccano all'uscio delle osterie. Gli accadeva talvolta, pure, di restare fuori delle porte della città, e di vagare lungo le mura a rischio d'esser divorato dagli sciacalli e dai lupi, battendosi coi cani che risvegliava.
In quelle peregrinazioni notturne, gli era avvenuto di esser due volte testimonio di una scena che lo aveva sorpreso. Aveva scoperto a una svôlta di strada, cinquecento passi dai giardini del palazzo di Erode, dalla parte d'Ophel, cinque o sei individui ravvolti nei loro mantelli, in disparte nella corte d'una casa, vicino ai loro cavalli, pronti alla partenza. Poi, più lungi, aveva veduto un'altra persona uscire da una porta secreta dei giardini reali, aprendola per di dietro, richiuderla ed allontanarsi. Quella scoperta gli aveva suggerito un'idea, una bizzarria. L'aveva comunicata a Justus, che l'aveva approvata senza discussione, giacchè gli era mestieri di raccontare a Maria un progetto qualunque fosse. Justus era uno di quegli uomini che hanno del coraggio in mezzo ad una mischia, e che sono poltroni di fronte ad un pericolo isolato. Bar Abbas non gli aveva per altro svolto che lo schizzo del suo progetto. Egli voleva, nella prossima notte, verificare la posizione, ed assicurarsi, se la sortita di quell'uomo che aveva veduto, si rinnovellava.
Difatti nella notte susseguente, mentre Justus alimentava la gelosia di Maria, e insisteva nei suoi tentativi, mentre io filavo con Claudia una passione ben altra che l'amore, Bar Abbas stava in attesa del visitatore notturno dei giardini del palazzo. Egli restò al suo posto, dalla terza fino all'ottava ora (due ore dopo la mezzanotte).
Gli otto uomini nascosti nella corte della casa vicina furono anch'essi al loro posto; ma l'attore principale mancò. Bar Abbas non era uomo da scoraggiarsi per uno scacco, sopratutto quando il suo stomaco era ben soppannato da una buona cena, e da un fiasco poderoso dei colli d'Emmaus. La seconda notte, e' fu più fortunato. Egli vide entrare l'uomo alla quarta ora, ed uscire alla sesta.
All'indomani, il progetto fu fissato con Justus cui un primo bacio rubato a Maria rendeva più audace. Justus riportò alla giovine donna, che la notte seguente avrebbero tentato la mia liberazione. Un secondo bacio rese Justus più che audace, temerario. Di che si trattava, in una parola? Oh! la era semplice come un matrimonio disfatto per mancanza di dote. Ma quella notte pure la buona stella di Justus che favoriva le sue correrie di baci nei miei dominii, gli preparò un insuccesso. Le cattive azioni hanno quasi sempre l'incoraggiamento della provvidenza. Bisogna essere eroico in ogni maniera, per far il bene. La notte seguente però i miei due amici furono ricompensati delle loro pene, e della loro devozione alla mia disgrazia. Quando ci penso, mi sorprendo ad allocchire: quel miserabile Bar Abbas era proprio ammirabile! Rischiava la vita, perchè? Certo, non per dei baci, e neppure per distrarsi.
Alle cinque della notte, un uomo avviluppato nel suo nero mantello rasentò il muro del giardino, senza guardarsi intorno, senza preoccuparsi di essere o non essere scorto, la testa bassa, a passi lenti. Arrivato alla piccola porta, cavò di tasca una chiave, aprì, entrò, e respinse la porta che si chiuse con fracasso. Si sarebbe detto che fosse il padrone di casa. Justus e Bar Abbas, che si trovavano più lungi in un incavo del muro, videro tutto ciò, senza soffiar motto. Poi, quando l'uscio fu chiuso, Bar Abbas afferrò la mano di Justus, che gli parve agghiacciata, e gli disse: - andiamo!
Si appostarono uno per parte alla soglia che l'altro aveva varcata, ed attesero.
La notte era fredda. Un venticello dispettoso si querelava colle foglie degli alberi, colle terrazze delle case, in una maniera piagnucolosa, stridente, paurosa come se qualche demone l'avesse minacciato, e cacciava dinanzi a sè degli immensi nugoli neri, dal portamento maestoso, che navigavano penosamente come navi ferite dalla tempesta. Questi nuvoli venivano dal sud, dal fondo del mar Morto e dal Giordano, e per conseguenza sopraccarichi di temporale. Dalla parte del nord, venendo dalle montagne di Samaria, uno sciame di nuvolette bianche ed impaurite se la svignava in fretta. Qualche stella abbastanza ardita per farsi vedere, rientrava alla presta. Centinaia di cani ululavano in lontananza, del non avere probabilmente trovato neppure una carogna nella valle dell'Hinnom. Il Cedron borbottava; perchè il suo filuccio d'acqua ed i suoi sassi si rincontravano fragorosamente dopo sei mesi d'un'estate secca come il deserto. Tutto dunque faceva prevedere una notte piena di strepito. Si udivano già alcuni sordi movimenti nell'aria, come di un giovine tuono che provasse i suoi primi rulli.
- Felice chi ha una casa ed un letto, borbottò Justus.
- Ed una ganza dentro, aggiunse Bar Abbas.
- Credi che quel facchino ci lascierà intirizzire qui, a lungo, eh?
- Diamine! se quel facchino trova là entro ciò che noi ci auguravamo testè, cioè un letto ed un'amante, ne ho paura.
- Preferirei finirla subito.
- Sei un eroe! se avremo mai una repubblica Ebrea, ti propongo per generale del nostro esercito.
- Ho una grande inclinazione per l'acqua; preferirei esser ammiraglio.
Due ore erano scorse. L'oscurità era completa. Nessun rumore umano annunziava che vi fosse qualche creatura svegliata all'infuori dei cani e dei carnivori, che venivano a cercare nelle immondizie della città il loro incerto pasto. Siccome l'ora della uscita dell'uomo ch'era lì entro, s'avvicinava, Bar Abbas e Justus tacevano, l'orecchia tesa, il naso al vento. Finalmente, intesero nel giardino come una porta che si chiude con precauzione, poi lo scricchiolar della sabbia sotto i piedi, poi il passo lento, pensoso, irregolare, a zig-zag, direi quasi attristato, tanto era pesante ed intermittente. L'uomo si fermò all'uscio.
Restò un momento lì, poi girò sui suoi talloni, guardando probabilmente il palazzo che lasciava in quel punto. S'intese un grosso sospiro precipitarsi fuori dal suo petto, come se avesse temuto di soffocarvi. Questa pausa durò due o tre minuti. Pareva indeciso se ritornerebbe indietro, o se sarebbe partito. Quest'ultima risoluzione la vinse. Girò di nuovo, frugò nelle tasche, prese una chiave, aprì, uscì. Chiudeva già la porta, quando una mano possente afferrò il suo pugno, mentre due braccia vigorose lo stringevano. Mezzo inviluppato nel suo mantello, quel visitatore notturno non avrebbe potuto opporre che una debole resistenza. Egli non ne fece alcuna. Si voltò come un uomo sorpreso, ma per nulla spaventato, come un uomo più maravigliato dall'audacia che commosso da un attentato, e sclamò:
- Cos'è dunque?
Il tuono con cui disse queste parole, fece rabbrividire Justus. Bar Abbas non si lasciò imporre da quel contegno, che ritenne preso a bella posta.
- Niente affatto, o per lo meno poca cosa, rispose egli coll'istesso tuono disinvolto. Ti domandiamo semplicemente quella chiave.
- Per che farne, se ti aggrada?
- Ma, una chiave, io credo, è fatta per aprire o per chiudere, per lasciar entrare o lasciar uscire.
- E per rinchiudere anche.
- Precisamente, ma io, nella mia ignoranza delle finezze della lingua, credevo che chiudere bastasse.
- Allora!
- Non hai ancora capito?
- Perfettamente; quantunque faresti meglio di parlare nel tuo linguaggio, se ne hai uno, piuttosto che scorticare il greco.
- Ah! questa poi è graziosa! io che ho dato delle lezioni di pronunzia ai Brettoni.
- Dunque, tu dici?
- Dammi quella chiave, o me la prendo.
- Siamo intesi. Però non m'hai ancora spiegato per qual ragione vuoi penetrare in quel giardino.
- Per qual ragione ci sei andato, tu?
- Io, l'è ben differente. Sono medico, ed il padrone di casa ha un cane che ha la gotta alle due zampe davanti, e non potrebbe sottoscrivere il suo testamento.
- L'hai guarito, spero.
- In un lampo. Egli ti lega anzi qualche cosa in quel suo testamento, io credo. Tra fratelli, del resto, è naturale.
- Come dunque! come! Un cane! capperi! saremmo noi entrambi dell'istessa famiglia? Sì, davvero un cane è il solo parente che potrebbe, morendo, lasciarmi qualche cosa.
- Egli è per questo che esso ti lascia la corda che domani io ti farò mettere al collo.
- Domani, caro medico, è ancor lontano. Siamo appena a mezzanotte.
- E mezza. Sta bene, ti do la chiave. Ma non puoi dirmi cosa vai a fare in quel sito? Io credo, che è per, per.... vorrei pur addimandar la cosa con una parola pulita.... Ah eccola: per rubare.
- Folgore del Sinai! per chi ci prendi tu dunque, imbecille.
- Ma, vi prendo per delle persone delicate che vanno di notte ad alleviare i ricchi del loro superfluo.
- Ebbene, marrano, t'inganni.
- In questo caso, virtuoso cittadino, te ne faccio le mie scuse. Avresti tu dunque, lì dentro, un intrigo d'amore?
- Ah! e se ciò fosse?
- Allora ti offrirei i miei servizii.
- Tu m'hai l'aria d'un famoso compare. Dopo tutto, vediamo. Sei di casa, tu?
- Un poco.
- Vuoi tu guadagnare... Hai dei bezzi, Justus?
- Sì, una ventina di sicli.
- Senti? vuoi guadagnare dunque una ventina di sicli, lasciando a me, ben inteso, il dieci per cento?
- E perchè no? purchè ciò che mi domandate non sia troppo pesante.
- È leggiero, come l'ordinario mio desinare. Si tratta soltanto di guidarci.
- Dove, se la domanda non è indiscreta?
- Lì dentro.
- Voi siete dunque curiosi di visitar il palazzo dopo mezzanotte?
- Noi siamo curiosi di trovare un amico che si è smarrito in quegli appartamenti.
- L'è una bisogna filantropica. Vediamo, raccontatemi come sta la cosa. Chi è codesto amico? come mai si è desso smarrito colà? Cosa cercava?
- Te lo dirò, camminando.
- Non mi piace conversare camminando. Spiegati prima.
- Avrei dovuto principiare coll'ucciderti, e prenderti la chiave, disse Bar Abbas. È un'idea che mi viene adesso, in ritardo d'un quarto d'ora, la sciocca. Non monta. Che tu sappia o no le nostre faccende, bisogna che io penetri in quella casa infame, che strappa i prigionieri dalle mude onde rischiarare le sue orgie.
- Cospetto! hai la collera virtuosa, mio bel profeta. Va innanzi. Spiegati un po' più chiaramente, e ti prometto, sulla mia parola, ajuto, protezione, ed impunità.
- Hum! sei troppo generoso per crederti solvente. Breve, te l'ho31 già detto, uno dei nostri amici è stato preso, tolto via dalla torre Phasaelus, dieci giorni fa, di notte, cogli occhi bendati. È stato condotto qui, è entrato per quella porta, ed è là negli appartamenti della moglie del procuratore probabilmente, con lei forse.
- Ascolta, disse l'uomo della chiave, tu verrai meco adesso in quella casa, e se hai mentito, o se ti sei ingannato, non c'è croce abbastanza lunga, non ci sono torture abbastanza atroci, per farti morire.
- Che io sia dannato! sclamò Bar Abbas, sei dunque Pilato, tu? E cosa vieni a rubare di notte qui?
Pilato non rispose. Con una mano aprì la porta, coll'altra spinse dentro i due avventurieri.
Sì, era Pilato in persona, l'uomo che a quell'ora usciva dagli appartamenti di sua moglie, senza vederla, senza parlarle. Egli non si curò di chiudere l'uscio. Afferrando i due accusatori di Claudia per i polsi, come in una morsa, li trascinò seco al fondo del giardino, spinse del piede la porta della conserva dei fiori, vi entrò e prendendo nella sua tasca un'altra chiave, aprì la porta che metteva nella casa. Dei deboli chiarori illuminavano i portici, i corridoj, le scale, e le camere ch'egli percorse coll'impeto dell'uragano, avendo sempre le braccia di Justus e di Bar Abbas chiuse nei suoi artigli di ferro, quantunque al postutto e' non avesse bisogno di loro. Arrivato finalmente ad una porta in cima ad una scala, bussò. La porta s'aprì e nell'istesso tempo la luce rischiarò una giovine donna, Pilato e i due suoi accoliti!
- Cypros, gridò Pilato, mi hai mentito.
Justus tremava; Bar Abbas, malgrado la sua impudenza, sentiva un brivido percorrere la sua colonna vertebrale, all'udire la voce cupa e dannata di Pilato.
- Sono perduta! mormorò Cypros. Oh povera madre mia, tu morrai schiava!
X
Dieci giorni erano trascorsi dal mio arrivo al palazzo di Erode.
Io non aveva compreso perchè Claudia mi vi avesse condotto; comprendevo ancor meno perchè mi ci tenesse. Tutte le congetture che avevo fatte su quella donna, eran fallite. Trovai stupida la mia condotta, e più io approfondiva il carattere di Claudia, più ella mi diveniva un mistero.
Non avevo, in tutta la mia vita, incontrato una donna più casta di questa impura, la quale esalava la lussuria come una rosa di Sharon esala l'odore. Non ho conosciuta una donna più fredda di quella cui trovavo recondita nella tempestosa organizzazione di Claudia. Quella civetta, era una matrona. Viveva separata da suo marito; ma io chiesi a me stesso parecchie volte: Amerebbe ella dunque quest'uomo che la fugge? All'impertinenza del primo giorno, era susseguita una familiarità, la quale però intrometteva fra lei e me un mondo. La cortigiana delle feste era figlia di Cesare nell'intimità. La dicevano frivola: ed il suo spirito era ornato di tutte le gemme ed i profumi della poesia greca e romana. A Capri, ella aveva figurato nella mandria di Cesonius Priscus, l'intendente della voluttà di Tiberio, e vi aveva imparato la politica del mondo, maneggiandola con Sejano che le faceva orrore. Claudia aveva certamente uno scopo; io mi perdeva in un dedalo di supposizioni, e non scopriva, dopo tutto, la verità in nessuna di esse. Non avevo più fretta di lasciarla, e oggi ancora, dopo tanti anni, e dopo tanti avvenimenti, cerco nel mio cuore perchè non l'amavo! Io era, certo, in quello stato di spirito, in quell'ora della vita, ove avrei dovuto divenir pazzo per quella donna. Maria passava allo stato di tramonto, nel mio amore. La sconosciuta del circo inviluppava d'una nube luminosa i miei vaneggiamenti; ma tutte due non colmavano il vuoto, che la vita a ventitrè anni scava avidamente nell'anima. Claudia aveva tutto ciò che un uomo elevato può desiderare: ella inebbriava i sensi con la sua bellezza, dava la febbre all'immaginazione con la sua condotta, con la elegante distinzione del suo spirito. Vi sono dei fenomeni psicologici che si spiegano, ma non si comprendono.
Avevamo passato una parte della sera sul terrazzo del Sud, dinanzi al quale si svolge la catena dei monti di Scopas e degli Olivi, e donde, per un appiattamento di questi monti, si vede il mar Morto, come una lama d'oro durante il giorno, come una nube violetta la sera ed il mattino. Passeggiando lentamente, l'uno vicino all'altro; cogliendo qui un fiore, là una foglia dai vasi di majolica azzurra, agli arbusti odoranti schierati sul parapetto, io le aveva modulato quella cosa selvaggia e splendida che si chiama: il Cantico dei Cantici di Salomone. Ella aveva ascoltato distratta, poi mi aveva detto:
- Sì, codesto canto è bello come le armonie del deserto; ma io preferisco l'Odissea.
Mi aveva poi sussurrato alcune elegie che Ovidio aveva scritte per sua madre Giulia, dal fondo dell'esilio, ove il suo amore aveva fatto naufragio. Una grave malinconia ci ravvolgeva. Il cielo era cupo, e il temporale vi si addensava.
- Ho a parlarti, Giuda, mi disse finalmente Claudia. Attendi qui. Licenzio le mie schiave, e ti farò chiamare.
La notte era scesa completamente. Poco alla volta l'assopimento s'era impadronito della città. Io circolavo nelle tenebre, come un'ombra che cerca riposo. Un'ora dopo, Cypros venne ad annunziarmi che Claudia mi attendeva. Aprì infatti una porta che dava sul terrazzo, m'introdusse nella stanza da letto della sua padrona, e si ritirò. Claudia le disse:
- Ti chiamerò forse: veglia.
Era la stanza che Erode aveva fatta costruire per Mariamna. Non c'era nulla al mondo di più ricco e di più suntuoso. Il soffitto era di cedro d'Africa, che valeva più dell'oro, scolpito a spalliera di fiori e di foglie, con dei grappoli in rilievo. I muri erano tappezzati di una stoffa che sembrava tessuta e filata di perle, profumata da viole, da bottoni di rosa ed iridi, rallegrata da un nuvolo di uccelletti indiani come il contenuto di uno scrigno di pietre preziose messe giù. Delle svelte colonne d'oro separavano le pareti in diverse inquadrature e sostenevano il soffitto. Uno spesso tappeto di Bactriana copriva il suolo, di cui faceva un'ajuola di fiori. Il letto era basso, largo, in scaglia di tartaruga del Gange a riflessi d'oro. Aveva la forma di una conca marina poggiata sopra un piedestallo, di avorio di Troglodite e d'oro, che simulava le onde.
Della lanugine di uccelli d'Africa, rinchiusa in una splendida stoffa persiana, riempiva la conca. Un baldacchino di stoffa ricamata di perle del golfo Persico e della Taprobana, di diamanti e di tutte le sorta di pietre preziose, copriva il letto come una tenda. Una coperta di porpora che valeva un milione di sesterzi, si stendeva sopra le lenzuola di tela d'Egitto, e sopra i guanciali di tela delle Indie. Lungo i muri correva una fila di guanciali di seta bianca trapunta a fiori, alcune sedie d'avorio; un immenso specchio racchiuso in un cerchio d'oro cesellato, sostenuto da due schiavi agginocchiati, in bronzo di Corinto, stava dinanzi la finestra; e nel mezzo della stanza, un piccolo letto d'ebano addobbato di cuscini bianchi e rossi ove Claudia si riposava mentre le schiave finivano la sua acconciatura della sera e del mattino. Vicino allo specchio, sopra un zoccolo di lapis-lazzuli si ergevano due vasi murrini della Caramina, di un valore incalcolabile, - regalo di Tiberio - e ripieni di fiori esotici nati e schiusi nelle conserve del palazzo.
La camera era rischiarata da alcuni candelabri d'oro posti ai quattro angoli. Un profumo inebbriante impregnava l'aere. La porta a vetri colorati che dava sui terrazzo fu chiusa; ma quando un lampo infiammava il cielo, si vedeva quella porta cangiarsi in un rabesco di mille colori.
Claudia era sola mollemente coricata sul suo letto di riposo, abbigliamento da notte. Una larga tunica di lana bianca, sottile come il vapore d'una sera d'estate, le inviluppava tutta la persona, eccetto le braccia. Un cordone di seta azzurra le stringeva i lombi. Una rete rossa imprigionava i suoi capelli neri ondati di azzurro, e traversati da un pugnale a testa d'oro, fino come un ago. Nulla di più voluttuoso, e di più casto: quella ricchezza era modesta. Pareva d'entrare in una stufa da fiori. Sopra un tavolo, alla portata della mano brillavano una32 carafa di cristallo di rocca e due coppe d'oro. Claudia riempì quelle coppe di una deliziosa bevanda agghiacciata, composta di succo di granate ed aranci misto a latte e mele, e me ne offrì una.
- Giuda, mi disse ella allora, demolisco Capua; devi partire.
- Son pronto, risposi sospirando dopo un momento di silenzio. Mi dirai almeno, perchè m'hai chiamato, perchè m'hai introdotto in questo Eden senza il serpente.
- Il serpente vi s'introduce, Giuda; è tempo dunque che tu te ne vada, e che riprenda la strada che il tuo destino ti indica.
- Non è il mio destino che me l'ha indicata, Claudia, sono io stesso, o piuttosto la mia noja. Tu conosci lo scopo che mi sono prefisso.
- Credo di averlo compreso.
- Intravvisto, forse.
- Compreso. Tu vuoi strappare la Giudea a Roma, sterminare i Romani che l'occupano, fare del tuo paese una repubblica aristocratica, sotto l'oligarchia sadducea, annientando i poteri pericolosi e cangianti del Tempio, e la venale ingerenza della plebe.
- Sì, ecco il mio scopo. L'hai indovinato.
- Puoi rivelarmi i tuoi mezzi?
- Semplicissimi forse, forse impossibili: far convergere, in un momento di tregua di Dio, gli sforzi di tutti i partiti che dividono la nazione Ebrea al compimento di questa risurrezione nazionale, uguagliandoli tutti nel costituirli separatamente; dare a questo moto un capo che segua il mio impulso, al quale tutti obbediscano, e cui, una volta compiuta l'opera, io sopprimerò, rientrando io stesso nell'orbita di quella oligarchia dirigente, alla quale appartengo.
- Questo piano è insensato o grande, rispose Claudia dopo alcuni istanti di riflessione. Il successo dirà se l'è una cosa o l'altra. Ma il successo non sta nelle vostre mani.
- Gli è questo che non so ancora e che voglio sapere.
- Prova.
- Sei tu, moglie di Pilato, nipote dei Cesari, cittadina di Roma, che mi dici: Prova!
- Io stessa.
- Ma allora, non m'hai compreso.
- Ho fatto più che comprenderti, sono convinta, e ti porto il mio appoggio.
- Ripeti.
- Ti do il mio appoggio.
Sorrisi e sclamai:
- Che disgrazia, o Claudia, che io non possa trasformarti in Messia: tutta la razza di Giuda cadrebbe ai tuoi piedi come dinanzi a Dio.
- È egli necessario d'esser Messia per concorrere a codesta liberazione, Giuda?
- Non assolutamente. Ma in Asia, ove si son visti Romani distrugger Romani per impadronirsi del potere a Roma e dello imperio del mondo, non si sono ancora visti Romani distruggere Romani per liberare una nazione.
- In Asia ciò non si è veduto; ma in Europa si è veduto un capo di legioni fortunato, un conquistatore marciare su Roma, e proclamarsi dittatore. Perchè non si farebbe, partendo dalla Siria, ciò che si è fatto partendo dalle Gallie?
Fissai gli occhi attoniti sopra Claudia e mi alzai. Ella non si mosse.
- Giuda, mi diss'ella, poichè l'ondeggiare della conversazione ci ha gettati sopra questo terreno, bisogna spiegarci.
- Poichè folleggiamo al paradosso, osservai io, permettimi, Claudia, d'aggiungere: Perchè stancarci ed andare fino a Roma, turbare la quiete del marito di tua madre, poichè abbiamo dinanzi a noi tutta l'Asia da risuscitare: l'impero di Ciro, d'Alessandro, di Dario, di Salomone stesso? Restiamo da questa parte del Mediterraneo ove il clima è così bello, la natura così ricca, l'uomo così vile, la donna così possente; ove lo schiavo obbedisce, il padrone gode, l'oro nasce da sè solo; ove la creazione ebbe la sua aurora, e vi spiega la sua opulenza meravigliosa.
- Giuda, replicò Claudia impallidendo, tu hai ricordato mia madre e Tiberio. Tu hai abitato Roma. Tu sai dunque una parte della mia storia, la parte infame, quella che traboccava da Capri, e si spandeva in fetide onde sopra la città dei sette colli. Hai udito forse raccontare delle mostruosità che la plebe vigliacca ha bisogno di credere per non confessare a sè stessa di non essersi sola imbragata nella poltiglia. L'ho inteso io stessa, codesto racconto, contaminare le mie orecchie, quando mi recavo a Roma e vedevo quel popolo che conduce il mondo prosternarsi dinanzi la mia lettiga, come dinanzi l'altare della Venere impudica. Non mi curai di confutare l'esagerazione di quelle fiabe. Ciò che ne restava di vero era già troppo per l'infamia di tutta una generazione d'uomini. Alla fine, tutto ciò ha fatto sanguinare il mio cuore.
- Claudia, sta in guardia, la memoria ti trascina a parlare di cose, che domani non vorresti mai aver rivelate agli orecchi d'un mortale.
- Poco monta ciò che io mi voglia domani. Credi tu che io ti abbia fatto strappare dalla torre di Phasaelus, che ti abbia provato con delle tentazioni alle quali un giovine di vent'anni avrebbe dovuto inciampare, soccombere mille volte, credi tu che io ti abbia tenuto qui dieci giorni per conoscerti, per comprenderti, che ti abbia fatto udire poco fa una parola che ha risvegliato la tua incredulità; credi tu, dico, che io mi sia lasciata andare a tutto ciò per capriccio, per ozio, e per ricompensarti del colpo di pugnale dato alla pantera?
- Non interamente.
- Ebbene, non vi è nulla che inganni tanto, quanto il conoscere le cose a metà.
- È vero: l'ignoranza completa val meglio.
- Hai tu osservato, Giuda, che io non porto mai su di me che due gioielli: questo anello e questa spilla da capelli?
- In fatti, ciò mi aveva colpito.
- Un giorno, sei anni fa, Cypros arrivò da un'isola del mar Tirreno, e mi presentò questi due oggetti. Sopra l'ametista di questo anello vi è un profilo di Tiberio contornato d'edera con l'esergo si vivet, vivam. Sopra questa spilla è incisa la parola greca: vendetta! Una donna, morente quasi nella miseria e nella solitudine - ella, figlia di Augusto, con questa sola schiava Gallica per compagna di disgrazie, ella, giovine ancora, uccisa dal veleno di suo marito; ella, madre, che sa la sua unica figlia, figlia dell'amore cento volte più cara della figlia d'un marito imposto dalle convenienze, essere condannata ai più infami mestieri - questa donna m'inviava questo triste regalo, la sua ultima memoria per mezzo dell'ultima sua schiava. La donna era mia madre. La schiava era Cypros, la quale in nome della sua padrona, dietro l'ultima volontà della sua padrona, deve ripetermi ogni mattino quando mi risveglio, tutte le sere quando mi corico, la parola: vendetta!
- Principio a comprendere.
- Aspetta. Avevo dodici anni.... Giuda, io ti faccio delle rivelazioni che mio marito stesso, egli più di tutti, ignora.
- Perchè?
- Che t'importa! Avevo dodici o tredici anni, ero il solo sollievo cui si consentiva lasciare a mia madre sulla sua roccia di Pantellaria. La nostra vita era triste, povera, spaventata; ogni uomo che arrivava da Roma poteva essere un assassino, o portare un veleno coll'ordine di Cesare di trangugiarlo. Il nostro sonno, una nelle braccia dell'altra, riassumeva tutti i nostri terrori, tutte le nostre felicità; noi eravamo unite; potevano separarci! A quella povera madre non restavano che le mie carezze. La mia voce le faceva tutto dimenticare. Un giorno, nondimeno, ella prese una risoluzione disperata. Ella mi disse: Domani partirai per Roma. Non la vidi più in tutta la giornata. Scrisse. Scrisse una lunga lettera a Tiberio che io doveva rimettergli. Julia gli si confessava. Ella gli rivelava il nome di mio padre già morto, le circostanze della mia nascita, e domandava grazia per me. Partii. Vidi Tiberio. Gli diedi la lettera di mia madre. Tiberio la lesse da cima a fondo senza che il suo viso tradisse la menoma emozione. Poi la gettò tranquillamente sopra un braciere che riscaldava la sua stanza. Mi guardò fisso, lungamente, e accarezzò il mio mento. - Cosa t'ha ella detto, tua madre? mi domandò finalmente. - Le sue parole sono state queste, risposi io: Tu farai tutto, figlia mia, tutto, intendi bene, per ottenere la mia grazia. - Hum, brontolò Tiberio, tutto! - Tu domanderai questa grazia tutti i giorni, continuai ripetendo le parole di mia madre; non vedrai mai Cesare senza ricordargli la mia grazia; e resterai fino a che non l'avrai ottenuta. - Sta bene, replicò Tiberio, resta e domanda tutti i giorni codesta grazia.
Claudia s'arrestò. Mi parve che fosse vinta dalla commozione. Ciò durò un momento, poi riprese:
- Io feci tutto. Domandai la grazia. Non l'ottenni. Io non vendetti la mia infamia; la mi fu tolta per nulla; quel Cesare mi derubò. Egli sapeva bene, pertanto, che se io mi rassegnava a quegli obbrobri, gli era per ottenere il perdono dell'esiliata. Egli scroccava la mia vergogna. Ciò ch'io soffrii, nessuno lo saprà giammai. Dovevo sorridere in mezzo alle sozzure di Capri, delle quali pensavo fare la redenzione di mia madre. Essa morì. Io restai infame per niente.
- L'è orribile, codesta storia, dissi io inginocchiandomi dinanzi a Claudia e baciando il lembo della sua tunica.
- Alcuni anni più tardi, Cypros arrivò col messaggio della morta, continuò Claudia. Allora mi decisi a partire. Tiberio vi consentì. Ormai e' non poteva più respirare la voluttà di uccidere la madre col disonore della figlia: non poteva più vendicarsi di una madre, immergendo me nella melma. Ma questo non era il mio solo supplizio. Io era maritata. Chi mai conosceva la santa parola che io portavo nell'antro della dissolutezza? chi sapeva che io m'inginocchiava davanti l'altare di Priapo per implorare misericordia per mia madre? Ebbene, m'inzaccherarono dei loro insulti, e la vergogna ricadde altresì sul fronte dell'uomo che avevano associato al mio obbrobrio.
- Povera donna, feci io, è dunque per questo che la tua stanza nuziale è vedova.
Claudia non rispose alla mia interruzione, e continuò:
- Tiberio abbandonava la sua preda. Sejano vi si opponeva. Quel miserabile mi amava con frenesia. Ciò che ci volle di lotta, il mio odio lo sa, e se ne ricorda. Avevo un bel fulminarlo del mio disprezzo, quel Sejano, egli si aggrappò a me come le anime alla barca di Caronte. Dovetti raccontargli ciò che io ti racconto ora. Quel fango ebbe la pietà che Tiberio mi rifiutava. Mi rispettò. Mi lasciò partire. Mi diede un consiglio. Oh! io non sono mica la sola che odii quel Cesare da cloaca!
- Posso io chiederti qual consiglio ti diede il terribile favorito del padrone del mondo?
- Te l'ho detto: prendere l'Impero a rovescio, e detronizzare Cesare. Roma lo deride. L'Italia lo odia. Le legioni lo disprezzano. Le provincie aspettano il primo che osi.... Ebbene, io oserò, io donna oltraggiata; io che odo a tutti gli istanti del giorno e della notte risuonare alle mie orecchie la parola di mia madre: vendetta! io che porto sopra il mio capo il suo pugnale, e che vedo ogni mattina, risvegliandomi, ogni sera, prima di chiudere gli occhi, la schiava fedele che raccolse il suo ultimo alito. Intendi tu adesso, Giuda? Comprendi perchè sei qui? Io ti ho messo alla prova: tu sei forte, hai della volontà e della perseveranza, tu detesti i Romani, tu cospiri contro Cesare: io mi associo a te. Avanti dunque. Se gli Dei sono ciechi, gli uomini devono aprir gli occhi e correggere il destino.
- Claudia, codesta franchezza mi commuove, ma non mi spiega tutto. Vuoi permettermi alcune domande?
- Parla.
- Pilato, conosce egli i tuoi progetti?
- In nessuna maniera. Se li conoscesse, mi darebbe in mano a Tiberio come una delinquente. Egli non sa nulla, e nulla deve sapere. Egli deve essere trascinato dagli avvenimenti.
- Pomponius Flaccus sa ciò che tu mediti?
- Pomponius Flaccus mi ama. Una mia parola, e farà tutto che io voglio: tradirà Cesare, sua moglie, suo padre, la sua coscienza: quell'arnese da crapula, per una notte d'orgia, metterebbe il fuoco al mondo intero. Pomponius Flaccus è l'uomo in tutto l'impero che meno m'imbarazza.
- Pilato allora resisterà.
- Ma voi altri nei vostri piani, non avete voi calcolato sopra questa resistenza?
- Sì, e io conto trionfarne.
- Ebbene, io cercherò diminuire l'urto diminuendo le forze ch'egli potrebbe opporvi.
- Insomma, cosa pensi tu di fare? che parte ci lasci tu in questa tragedia che può forse fallire, ma che mette conto di essere tentata?
- In due parole, ecco ciò che io penso di fare: e rifletti che questo progetto è stato concepito da Sejano. La Giudea si ribella. I Romani lasciano fare o resistono debolmente e la lasciano trionfare. Le legioni della Giudea e gli Ebrei fanno alleanza ed obbligano le legioni della Siria ad ammutinarsi. Questa diserzione sarà d'altronde pagata. Nel vostro Tempio, nel sepolcro di Davide, vi sono ancora degl'immensi tesori benchè in parte già saccheggiati. Noi contiamo su quelle ricchezze. Con questo denaro si comprano le legioni della Gallia, della Spagna, della Bretagna. Da tutte le parti queste legioni incedono su Roma e rovesciano Tiberio, che si ucciderà, o sarà ucciso dai pretoriani, prima che le legioni rimaste fedeli si muovano. Per prezzo del soccorso che la Giudea ci avrà prestato, la staccheremo dall'Impero e sarà emancipata. Ella riacquista la sua indipendenza del tempo di Salomone. Il prezzo che la Giudea pagherebbe ti pare forse esorbitante?
- Per nulla.
- All'opera dunque. Gli avvenimenti correggeranno gli sbagli di questo abbozzo, se ve ne sono.
- Claudia, diss'io alla fine, ho bisogno di crederti. Vi sono in questa trama tante cose misteriose, colpevoli, vere, terribili, grandiose, impossibili, sospette, ch'io vi crederei, anche se fossi sicuro che tutto codesto è falso, che tutto codesto è un agguato. Tu hai scelto bene il tuo istrumento. Il fantastico per me è il vero; l'assurdo è il mio ideale. Dar la mentita alla ragione, gli è il supremo dei miei piaceri. Io sono a te. Ma, confidenza per confidenza. Se tu mi hai indicato lo scopo, lascia a me scegliere la strada, il tempo, gli uomini. Il nostro popolo non è simile agli altri popoli. Noi facciamo una rivoluzione per cangiarlo, ma non lo cangeremmo per fare una rivoluzione. Da domani, io rientro in scena. Ma sai che tuo marito mi sorveglia, e che il suo aguzzino mi ha arrestato per sottrarsi alla noia di sorvegliarmi?
- Io ti domanderò a Pilato, e sarai più sicuro dell'imperatore stesso.
- Sta bene, soggiunsi commosso: io lascio questo palazzo in questa notte stessa. Sono felice. Non mi annoierò più, farò del bene forse, in ogni caso cercherò di piacerti. Avrei potuto vivere, lungo tempo forse, colla Claudia di questa mattina senza amarla e senza desiderarla; non potrei forse vivere due giorni ancora colla Claudia di questa sera senza amarla alla follìa ed adorarla come un dio. Ho il presentimento, direi quasi la certezza, che non riesciremo; che importa? Tu sei stata infelice, o Claudia, la tua vita non è riempita di memorie sorridenti; ti ricorderai di me. Dev'essere così dolce l'avere per tomba il cuore, o il pensiero d'una donna!
- Tu sei un nobile giovine, Giuda, susurrò Claudia, gli occhi brillanti di una lagrima che li dilatava.
- Perdonami, se ti ho mal giudicata.
- Tutti mi giudicano così. Perchè sarei inesorabile con te, mentre io non serbo rancore ad alcuno?
- Addio allora, le dissi, prendendole la mano e portandola alle mie labbra.
Restai un istante colle labbra su quella mano. Alzando il capo, vidi nel vano della porta Pilato in piedi, gli occhi fissi e divaricati, terribilmente pallido, immobile. Lasciai ricadere la mano di Claudia che aveva il dosso voltato a suo marito. Allora Pilato fece uno sforzo sopra sè stesso, e si avanzò.
La tempesta del cielo annunziava le sue prime convulsioni. Un colpo di tuono scosse l'appartamento, un lampo lo rischiarò.
Pilato prese un aspetto sorridente. Venne dinanzi il letto di sua moglie, che lo guardò33 appena senza dare alcun segno di commovimento.
- Sei tu, diss'ella volgendosi dall'altra parte, a quest'ora?
- Scusami, amica mia, rispose Pilato. Ho incontrato due persone che cercavano codesto giovane, e mi sono indugiato un poco conversando con loro.
Levai gli occhi, in fatti, e scorsi nell'altra stanza, rimpetto alla porta, Justus e Bar Abbas.
Pilato, dopo le parole violente che aveva lanciate a Cypros, s'era subitamente contenuto, ed aveva domandato delle spiegazioni. Sembra che il solitario della torre Mariamna intrattenesse delle relazioni intime colla giovine schiava. Tutte le sere, o quasi tutti i giorni, egli si recava nella stanza della Galla, a quell'ora avanzata della notte, e veniva a conversare con lei. Di che parlava Pilato con quella ragazza? Cosa aveva a dirle, con quell'aria misteriosa? Dio mio! Colla schiava Pilato andava a parlare di sua moglie. Le domandava i menomi particolari della giornata di lei, i suoi pensieri, i suoi desiderii, i suoi capricci, che so io! del vestito, del gioiello, del fiore, del riccio dei suoi capelli non ben fisso, dei vapori, delle collere, di mille nienti, e tante altre cose ancora.
«Questo Argo spia sua moglie, pensava Cypros; dunque non bisogna dirgliene niente!»
E Cypros non gli diceva niente.
Sopra tutto, Pilato era dilaniato dal silenzio assoluto che Claudia osservava sopra la sua persona. Cypros non ebbe mai a raccontargli che sua moglie si fosse occupata di lui, che avesse pensato a lui, o lo avesse nominato.
Cypros era ora côlta in fallo, ed in un fallo che ella stessa riteneva per capitale.
Cypros aveva dei begli occhi, che non risparmiava punto di adoperare. La mia carceriera non avrebbe forse desiderato niente di meglio che alleviare la mia vedovanza. Poteva ella pensare che Claudia ed io vivessimo come fratello e sorella? Tremò davanti Pilato; e confessò che io era nella camera da letto della sua padrona. Pilato ebbe come una vertigine. Poi si rimise, e venne.
- Questi amici hanno troppa fretta, rispose Claudia senza voltarsi. Giuda era per partire. Ma trovo impertinente ch'essi vengano a cercarlo, qui, alla mezzanotte.
- Scusa, amica mia, sono io che li ho introdotti qui onde procurare loro il piacere di vedere il loro amico alcuni minuti più presto.
- Allora fammeli gettare alla porta a colpi di verghe.
- Ti domando grazia per loro. L'affezione è cosa sì rara.
- È vero, fece Claudia. Andate dunque e addio, o piuttosto a rivederci.
Pilato diede un passo indietro per lasciarmi passare.
- Procuratore, gli chiesi, hai ancora tua madre tu?
- E poi?
- Io sono stato arrestato una sera senza ragione, con una specie di tranello, in quel giorno appunto in cui una simile punizione, anche meritata, avrebbe dovuto essermi risparmiata.
- Non l'ho ordinata io.
- Ti credo. Mia madre però è stata informata del mio arresto. Io le dava ogni giorno mie notizie e ricevevo le sue, poichè la povera vecchia è ammalata, gravemente ammalata. Sono già dodici giorni ch'ella ignora la mia sorte.
- Ebbene?
- Ebbene, io vorrei andare a Gerico in questa notte stessa, all'istante.
- Chi vi si oppone?
- Tu.
Pilato ebbe un movimento altero d'impazienza.
- Le porte della città sono chiuse, ed io non potrei partire che domani.
- In fatti, è vero.
- Allora io ti domando, se è possibile, una parola d'ordine onde farmi aprire la porta di Bethlemme, ed uscire.
- Amica mia, disse Pilato riflettendo, hai tu qui ciò che occorre per scrivere una linea?
- No, rispose Claudia.
- Sia, fece Pilato, ecco la parola d'ordine per passare: Claudia!
Claudia si voltò con un vivo movimento udendo pronunziare il suo nome. Non si sarebbe mai aspettata forse, che il suo nome fosse stato dato da Pilato. Questa impressione non durò per altro che un attimo. Claudia si girò di nuovo lentamente dall'altro lato.
- Claudia! osservai io, va bene. Grazie per mia madre, procuratore.
Dissi addio di nuovo alla bella Romana e partii.
Claudia e Pilato restarono soli l'uno rimpetto all'altro.
Ho conosciuti più tardi i ragguagli di questa orribile scena. Poteva egli mai pensare, Pilato, che un giovane di ventitrè anni ed una donna di ventiquattro fossero restati dieci giorni insieme per dirsi dei nonnulla durante tutto questo tempo e finire col cospirare d'accordo?
XI
Pilato principiò col passeggiare per lungo e per largo nella stanza, osservando ogni mobile, e gli accidenti del letto, e del letto di riposo.
Ahimè! tutto ciò era vergine, in quella camera d'una impura.
Claudia comprese forse, e lo lasciò fare; forse era assorta in un altro pensiero. Infatti, repentinamente, balzò in piedi, corse allo specchio dinanzi al quale era una piccola lama d'oro sospesa fra due colonnine d'agata, e la percosse a diverse riprese, convulsivamente, con un piccolo martello d'acciaio. Poi ritornò al suo posto.
Al tintinnìo di quella piastra metallica, Cypros accorse. Sembrava stravolta dal terrore avendo indovinato da quello strepito la tempesta che agitava l'anima della sua padrona. Cypros si avvicinò tremante, pallida come una landa di neve al chiaro di luna.
- Raccomoda la rete dei miei capelli, disse Claudia con voce sorda e gli occhi fulminanti.
Cypros cadde alle sue ginocchia gridando:
- Grazia, padrona, io sono innocente.
Claudia fissò negli occhi della giovane i suoi occhi carichi di collera, affascinandola, inchiodandola ai suoi piedi, affranta dalla paura. Poi senza aggiungere una sola parola, mise lentamente la mano ai capelli, ne tirò la spilla omicida, alzò il suo braccio e lo abbassò. Pilato vide quel movimento e si precipitò sulla mano di sua moglie. Arrivò troppo tardi. Il gioiello di Claudia aveva pugnalata la schiava delle Gallie. L'infelice Cypros si accosciò e cadde stesa sul tappeto, mormorando:
- Povera madre mia, tu morrai schiava.
Uno spruzzo di sangue saltò al viso di Claudia e lordò il suo bianco vestito. Ella contemplò per un momento quel cadavere, poi alzando lo sguardo sopra suo marito esterrefatto gli ordinò:
- Spingi col piede questa carogna sulla terrazza.
E ricadde sul suo seggio.
Pilato prese nelle sue braccia il cadavere della ragazza. Egli comprendeva ora perchè Cypros gli avesse nascosta la mia presenza presso di sua moglie. Si sovvenne delle ore di gioia che Cypros gli aveva procurate parlandogli di Claudia. Baciò castamente la fronte della povera vittima, e la depose sulla terrazza, ove il sangue fu ben presto lavato dalla pioggia che cadeva a catinelle. Un lungo sospiro che partì dal cuore, più che dal petto di Pilato, riassunse tutti i gemiti che il mondo serbava alla nobile creatura.
Pilato era atterrato.
Quest'uomo, sfuggito a tanti combattimenti, si sentiva soffocare d'orrore e di spavento, alla vista di quel sangue tirato dal cuore d'una donna, da una donna, con un gioiello.
Pilato era d'Hispalis (Siviglia), una delle quattro città della Betica, i cui abitanti godevano del diritto di cittadini romani. Suo padre si chiamava Marcus Pontius. In quella guerra di distruzione che Agrippa inflisse ai Cantabri (Biscaglini), Marcus si segnalò forzando i suoi grandi compatriotti ad uccidersi in parte, tenendo poi mano alla vendita degli altri. Egli comandava quel pugno di rinnegati che volsero le armi contro i loro compagni di schiavitù, gli Asturii. La Spagna sommessa finalmente a Roma, - dopo due secoli di resistenza - Marcus Pontius ottenne come segno di distinzione il pilum o giavellotto, da cui la famiglia trasse il nome di Pilatus34.
Lucius Pontius Pilatus, suo figlio, si attaccò a Germanico, col quale fece le guerre della Germania, e si trovò alla battaglia di Idistavisus (Hassembeck). Dopo la pace, Pilato ritornò in Ispagna. Ma ben tosto, stanco del riposo, venne a cercare a Roma il piacere, poichè Tiberio vietava la gloria.
Germanicus era perito in Siria per ordine di Tiberio. Ponzio si presentò a costui con una lettera di suo padre, che aveva combattuto con lui, allorchè egli era tribuno dei soldati nella Cantabria, e poscia in Germania. Tiberio l'accolse bene, troppo bene forse; poichè Ponzio era designato a Capri col sopranome di sposo di Tiberio35. Occorre però dire che nulla nella persona di Ponzio giustificava l'uffizio ch'egli avrebbe riempito presso il vecchio imperatore, e che forse fu Sejano a spargere quella voce onde screditarlo presso Claudia, di cui ambedue si disputavano i favori.
Ponzio aveva trentacinque o trentasei anni; statura media, l'aspetto severo, il colorito bruno, il corpo magro. I suoi begli occhi neri, come pure la sua barba ed i suoi capelli davan risalto alla sua aria malinconica, e rischiaravano la sua fisonomia, la cui gravità toccava quasi alla durezza. La sua bella bocca dai denti bianchissimi raddolciva questo insieme che ispirava più rispetto che simpatia. Egli aveva, inoltre, maniere rozze e violenti movimenti subitanei, la collera pronta, il colpo spietato. I gusti suoi erano volgari; la sua intelligenza mancava di coltura. Mai, in tutta la sua vita, egli aveva letto un poeta, una storia un filosofo; e nondimeno il suo spirito era poetico, la sua anima triste e pensosa. Aveva delle passioni a sbalzi, passando senza transizione dall'orgia furiosa all'ascetismo d'un esseniano. La era ancora una natura selvaggia, cui la corruzione aveva sfiorata, contrariandola, lasciandole l'istinto del bruto senza darle la pulitura dell'epicureo e dell'effeminato. La sua gelosia raggiungeva la follia. Il riguardo del suo onore si elevava all'idolatria. Generoso quando la passione non tempestava, crudele nell'uragano del suo cuore e dei suoi pensieri. Egli amava la lotta contro il difficile; quella contro l'impossibile lo seduceva. Il sentimento della giustizia lo ispirava sempre; ma egli aveva un criterio della giustizia secondo la sua coscienza piuttosto che secondo il diritto e la legge. Maltrattava volontieri l'uomo; per la donna era rispettoso, galante, condiscendente, tenero anche, e cavalleresco. Uno sguardo di donna lo trasformava. Epperò durante tutto il tempo che restò in Gerusalemme senza Claudia non si disse molto male della sua condotta. Se non fu casto, fu riservato. Non gli si conobbe nessuna relazione amorosa; vivendo anzi molto rigidamente, preferendo stare in una torre, anzichè nel palazzo di Erode, in fra i soldati anzichè fra gli schiavi dei due sessi che ingombravano la sua residenza; lasciandosi andare ai suoi gusti malinconici, evitando la gente, la luce, e correndo di notte pella campagna. Non era cosa rara l'incontrarlo dopo mezzanotte a cavallo, seguito soltanto dai suoi otto schiavi nubiani, muti come il fondo di un pozzo. Regalava generosamente. Rispettava il popolo vinto, più che poteva, quando Cesare o il popolo Romano non erano posti in questione.
Pilato aveva adesso un po' più di quarant'anni; ma il suo colorito bilioso, le rughe precoci, avevano fissato sul suo fronte un'età immobile; non era giovine, ma non invecchiava. Parlava poco ed ordinariamente con tuono secco e duro. Ma si abbandonava volentieri all'ironia, quando era meno triste, o al lirismo d'una imaginazione febbrile, quando era animato da una passione qualunque. Portava un lutto continuo; nessuno seppe mai di chi, nè di che cosa36.
Eccolo ora di fronte a Claudia, giudice d'una donna che sembrava colpevole, eppure commosso e quasi tremante. Le braccia incrociate al petto, in piedi sulla soglia della terrazza, eccessivamente pallido, lo sguardo profondo immobile sopr'essa, egli attendeva una parola onde uscire dal cerchio magico del silenzio che l'attitudine fredda e sprezzante di Claudia tracciava a lui dintorno.
- Ebbene, sclamò ella finalmente, chiudi quella porta, e vattene. È tardi, sono stanca e voglio dormire.
- Ti chiedo scusa, o figlia di Julia37, di avere turbato38 le gioie della tua notte, rispose con calma Pilato. Vi sono stato spinto da quegli uomini.
- Non essere modesto, Pilato, riprese Claudia con un sorriso. Tu avevi cercato una moglie nella pozzanghera di Capri per ambizione; sei stato carnefice del paese che ti si era abbandonato a divorare: ora sei divenuto una spia. Sei perfetto. Sposo di Cesare, sei ormai degno d'uno dei piccoli pesci di Tiberio. Adesso possiamo consumare il nostro matrimonio.
Pilato balzò, e afferrando violentemente sua moglie dal braccio, gridò:
- Che cosa faceva qui, quell'uomo?
Claudia guardò in faccia a suo marito, senza turbarsi, poi colla mano sinistra, tirò lentamente la sua terribile spilla dai capelli, e trapassò il braccio di Pilato. Questi ritirò la sua mano. Claudia rispose freddamente:
- È il mio amante.
Pilato contemplò con aria distratta il suo braccio che sanguinava, e lo avvolse in un lembo della sua toga.
- È il tuo amante, dici? continuò egli. Io trovo un giovane nella stanza notturna di mia moglie, a mezzanotte, soli, baciandole le mani; ho due testimonii che possono affermarlo, ella stessa confessa che è l'amante di quell'uomo. Io potrei ucciderla, potrei divorziarmi da lei, potrei trascinarla dinanzi i giudici e infamarla.... Infamare...! Claudia, io ti perdono.
Claudia tolse lentamente il suo anello dal dito, e mostrandolo a suo marito, gli domandò:
- Conosci questo anello?
Pilato l'esaminò, e gettandolo in mezzo alla camera, osservò con disprezzo:
- L'anello di Tiberio! Claudia aveva dunque mentito quando m'aveva detto che le veniva da sua madre.
Ella rispose:
- Potrei inviarti l'ordine, sopra un pezzo di carta suggellato da questo anello, di disonorarti, di esiliarti, di ucciderti, di abbandonare il posto di procuratore, alla vigilia d'una esplosione terribile di questo popolo, e di farti condannare come un vile o come un traditore.... Io ti lascio vivere. Io lavoro al compimento della tua infamia.
Pilato non l'aveva forse compresa, giacchè riprese come se parlasse a sè stesso.
- Al postutto, egli è giovine, è bello, è effeminato, ha mostrato del coraggio.... Se ella lo ama.... ciò è spiegabile. L'è giovine anch'ella, è bella, il suo sangue le fa violenza, la si annoja.... Dopo ciò che io aveva veduto, dopo quello che sapevo, dopo quel passato.... un amante solo, nel secreto della notte.... Oh, sì, sì, c'è un progresso nel bene, Claudia, perdonami, sono assurdo, sono pazzo.
- N'è vero?
- Che vezzi mi aveva io per sedurti? Straniero, rozzo, triste, senza nessuna di quelle eleganze della corte dei Cesari che abbagliano le donne, senza vizii clamorosi, povero, penetrato della modestia della mia posizione e del mio grado, troppo fiero forse.... oh! io comprendo tutto ciò! un marito di questa qualità ha bisogno d'un complemento. Egli è il masso informe, l'amante è la statua.
- Puoi dire meglio: egli è il vaso, l'amante è il mazzo di fiori.
- Ciò che accadde, doveva accadere, continuò Pilato, passeggiando a passi lenti nella stanza, parlando a sè stesso, non vedendo più sua moglie, nè ascoltandola. Io l'aveva veduta; era un rovo, e come tale produceva delle spine.... Perchè mi stupirei adesso che questo rovo non produca delle viole? Pazzo! L'hai voluto tu stesso, miserabile! Oh! perchè non restai nel mio paese! Hispalis era così bella! Il suo bel fiume limpido come il cielo; il suo cielo trasparente come le pupille delle sue donne; i suoi giardini ove ondeggia la palma, ove s'apre il fiore dell'aloè, ove la rosa canta, l'arancio scintilla dei suoi profumi nelle notti imbalsamate.... era così bella Hispalis, dall'aere pieno di dolci suoni, dai giorni pieni di sogni, dalle notti piene d'amore, d'amore casto, puro, esclusivo, geloso, infinito, intero.... Che mi andai a fare in Roma? Che andai a cercarvi, disgraziato....
- Il favore di Cesare, ed una provincia da saccheggiare, interruppe Claudia con disprezzo.
- No: l'assassinio della mia giovinezza, del mio riposo, del mio cuore, della mia felicità, di tutto. Io non sono ora che l'ombra d'un uomo, ravvolto nel sudario dell'infamia. Mia madre lo diceva pertanto! Ella non avrebbe voluto che io ponessi mai il piede in quel carnaio delle virtù, dei diritti e dell'onore, che si chiama Roma. Ella m'additava per compagna una nobile ragazza, pura come l'alito delle nostre montagne, bella come le serate di Gades (Cadice). Io non l'ascoltai. L'ho voluto. Di che posso ora lagnarmi? Ella ha un amante! Un solo amante, dopo Capri? Tu sei una vestale, o Claudia!
- Perchè non hai tu ascoltato i consigli di tua madre, virtuoso avventuriere?
- L'è il mio secreto e la mia vergogna.
- Te lo dirò io, il tuo secreto; te la farò conoscere io, l'estensione della tua vergogna. Arrivasti a Roma ebbro d'ambizione. Ti presentasti alla corte, che tutti giudicavano come un antro di sangue e di fango. La tua fierezza vi fa contrasto il primo giorno: Sejano se ne stupisce; Tiberio sbadiglia; Cajus Priscus corruga la fronte; Trasilio ne trasecola; Cajus Caligula ne rabbrividisce. Nessuno osa avvicinarsi a quella sconosciuta in quei luoghi, la fierezza! Nonostante il padrone, che osa tutto, la sfiora del soffio delle sue notti; ed il leone si cangia in majale.
- Tu pure, urlò Pilato fermandosi.
- Come tutti. I poeti ti hanno cantato.
- Sono infami.
- Forse. Ora, c'era in quell'antro una ragazza di diecisette anni, d'una bellezza affascinante, la cui influenza si diceva onnipossente sul cuore del padrone; di cui la storia era commovente, e la cui alta nascita condita di mistero. Tutto ciò, ti colpisce e ti esalta. Quella giovinetta aveva nelle vene del sangue d'Augusto. Che importa a te, che quell'imperatore sia stato trattato di effeminato da Sesto Pompeo; che Antonio lo abbia rimproverato di avere comperata l'adozione di Giulio Cesare a prezzo della sua infamia: che Lucio, fratello di Antonio, l'abbia accusato di essersi prostituito in Ispagna a Aulus Hirtius per trecentomila sesterzii; ch'egli fosse adultero, dissoluto, che s'imbragasse nelle orgie delle dodici divinità ignude?... Egli era Cesare39.
- Io non ci pensava.
- Veramente! Eppure quella ragazza aveva per madre Giulia: gli è tutto dire; e per padre un poco quello schiavo Telefo che cospirò contro Augusto, e un poco quegli altri schiavi Andasius ed Epicade che vollero rapirla da Pantellaria40. Che t'importava? La giovinetta era sempre della famiglia di Cesare. Serviva a Capri ai piaceri più vituperosi. Tu lo sapevi; più ancora, lo vedevi coi tuoi occhi. Che monta! la domandasti in isposa.
- Ecco il mio fallo.
- Credi? Ma Sejano la voleva egli pure. Il commediante Accius la domandava; il buffone Trullus, lo schiavo Parthenius, Nisia il mezzano la domandavano altresì. Perfino il grammatico Seleuco, Pansa il parassita, e Ortalus l'ombra, si posero della partita. Tiberio preferì te, o eroe di Hispalis. Quella gente gli sembrò pericolosa troppo per avere in moglie una nipote d'Augusto. Tu lo rassicuravi. Per te, un posto di procuratore nella più ignobile delle provincie Romane, bastava. Questo straniero, che veniva sì da lontano a battere alla porta della fortuna, doveva trovarsi soddisfatto d'intravedere la mano della nipote d'Augusto, e di andare a governare una provincia della Siria, sotto quell'ubbriacone di Pomponius Flaccus, che può a sua voglia licenziarlo come un servo. Tu restasti soddisfatto. Non restavi tu soddisfatto?
- È questo il mio secreto, e la mia vergogna, ripetè nuovamente Pilato.
- Il tuo secreto, te l'ho già detto. Venivi a mendicare un posto, che ti si gettò in fra i regali pelle mie nozze. La tua vergogna ebbe principio da quel giorno. Tiberio non era ancor sazio. Gli piacevo ancora; lo divertivo ancora; io era ancora assai giovane, assai bella, assai abile ed a modo, sempre pronta, alla ricerca delle sue grazie. Io gli era una varietà nei suoi piaceri, a causa della grazia che imploravo a ginocchio, la faccia a terra, torcendomi dalla disperazione, a causa del rifiuto, e sperando sempre! Mia madre viveva ancora. Tiberio paventava un pericolo in quella figlia di Augusto, in quella esiliata che era stata sua moglie, e le cui disgrazie facevano dimenticar le vergogne. Egli mi ritenne. Io non era soltanto un balocco per quell'ignobile vecchio, ero un ostaggio. Ti diede il diploma di governatore, e conservò tua moglie. Tiberio era geloso; non li permise neppure di sfiorare le labbra della tua donna, di dirle addio, di darle uno sguardo d'amore. D'amore! oh ch'e' sarebbe stato bene al suo posto l'amore in fra lo sposo e l'Atalanta di Tiberio! Ti risentisti tu? no. Tu partisti.
- E tu protestasti, tu?
- Io? io ti disprezzava prima di conoscerti. Ma, dopo quel giorno, ti odio. Tu parli di vergogna? Hai ragione: essa sbucciava in tutto il suo rigoglio. Dapprima si era oltraggiata l'orfana, la figlia dell'esiliata, il rampollo sconfessato della dissoluta: oggimai, era la moglie di Ponzio Pilato, era la donna del procuratore della Giudea, che si disonorava. La voluttà era resa più sapida dall'insulto. L'insulto si levava alto, folgoreggiante. Esso non colpiva più una povera giovincella; esso fulminava un rappresentante di Cesare dinanzi i popoli dell'Asia. Io mi meraviglio che Tiberio non t'abbia creato Re in qualche sito onde meglio assaporare le mie carezze! Bisogna ch'egli ti disprezzi molto, molto. Infatti egli mi ti ha dato come uno schiavo. La tua testa è in quell'anello. Ti sei tu ribellato contro i vituperii che t'inflissero? Parla, hai almeno protestato?
- No: ed e' son questi ancora una volta, il mio secreto e la mia vergogna.
- Vuoi ancora della vergogna? Ebbene, Sejano mi ha amata. Comprendi? Il domestico domandava gli avanzi del padrone.
- Basta, Claudia, esclamò finalmente Pilato fermandosi ritto inanzi sua moglie.
- Eppure io era bella, continuò Claudia, avrebbero potuto amarmi, interrogarmi. Chi sa? Mi avrebbero forse perfino stimata. Io valeva bene la pena, mi pare, che l'uomo che aveva ambito alla mia mano senza arrossire, avesse altresì aspirato al mio cuore, il quale non aveva detto verbo in tutto quel fetido mercanteggiare. Io era giovine, avrei forse potuto rialzarmi, riabilitarmi, giustificarmi dinanzi i santi lari famigliari, obbliare lo Stige di Capri sopra la testa pura, negli occhi innocenti dei miei figli. Avrei potuto piangere sur un fallo che non era il mio; espiare un'infamia che era forse una luce celeste, una lagrima di madre.... Dimmi, miserabile, cosa hai tu fatto, che hai tu tentato? Tiberio mi disonorava; tu m'hai infamata. Ti meravigli ora tu se adesso io ti odio? Con qual diritto mi domandi se ho un ganzo?
- Basta, basta, replicò Pilato. Potrei dirti una parola che mi giustificherebbe forse: disdegno di dirla. Sei libera. Non ti domando nulla, e non ti rimprovererò più nulla. Che vuoi di più? Ho provato d'illuminare le tenebre del mio inferno. Non ci sono riuscito. Ho avuto torto di provare. Il raggio che invocavo, mi ha fatto sembrare il mio inferno più lurido, ed ho ucciso il mio diritto di rimproverare. Ed ora, segui la tua strada, o Claudia. Io torno indietro. Sono stato complice fin qui; gli è mestieri, ch'io mi renda ora degno di divenir giudice. Tu non mi troverai più nel tuo cammino. I miei giorni saranno foschi, le mie notti tempestose d'insonnia, la mia solitudine popolata d'una corte più implacabile. Ma io mi preparo il diritto di dirti un giorno: Basta!
- Questo giorno non arriverà mai.
- Lo credi: ma allora, Claudia, ricordatene, guai a te, guai! Non è il tuo anello che ti salva oggi: è la mia coscienza.
Così dicendo, Pilato uscì.
Claudia lo seguì41 dello sguardo, alzandosi dal suo seggio, poi ricadde mormorando.
- La sua coscienza! Che? la sua coscienza avrebbe finalmente degli occhi per vedere il nostro abisso? insorgerebbe essa alla fine? avrebb'essa risentito la scossa della mia? Tanto meglio. Conoscerà allora quanto io lo disprezzo, e quanto disprezzo me stessa. Amare un tal uomo! amare l'uomo che ha fatto del mio obbrobrio scala alla sua grandezza? Che delitto ho dunque io commesso, io sì giovane per meritare questo implacabile castigo? Sarei io dunque stata scelta per essere l'Ifigenia di tutte le scelleraggini di Cesare e della sua posterità?... O pure la sua coscienza gli rimprovererebbe... che? amore...
Claudia si alzò d'un balzo; era spaventevole nel suo pallore.
- Oh! allora veramente sventura! sventura! come egli ha detto.
La tempesta spaziava a battaglia nel firmamento. Pilato traversò il giardino. Uscì dalla porta secreta, si diresse verso il posto ove i suoi nubiani l'attendevano, si coprì d'un mantello scuro che gli tenevano pronto, montò a cavallo, e facendo loro segno, ordinò:
- Andiamo.
Erano le tre ore dopo la mezzanotte. La città di Gerusalemme sembrava morta. Claudia che era uscita sul terrazzo per rinfrescarsi ai buffi dell'uragano vide passare, e sparire come fantasmi, nove cavalieri. Indietreggiando, urtò nel cadavere di Cypros. Gettò un grido e fuggì.
In quell'istesso momento, io varcava la porta del Gran Sacerdote, ed il ponte sul torrente di Gihon, giravo le mura della città, e lasciavo alla mia diritta la strada che conduce a Gaza e quelle che conducono ad Emmaus e a Joppa.
XII
Rientrando, avevo trovato in casa una lettera di mia madre linfaticamente inquieta del mio arresto. Ne era stata avvertita con precauzione. Diedi ordine che si preparasse il mio cavallo immediatamente, e partii solo, all'ora istessa, malgrado la bufera che incominciava.
Mia madre mi annunziava che la partiva il giorno stesso per Bethlemme ove era chiamata da mia sorella, maritata in quella città e che si era allora sgravata del suo primogenito. Io seguiva la strada del mezzogiorno che conduce in Egitto, e la cui prima fermata di notte è la città di Dain. Costeggiavo il monte degli Ulivi per la via che lambe la valle del Cedron. Il ruscello era divenuto torrente, tumultuoso, rissoso, sussurrone, urtando come un cieco in tutti gli ostacoli, e trascinando seco tutto ciò che incontrava, alberi, ponti, carogne, roccie e viaggiatori. Al chiarore dei lampi io lo vedeva balzare sotto i miei piedi, bianco di spuma e rapido. Principiai poco dopo a varcare un seguito di colli e di piccole vallate che si succedevano discendendo e che io vedeva finire ai piè della montagna d'Elia la quale chiudeva l'orizzonte. Il mio cavallo, spaventato dai tuoni e dai lampi, non mi permetteva di avanzar rapidamente, quand'anche il cattivo stato delle strade e le tenebre della notte non me l'avessero impedito. I Romani non avevano curato la via di Egitto come quella da Tiro a Damasco.
Avevo camminato circa una mezz'ora fuori della città, quando udii un rumore di cavalieri dietro a me, e me li vidi passare d'accanto come delle ombre scure. Io pensai, vedendoli galoppare così velocemente, che dovevano conoscere per bene la via, ed avere l'abitudine di percorrerla.
Intanto l'uragano infuriava. Non era più la pioggia che cadeva, ma grandine, erano ghiacciuoli larghi come la mano e duri come ciottoli. Il cielo sembrava un grande incendio, celeste e rosso, rischiarante l'universo che crollasse. A quella funebre luce, scorsi, in un incavo della collina, una casa nella piccola valle detta Berachah, ossia valle della benedizione. Riconoscendo l'impossibilità di continuare il mio viaggio a traverso quell'orribile scatenamento degli elementi, mi decisi a domandare colà un'ora di riparo. Io la scorgeva a qualche centinaio di passi da me, o piuttosto vedevo un grande quadrato di alte mura biancastre, guarnite di un torrione, in cima al quale rizzavasi un'ombra bianca. Nelle regioni remote del nostro paese, la sentinella su quella torre tiene il posto dell'hostiarium e del cane in mosaico presso i Romani. Avvicinandomi, distinsi perfettamente il guardiano che stava in alto al terrazzo. Allorchè fui arrivato alla porta, e' mi domandò che chiedessi.
Quella voce non mi sembrò nuova; ma io conosceva tante persone, ch'e' mi riusciva impossibile di precisare alcunchè. Risposi che desideravo pormi al coperto per alcuni istanti.
Mentre la sentinella dava l'ordine di lasciarmi entrare, distinsi sotto una tettoia dall'altro lato del quadrato di muro dinanzi cui mi trovavo, diversi cavalli e cavalieri. Probabilmente erano gli stessi che mi avevano poco prima oltrepassato, e che senza dubbio avevano cercato essi pure un ricovero da quella demenza del cielo. La porta s'aprì e mi trovai sotto una gran vôlta che metteva in una corte.
La corte era scoperta. Una fontana di marmo bianco risuonava nel mezzo, circondata da un'aiuola di mirti e di fiori che potevo distinguere appena. Un largo porticato si sviluppava intorno al muro esterno sopra tre parti, poi questo muro correva lontano, e copriva la facciata di dietro, racchiudendovi così un vasto giardino. Una piccola casetta tutta bianca spiccava nel mezzo, avendo una bella terrazza al disopra del portico che precedeva la porta. Le finestre erano illuminate. Ma il servo che venne ad aprirmi, mi arrestò prendendo il cavallo per la briglia. Intanto la tempesta raddoppiava. Il servo m'offrì da mangiare e da bere. Rifiutai. Domandai a chi appartenesse quella casa, mi rispose:
- A Caius Crispus, comandante la cavalleria della 12.a legione.
- È egli qui?
- È ad Antiochia.
- La casa per altro è abitata?
- Sì, da sua moglie: ed ecco perchè a quest'ora non si lascia entrar nessuno.
- Come chiami tu la tua padrona?
- Ida.
- È giovane?
Il servo non mi rispose e fu l'ultima domanda che mi permise di rivolgergli. Si vegliava nondimeno nella casa, poichè io vedeva disegnarsi e muoversi delle ombre dietro le finestre. Scorse una lunghissima ora. La tempesta si calmò. Vidi allora passare sul terrazzo una figura di donna che veniva probabilmente ad assicurarsi se la pioggia era cessata. Rientrò presto; e un quarto d'ora dopo vidi un uomo ravvolto in un oscuro mantello, uscire, passare a diritta nel giardino, aprire una porta segreta e partire. Volli andarmene anch'io nell'istesso tempo. Lo schiavo mi trattenne. Cinque minuti dopo, udii lo scalpitare dei cavalli che passavano di galoppo dinanzi alla casa, dirigendosi verso Gerusalemme. Un quarto d'ora più tardi il servo si decise ad aprirmi la porta e lasciarmi partire alla mia volta. Il temporale era cessato.
Ogni sorta di fantasie mi danzava nel capo. Chi era quella donna? chi era quell'uomo? chi mi aveva parlato dall'alto della torricella?
L'aria fresca del mattino, il quale cominciava ad imbianchire, calmò i miei sogni. Io ascendeva il monte d'Elia. Ero intirizzito: ero tutto bagnato dalla pioggia. Quando arrivai alla cima del monte, il sole si alzava. Mi fermai per guardare a me d'intorno. Una folla di ricordi m'assalse, poichè io aveva sotto gli occhi il teatro degli episodi più memorabili della nostra storia.
Io amo risovvenirmi: quest'è un rifugio contro i propri contemporanei che hanno sempre torto. Poi l'è una cosa involontaria. Lo spirito viaggia senza attendere un congedo. D'altronde io ero all'istesso sito, nell'istessa ora forse, ove una moltitudine immensa di soldati, di popolo, di nobili, di sacerdoti, colle loro greggie, i loro servi, i loro schiavi, mogli, ragazzi, vecchi, a piedi sopra queste pietre roventi, sopra asini o sopra cammelli, guardavano per l'ultima volta il monte degli Ulivi, dietro il quale Nabuchadnebzzar prendeva il tempio, bruciava la città, saccheggiava e demoliva il palazzo di Sion, cacciando dinanzi a sè i saggi ed i profeti, Gionata e Geremia. La casa di Davide aveva cessato di regnare, Israel42 era disperso nella Siria, nella Media, al di là del Tigri, gettato in Babilonia. Quelli che restavano, gl'invalidi, gl'impotenti, quelli da cui il padrone straniero non aveva nulla a temere, avevano preso stanza sul Mizpeh, quell'altura al di là di Sion. Ma questi pure, dopo l'assassinio di Gedaliah commesso da Ishmael, videro da questo sito per l'ultima volta il cielo di Gerusalemme, giacchè nè la voce di Geremia nè quella di Baruc ebbero forza di persuaderli a ritornare sui loro passi. La voce del re di Babilonia tuonava più forte di quella dei profeti, e profeti, capitani, figlie del re, tutti andarono a chiudere i loro occhi in Egitto.
I monti di Gedor e di Gibeah mi circondavano. Ai miei piedi stendevasi l'Ephrath d'una volta, il Bethlemme d'oggi. Il torrente Cedron discendeva di gradino in gradino, di cascatella in cascatella, ed andava ad immergersi nel mar Morto, lì, in fondo43, in quel piano celeste al di là del quale io scorgeva le montagne violette di Moab, ed il bianco profilo delle torri di Makaur. Da una parte, la pianura di Sharon dalle rose, verso Lod e la splendida baia di Joppa ed Askalun. Dall'altra, il deserto, Gerico, il Giordano dalle limpide acque. Nel basso, Bethlemme - quella verde collina, ancora risplendente ai raggi del mattino, adorna degli ultimi fichi verdi, dei pampini violetti, di cedri ed aranci, un mazzetto di giardini - di cui un labirinto di sentieruoli bianchi forma un delizioso e profumato saico.
All'estremità di questo ammasso di cubi bianchi, e di pochi palazzi chiusi da una seria di catene, si rizza sopra un'altura un po' più lungi dalle altre abitazioni, fuori delle porte, una casa che pare un castello a grosse mura, residenza un tempo di Booz e di Ruth, poi di Davide, poi di Chimham. Ecco l'ancor candida tomba di Rachele. Ecco le grotte ove David si nascose, ove dormì Saul, ove qualche volta ripara la iena, ed ove una folla di pastori e di greggie sfuggono alle morsure del sole. Ecco le colline ove David custodiva gli agnelli di suo padre, apprendeva ad uccidere giganti, a raggiungere i lupi ed i leopardi alla corsa, a suonare l'arpa, e ove s'inebbriava della rugiada dell'empireo, che distillava poi in salmi ed in cantici.
Pare ancora di vedere sopra la marna rossastra delle fessure e dei solchi della roccia, l'impronta dei piedi di Rachele, quando, venendo dalla casa di suo padre, fu sorpresa dai dolori del parto e morì col suo bimbo. Sembra di vedere tutt'ora le traccie di Saul quando andava ad interrogare la maga di Engadi. Ecco il campo di Booz, il quale seguendo i mietitori, guardando le gambe ignude delle spigolatrici, osservò la sua nipote Ruth, che sua suocera introdusse una notte sul suo letto di covoni. «Va dunque, lavati, profumati, metti i vestiti del Sabbato e scendi nei campi.» Ruth, la Moabita, era, come la mia Maria di Magdala, Galilea. Booz la lasciò spigolare, lasciò che si avvicinasse all'ombra ove egli pranzava in mezzo alle sue genti, lasciò che bevesse della sua acqua, permise che inzuppasse il pane nel suo aceto, e.... si risvegliò una mattina nelle sue braccia.
Le notti di Bathlehem hanno risuonato delle canzoni di David, dei gemiti della bella Moabita, dei ruggiti di Saul: i suoi silenzi covano i terrori di Samuele e di Geremia. Gli è dinanzi quella tomba di Rachele che Saul s'inginocchiò, e si rialzò re. Gli è da quella valle di Cedron, che David si salvò dalla ribellione di suo figlio Absalon, il fratello di quell'Amon che amò sua sorella Tamar.
Tutto ciò si agitava nel mio spirito e sotto i miei occhi quando arrivai, a mezzo giorno, nella casa di mia madre.
Mia madre, tutta intenta al bimbo appena nato, si accorse appena della mia presenza. Lasciò sfuggire un oh! lungo come la strada delle Indie, e continuò a preparare non so qual bibita confortante composta di vecchio Chios, latte e miele. M'affrettai del resto a tranquillarla, dicendole fin dalla prima parola, che ero stato arrestato per un equivoco. Tutti i parenti ed amici di mio cognato vennero la sera a44 bezzicare qualche bricciola di notizie della metropoli, e chiacchierare sopra gli spettacoli del circo, di Claudia, di Pilato, di Flaccus, di Hannah, sulle stragi del giorno dei Tabernacoli, di tutti e di tutto. All'indomani non avendo più nessuno da rassicurare sulla mia sorte, nè notizie da propagare, me ne tornai a Gerusalemme.
La giornata era bella e calda quantunque fossimo già al principio di marchesvan (fine di ottobre). Le api lavoravano ancora. Le farfalle imperlavano ancora il cielo delle loro ali. E il cielo nettato dal temporale del giorno prima, confondeva il suo azzurro profondo con la pupilla divina. Il Cedron cinguettava ancora colla sua striscia argentea, cercando taccoli ai ciottoli candidi e rotondi, ed agli sproni rocciosi delle montagne che lo indicavano. L'aspetto di quei poggi scaglionati a forma di scala, dal piano all'alto di Sion, era tristo, ignudo: si sarebbe detto avessero la calvizie d'una vegetazione perduta. Dalla cima di una di quelle alture, verso mezzogiorno, immersi alla fine lo sguardo nella piccola valle della Benedizione, civetta come una fanciulla da marito.
In mezzo a tutte quelle roccie calcari, grigie e rossastre, quel boccon di verdura e di fiori, che pareva lì preparato sopra un bacino di marmo, rallegrava lo sguardo meglio di una festa. Un'alta muraglia inquadrava e nascondeva il giardino e la casa. Due torricelle fiancheggiavano la porta d'entrata, ma questa volta nessuna guardia vi vegliava. La casa in pietre bianche, si apriva sur un portico di marmo rosso, che si trasformava in terrazzo al dissopra. Il gran porticato a colonne di granito grigio e nero, che si addossavano interiormente su tre lati al muro esterno, mi sembrava lastricato di marmo bianco e rosso. La fontana nel mezzo della corte era in marmo bianco, circondata da un labbro di terra, coperta di fiori a varii colori. Una statua di donna genuflessa portava la coppa di porfido, dal cui centro si slanciava un filo d'acqua molto in alto e ricadeva dagli orli della coppa della vasca come un velo d'argento. Dei vasi di maiolica, con degli arbusti fioriti, coronavano le aiuole. Il giardino era uno spicchio di cedri e di aranci.
Provai tutte le tentazioni del mondo che mi spingevano ad introdurmi di nuovo in quella dimora, così poco conforme ai nostri costumi ed all'architettura giudea. Avevo pensato tutta la notte, tutto il giorno, lungo tutta la strada, a quella casa, alla donna che l'abitava. Avevo immaginato mille pretesti per penetrare là dentro. Arrivato alla porta, trovai tutte le mie ragioni stupide, la mia associazione d'idee assurda. Passai oltre, ma col progetto deciso, che ormai, qualunque fosse lo indirizzo dei miei viaggi a levante o a ponente, al mezzogiorno od al nord, io passerei per quella strada, dinanzi quella casa, in attesa dell'occasione.
Dimenticavo di aggiungere, che, dall'alto del mio osservatorio, avevo veduto passeggiare all'ombra di un boschetto d'aranci, una forma bianca, la quale m'aveva tutta l'aria d'esser una donna. Poi, quei cavalieri della notte precedente m'avevano avuto l'aria di somigliare molto agli otto nubiani di Pilato.
Ruminavo ancora su tutto ciò, allorchè mi trovai senza pensarlo dinanzi la porta di Maria. Appena fui scôrto, le porte s'aprirono, e tutti i domestici della mia amante mi si precipitarono intorno. Avevano l'aria costernata.
- Cosa è accaduto? domandai commosso alla mia volta.
- Egli è che la padrona, disse Sara, è uscita da due giorni e non è più rientrata.
- Non più rientrata?
- L'abbiamo attesa giorno e notte.
- Da due giorni?
- Ha lasciato una lettera per te, o padrone, sopra il tavolo della sua stanza da letto.
Entrai lentamente nella casa, quasi acciecato da un sospetto che mi passò per la mente.
- Ella amava Justus, dissi a me stesso.
Sara m'accompagnava raccontandomi, come il giorno precedente, all'alba, Justus era venuto ad annunziare a Maria che io era libero, e che avevano conversato insieme alcun tempo, che Justus aveva baciato Maria sulle guance, e che si erano lasciati dicendosi: A questa sera!... Poi, che Maria s'era vestita di ciò ch'ella aveva di più vecchio e di più semplice, che aveva preso pochi sicli soltanto, scritta la lettera ed era uscita senza dir nulla a nessuno, sola coperta da un velo nero che la nascondeva completamente, e che non era più ritornata.
Presi vivamente quella lettera, e lessi:
«Addio, Giuda. Tu non mi ami più. Avrei avuto il diritto di lasciarti e di cadere nelle braccia che mi si tendono da lungo tempo per accogliermi e stringermi con delirio. Non voglio macchiare la tua memoria; ciò che avrei forse fatto in un momento di dispetto e di gelosia, se io fossi restata. Tutto ciò che v'ha qui, t'appartiene. Io ti lascio. Non voglio conservare di te altro che il sogno ardente e puro dell'amore che ti ho dato, che avrei continuato a darti, e che tu non potevi più rendermi. Addio!»
Questa lettera così secca, così fredda e così ardente nell'istesso tempo, mi cadde dalle mani. Mi lasciai andare sopra il letto. Se quella lettera mi fosse stata scritta da un'altra donna, l'avrei presa per un tranello. Ma conoscevo il carattere franco, risoluto, spiccato della giovane Galilea. Quelle poche parole di addio mi strinsero il cuore. Restai diverse ore assorto, rimuginando nella mia memoria la storia di questo amore spezzato in modo sì repentino. Io non aveva a fare alcun rimprovero a Maria per consolarmi dei suo abbandono; ne aveva diversi da fare a me stesso. Io perdeva il mio cuore a riposo. Perdevo un sorriso sempre pronto a rallegrarmi, una parola sempre vivace per tirarmi dal dubbio. Quell'amore bravo, disinteressato, leale mi aveva cullato per un anno in una felicità senza enfasi, ma senza parsimonia. La sua gentilezza ingenua, l'affetto, che la civetteria faceva risaltare come fa un color vivo d'uno più dolce, l'attaccamento sì semplice come quello di una sorella.... avevo perduto tutto ciò. E perchè? e per chi?
Il colloquio ch'ebbi la sera stessa col sagan mi ricondusse ad altre idee. Io non gli dissi una parola di ciò ch'era accaduto fra Claudia e me, nè degli accordi presi. Asserii di esser venuto fuori dalla prigione, cui la moglie del procuratore aveva reso clemente, onde ricompensarmi del servizio resole nel circo, e che mi aveva per ciò fatto risparmiare da suo marito. Il sagan mi raccontò la discussione dell'assemblea riunita in sua casa all'indomani del mio arresto, e le risoluzioni che vi erano state prese.
- Il consiglio è buono, gli dissi. Viene da Jeù l'esseniano. Lo conosco, e bisogna ascoltarlo. Io stesso avevo pensato di trovare un uomo adattato, e di farne un messia bene istruito, e ben famigliarizzato con la nostra opera.
- Giuda, figliuolo mio, disse Hannah, tu non sai ciò che proponi. Un profeta è la bestia la più cocciuta dopo il mulo, se dobbiamo credere all'esperienza che ne fecero i nostri padri. Non è difficile d'improvvisarne uno, imbeccato convenevolmente. Ma diviene quasi impossibile di sbarazzarsene quando non se ne ha più di bisogno. Finiscono tutti per lavorare per proprio conto.
- Oh! non aver timore di ciò, risposi io. Se dopo averci servito, il nostro profeta non vuol abdicare volontariamente, prendendo egli stesso l'iniziativa, m'incarico io di farlo sparire. Ma ciò che mi pare più problematico, gli è di trovare un messia a modo, che rappresenti fedelmente la sua parte, e che sia per noi ciò che la favella è pel pensiero. Trovi tu la stoffa di un tal uomo in Gerusalemme?
- Proprio no.
- Ed io neppure. E soggiungo che, quand'anco uomo da tagliarvi un profeta si trovasse nella nostra città, bisognerebbe lasciarlo da parte. Lo si conoscerebbe di primo getto e lo s'indovinerebbe subito. Egli non avrebbe alcun ascendente sopra il popolo. Da ogni parte gli direbbero: Ma io ti ho veduto sacerdote, sarto, mercante, falegname, conciatore di pelli che so io?45] Bisogna che un profeta caschi dalle nuvole, venga di lontano, ch'egli si faccia passare per figlio d'un agnello, o di Dio, parlando con Dio entro una botte, o sopra una montagna. In breve occorre l'incognito che si diverta ad impanicciar dell'impossibile.
- Ne convengo anch'io, disse il sagan, ma sono dieci giorni che ci penso sopra, e non trovo la strada da uscirne. Vuoi tu farne discender uno dalla luna o farlo arrivare dalle Indie, dall'Egitto, o da qualunque sito meglio ti piace? Io non posso che pagarlo.
- Credo di aver trovata la strada che cercate. Ho in vista qualcosa. I profeti ed i messia non mancano sul suolo della Giudea, ove sono una produzione indigena, e credo quasi esclusiva. Se posso decidere colui a cui miro a divenire un'eco, e cessare d'essere una voce, l'affare sarà buono, non costerà nulla, e non andremo molto lungi per comperarne la semente. Vuoi lasciarmi preparare questa faccenda a mio piacere?
- Non domando di meglio, ragazzo mio, che tu mi liberi da questo incubo di profeta che da qualche tempo turba le mie notti. Io non sogno più che di Samuele che accoltella Abimelech, di Ezechiele che pranza poco pulitamente, di Balaam che parla con le asine.... Oh! chi mi sbarazzerà da questa cattiva società?
- Io. Sta bene: parto domani, e confido di riescire.
- Dove vai?
- Non so ancora. Forse mi spingo fino al Cairo, fino a Rodi, fino a Roma, fino nelle Gallie; insomma, non ritornerò senza condurti per le orecchie un profeta.
- Hai bisogno di denari?
- Sì, e no. Sì, se passo il mare.
- Siamo intesi allora, disse Hannah sorridendo. Procura almeno, onde coltivare il favore delle donne, che il tuo messia non sia troppo brutto. Se le donne si mettono della partita, il tuo messia avrà un successo pazzo.
- Magari! in ogni caso, ne terremo in pronto uno di ricambio.
Rientrando nella mia casa, diedi gli ordini per partire all'indomani, al levar del sole. Ma il sole non era ancor levato che già Bar Abbas arriva da me, tutto bardato come per mettersi in viaggio.
- Da bravo! gli dissi, dove vai tu dunque?
- Lo vedi: alla caccia con te.
- Con me! grazie tante. Non mi piacciono i segugi che abbaiano.
- Tacerò.
- Non amo i cani che azzannano il selvaggiume.
- Guarda: non ho più denti. Appena se posso rosicare i pranzi che mi contrastano e che devo prender d'assalto.
- Allora, lasciami in pace: io vado alla pesca.
- Non potevi cader meglio: ti preparerò gli ami.
- Sai pescare la balena all'amo, tu?
- Non ho fatto altro in tutta la mia vita, per Bacco!
- Avresti fatto meglio a pescare dei sorci, ed educare delle rane pel Tempio.
- To'! l'è un'idea questa: al mio ritorno creerò questa industria. Il Signore deve amare la zuppa di rane, sopratutto quando le rane sono dei rospi svestiti.
- Buon viaggio allora. Noi non prendiamo l'istessa via.
- Precisamente l'istessa.
- Io vado a sacrificare dei conigli al tempio di Girizim in Samaria.
- Vado pazzo per l'intingolo di coniglio; ma non voglio bene a Giove. È brutale: ha dei gusti troppo singolari.
- Finalmente, ove vuoi venirne?
- Ho veduto il sagan ieri sera. Mi ha raccontato la conversazione che avete avuto insieme. Sono anch'io dell'affare. Che diamine vuoi tu ch'io mi faccia a Gerusalemme, quando c'è da trar partito in un altro sito del commercio dei profeti?
- Quella bestia non sa dunque custodire un secreto?
- Come! come! Non ti fideresti di me, forse? D'altronde, io ho appoggiato la proposizione quella sera che la fu fatta. Io me n'intendo di codesta mercanzia. Ne ho praticato poi tanti nelle Gallie: credo anzi d'aver un giorno mangiato un pezzo di profetessa arrosto. Ti racconterò la cosa come avvenne, per istrada. Ti annoieresti a morte, solo, in codesta spedizione. Tu non hai l'istinto del bracco.
- Lo vuoi proprio?
- Ho persino promesso una visita ai figli di Giuda e di Gamala.
- Sia dunque: ma ad un patto.
- Fammelo dolce, codesto patto.
- Che quando io discingerò la mia cintura, in qualunque sito si sia, e con qualunque persona io mi sia, senza dir motto, senza obbligarmi ad aprir bocca, mi lascerai solo.
- Ma se la discingi codesta cintura per causa d'indigestione.
- Non voglio repliche. Io conduceva meco un servo, ne conduco due.
- Ti prendo in parola, Giuda. Dà dunque ordine che mi apparecchino un mulo per metterci in viaggio entro mezz'ora.
- Eh?
- Che si ponga inoltre sul cammello una tenda e tutti gli arnesi necessarii per allestire il pranzo, e per dormire. Traverseremo forse il deserto. Sopratutto del buon vino. E delle armi. Le iene, alla notte, non sono come le damigelle dell'angolo della strada che si lasciano accarezzare. Poi, una pelle dolce per coricarmivi, e delle coperte per guarentirmi dal fresco del mattino. Che mi si prepari inoltre un mantello più caldo. Non so quanto tempo resterò in viaggio: il mese di tevet ha dei giorni piovosi, e delle notti agghiacciate.
- Hai finito, bestione?
- Triplo bestione, se vuoi: ma ascolta i consigli d'un uomo che durante trent'anni ha corso il mondo.
- M'hai capito?
- Io spiego i geroglifici delle Piramidi: vedi un po' se posso capir te!
Un'ora dopo uscivamo dalla porta Dorata, passavamo sul ponte del Cedron, lasciavamo alla dritta la strada che conduce a Engadi ed al mar Morto, prendendo quella che mena a Gerico ed al Giordano.
Incominciammo una discesa interminabile di escrescenze rocciose, scaglionata come i gradini di una scala che va a metter capo al deserto. La vista è squallida, il paese pietroso e selvaggio. Vi si incontrano più sovente le pantere e le iene, che l'erba e gli arbusti. Qualche felce, e qualche ginestro squarciano qua e là le grigie roccie. L'orizzonte immenso, il sole festoso, il cielo scintillante di raggi di oro. Nel basso, la desolazione; in alto, lo splendore.
- Vorrei proprio sapere, diceva Bar Abbas, perchè i nostri padri sprezzarono tanto Babilonia e l'Egitto, per ritornarsene in questa lugubre e sterile solitudine. Puoi tu dirmelo, Giuda?
- Probabilmente, perchè in Egitto vi sono troppi Egiziani color zafferano, ed i nostri padri erano annoiati di vederne tanti.
- Io non trovo ch'e' fosse più divertente il vedere un naso adunco che fa la scolta sopra una lunga barba sotto il dominio d'uno sparco caftan, ed un lembo di cuoio bilioso, spaventato da due avide pupille - ciò che si addimanda un Giudeo. I nostri padri ebbero altre ragioni per abbandonare la cuccagna d'Egitto.
- Allora sarà perchè le donne del paese putivano troppo la cipolla.
- Bisognava mangiar dell'aglio e confondere le due essenze.
- O che avrebbero avuto paura dei coccodrilli?
- Il coccodrillo è l'esagerazione della lucertola. Un coccodrillo, lo si vede sempre; non così una lucertola. E nel nostro paese ce ne son tante, che quando dormo in casa mia, il mattino, svegliandomi, me ne trovo piena la barba, ove son venute a deporre i lor piccoli durante la notte.
- Sarebbe forse perchè i nostri padri erano scandolezzati di veder Dio sotto la semplice attillatura di un cane?
- Avrei preferito, io, di avere un cane dio, piuttosto che averlo così vicino, codesto cane, che se volgo gli occhi soltanto, mi acchiappa il pranzo.
- In questo caso t'incarico d'indovinarlo tu stesso, perchè io non comprendo la preferenza.
- Io non ne trovo che una di buona fra tante ragioni....
- Quale?
- Che Zipporah, la moglie rabbiosa di Mosè, si annoiò di contemplare i trentanove secoli che la contemplavano dall'alto delle piramidi....
- Dev'essere diabolicamente vecchia quella figura di trentanove secoli, arrampicata ed accoccolata là in cima, a sbirciare la gente.
- Appunto, ed ecco la donna civetta volle darsi la distrazione di viaggiare.
- E siccome aveva paura delle tigri del deserto, persuase suo marito di prendere per compagni di viaggio i suoi compatriotti.
- Questo non si trova, in ogni caso, nei nostri libri santi. Ma siccome è Mosè stesso che li ha scritti e' non ismaniava di scoprire i secreti di casa sua.
Verso l'ora sesta, arrivammo all'ospizio del Samaritano, in cima ad una brutta e squallida collina. Era la sosta per la notte, a mezza strada fra Gerusalemme e Gerico. Di là a Gerico occorreva una giornata, dappoichè e' non era punto sicuro, neppure pei viaggiatori a cavallo, di continuare la strada dopo il tramonto del sole, a causa delle bestie feroci che scorazzavano il paese. Queste case di riposo, là dove c'è un villaggio, sono una specie di annesso a quella del capo di questo villaggio, il quale ha il dovere di proteggere l'ospite e lo straniero. A Betlemme per esempio, è nell'antica casa di Booz, di David, di Chimham fuori di città, che i viaggiatori trovano il ricovero notturno, al punto ove s'incrociano le vie di Gerico, Erodion, Engadi e Tekoa. In mancanza di villaggi, ad ogni sette od otto miglia romane, la pietà dei buoni uomini, la previdenza delle tribù, o la magnificenza dei principi hanno fatto costruire questi alberghi che non rassomigliano punto a quelli che s'incontrano sulle grandi strade romane.
Un'immensa cinta di solide mura, fiancheggiata da scuderie, o da tettoie fatte con rami d'albero, per le bestie e pegli uomini, allorchè v'è folla, come al tempo delle feste di Gerusalemme; un gran cortile con un truogolo; una fila di arcate aperte dai quattro lati46; talvolta una torre per vegliare sulla sicurezza dei viaggiatori; un uomo che veglia sempre alla porta: ecco i nostri alberghi giudei.
Questo asilo è sacro come una sinagoga. È aperto per ogni sorta di gente, d'ambi i sessi, di tutti i paesi. Non si paga nulla, ma non vi si riceve nulla, all'infuori dell'ombra, del riparo, della sicurezza contro i malandrini. Sotto le arcate, i mercanti s'affrettano a mostrar le loro mercanzie, l'ambra del mar Baltico, lo giojellerie di Alessandria, le spezie dell'Arabia, e le essenze preziose dei giardini di Moab. Qui, dei viaggiatori si lavano le mani; là, degli altri tiran fuori dai loro sacchi gli alimenti belli e preparati, o gli arnesi per prepararli. Da un'altra parte, le persone stanche stendono per terra una pelle di montone, una stuoja, un tappeto, un pugno di foglie o di paglia, ciò che hanno in fine, ed avviluppati nei loro mantelli, o nelle loro coperte, si dispongono al riposo. Altri s'affrettano a caricare sopra i loro asini e i loro cammelli, le loro donne, i figli, le mercanzie e partono. Si va e si viene come si fosse in casa propria.
Trovammo posto in questo asilo abbellito e ristaurato dal re Erode, quantunque affollato ancora a causa di quel resto di popolo che era stato alle feste del Tabernacolo a Gerusalemme, e vi aveva fatto un più lungo soggiorno. Incontrammo pure un gran numero di convalescenti fra queglino che furono colpiti nel giorno del tafferuglio per l'offerta. I pedoni passano quivi la notte. Pranzammo in mezzo al tumulto causato dalla petulanza, l'importanza, e la sfrontataggine di Bar Abbas. Pareva egli un imperatore che viaggiasse incognito.
Finito il pranzo, continuammo a scendere e montare le colline che conducono al Giordano, costeggiammo monti petrosi, e ci riposammo per bere alla fontana Elisha, vicino alla valle limitata dalla via romana che mena a Gerico. Il sole tramontava, ed avevamo sotto gli occhi i sobborghi della città - uno sciame di casuccie bianche in mezzo ai sicomori - e la superba città di palazzi, festosamente adorna di piante balsamiche ed odorose.
Gerico è la città amata da Cleopatra - da Cleopatra che aveva Menfi ed Alessandria; - la città preferita da Erode, che possedeva Gerusalemme, Cesarea, Ptolemaide e ove egli visse ed ove morì. Le torri, le porte, i teatri ricordavano una di quelle belle città d'Italia ove la vita non ha altro scopo che di divertirsi nei circhi, di mendicare il pane presso i padroni, e di andare a saccheggiare il mondo. I giardini d'aranci, di datteri, di melagrani circondavano i bastioni della città; e rose la profumavano. Al di là dei muri, l'anfiteatro; al di dentro, dei portici, delle sinagoghe, un tempio a Zeus, dei palazzi da re. A Gerico non sai più se ti trovi sui Nilo, o nelle isole dell'Arcipelago. Più lontano, c'è quella splendida residenza d'Erode, ch'egli chiamò Erodion (il Versailles di quel Luigi XIV).
A notte fatta, traversando le vie gremite di popolo, discendemmo nella mia casa o meglio in quella di mia madre. Mia sorella maggiore, la vedova, mi ricevette nelle sue braccia.
All'indomani ero alzato col sole. Andai a svegliare Bar Abbas e gli dissi:
- Su, in piedi.
- Di già?
- Che! vorresti farne la tua Capua, di Gerico?
- No, la mia mangiatoja. Io vi stava così bene. Tua sorella prepara così deliziosamente il farsito di coniglio alle olive ed al rosmarino.
- Avrei ancor meglio.
- Cosa dunque?
- Degli intingoli di locuste, delle locuste col sale, delle locuste con olio e aceto, delle locuste col miele.
- Dove andiamo dunque, Dio mio!
- Al deserto: a far visita al Battista.
- L'aveva già pensato. Tu hai il fiuto per stanare i bricconi.
XIII
A pochi kibrat barat (miglia) fuori delle porte di Gerico entrammo nella pianura che è una prolungazione del deserto della Giudea.
Questo deserto che fummo costretti a traversare, principia alle porte di Gerusalemme stessa e di Hebron, si stende al di là ed al disotto di queste città al sud ed all'ovest, e copre i declivi della Giudea, dalla cresta dell'altipiano dell'Ulivo e di Ramah fino alla fonte Elisha, ed alle rive dell'Asfaltide - il mar Morto. Betlemme e Gerico sono rinchiusi in questa regione selvaggia come due sorrisi nella tristezza, e l'Erodion brilla colle sue colonne, i suoi portici, i suoi giardini e coi suoi appartamenti voluttuosi, in cima ad un colle fra le due città, come una stella in mezzo alle nubi. Noi andavamo a Bethabara, al passo del Giordano, o un po' più lungi, a Ænon presso Selim. La pianura che traversavamo, è un mare di sabbia bianca e solforosa che si alzava in polverio sotto i nostri passi e ci avviluppava, affaticando gli occhi colla sua implacabile tinta, ed il respiro per infiltrazione nei nostri petti. Montagne in faccia e montagne ai lati. Le fortunate pioggie dell'autunno avevano rinfrescato l'aria sì pesante di questa valle soffocante. Nessun vestigio di vegetazione, nè un albero nè un'erica, nè un'erba non rallegravano la vista. Degli avvoltoi facevano circolo solennemente sui nostri capi. Lo sciacallo fuggiva spaventato e gemendo.
- Non c'è più dubbio, noi andiamo a vedere quel Johanan il Battista, che i suoi discepoli danno come un essere risuscitato, sclamò Bar Abbas.
- Precisamente.
- E cosa vuoi tu fare di quel bagnaiuolo burbero ed irascibile?
- Proprio nulla. Mi compiaccio a vedere le bestie curiose.
- Guardale, guardale, ma non lasciartene infinocchiare. Le bestie curiose sono sempre pericolose. Il shiloh di cui andiamo a caccia non è mica nella pelle del Battista. Riflettici47 Noi altri delle sêtte militari, Goloniti ed Erodiani, non comprenderemmo codesti manipolatori di bisticci. Per noi ci vuole un Giuda Macabeo, un Giuda di Gamala, un Erode che percuota forte, e non si diverta a raccontare parabole. A voi altri, Sadducei, occorrerebbe un Davide od un Salomone, educato alla scuola di Babilonia, incivilito a Roma ed in Atene, che abbia accomodati in versucoli i rozzi libri di Mosè. I Farisei sognano un soldato, un principe, un giudice più valente di Gedeone, più fortunato di Sansone, reso maneggevole alla scuola di Hillel e di Shammai. Tutto codesto, tutti costoro possono combinarsi, accordarsi. Ma che diavolo vuoi tu che facciamo di un negrognolo in camicia di pel di cammello, che si fa chiamare voce nel deserto, e che viene a parlarci di figlio di Dio, d'agnello divino, del verbo della vita? che ci spinge alla penitenza, al pentimento, al battesimo? Penitenza di che? Perchè codesto battesimo? Siamo forse pagani noi?
Bar Abbas aveva completamente ragione. Nondimeno siccome io non voleva dargli l'importanza di un consigliere, nè dirgli che io non cercava un shiloh, ma la stoffa di un profeta per farne una bandiera del nostro colore, un shiloh che ripetesse la nostra lezione, un messia che venisse a prendere il moto d'ordine della sua parola di Dio nel nostro gabinetto, così allargai la mia cintura. Bar Abbas comprese e si tirò indietro brontolando.
Arrivammo sulle rive del Giordano. Ma siccome il suo largo letto è disceso diversi piedi al disotto del suo antico livello, non fu che quando ne fummo ben vicini, che potemmo scorgerne l'allegra frangia di verzura, di canne, di fichi enormi, di tamarindi, d'acacie, e di roveri che ne adombrano le sponde. Il suolo è seminato di sale. Il Giordano si svolge in una fessura del piano e congiunge come un tratto d'unione il lago di Genesareth al mar Morto, quel bacino di smeraldo, a questo Etna ringhiottato e cangiato in una coppa di zaffiro.... Al punto ove eravamo, a Bathabara, vicino a Gilgal, ai piedi d'una montagna, il piano ombroso era seminato di capanne di canne e giunchi coperte di rami d'alberi; ma esse erano vuote. In quel sito - il guado ove Giosuè, le dodici tribù e i suoi quarantamila combattenti passarono dal paese di Moab nella Cananea - la corrente ha formato una sbarra di pietre e di marna sopra la quale l'acqua mormora e scorre in una specie di bacino. È là che Johanan battezzava. Ma l'autunno essendo avanzato, egli aveva abbandonato il fiume. Ne fui contrariato. Bisognava ora traversare il deserto, costeggiare la punta orientale del mar Morto ed andare a cercarlo nella sua caverna del Cedron sotto Betlemme, e forse fino a Jutta nel suo villaggio natìo.
Mentre io visitava le capanne lasciate vuote dai credenti del Battista, - che Bar Abbas chiamava dei bagnanti, - accorsi da Gerusalemme, da Betlemme, da Gerico, da tutte le parti, Bar Abbas preparava il pranzo in una di esse. Egli non aveva alcuna ragione di serbar rancore; e, ne avesse pur serbato, un grasso e grosso pollo arrosto, dell'uva di Betlemme, delle fette di mele del Libano, del pesce fritto, delle olive salate l'avrebbero calmato. Dei lunghi amplessi ad una piccola otre di vino finirono d'annegargli nello stomaco il cattivo umore.
A mezzo giorno eravamo di nuovo in cammino.
Andavamo a traversare il paese abitato dai figli abbronzati di Esaù, ove gli Esseniani dimoravano nelle grotte, in mezzo d'una contrada selvaggia, rocciosa, abrupta, di pozzi disseccati e di caverne di bestie feroci. Seguivamo la traccia battuta dai cammelli e dagli asini, lungo una specie di terrazza sovrapposta a un'altra terrazza, come questa sopra una terza, formando tutte insieme i gradini di un anfiteatro di giganti, intorno alla vasca cerulea dell'Asfaltide che si profonda ad alcune migliaja di piedi sotto la spiaggia di Joppa. Queste terrazze sono dei letti lasciati vedovi da quel mare che si abbassa di secolo in secolo, come se un demone lo bevesse nel fondo dell'abisso48. Sulle rive, là ove il Giordano si getta nel mare, una moltitudine di coni dai fianchi rotondi e lisci come i denti della corona di Davide, sbucciano dal suolo all'istesso livello, a guisa di piramidi di cinquanta piedi d'altezza. Che spiriti rinchiudono esse, quelle tombe? Là le montagne d'Abraham, le creste di Gilead, più lungi le città di Loth bruciate. Non una nuvola nel cielo, non un soffio nell'aria, non una ruga sull'acqua, non una voce d'uccello o il ronzìo d'un insetto: la vita era condensata come il ghiaccio sulla cima del Carmelo. La luce acciecava. Una tigre, da lontano, adagiata sul ventre, ci contemplava immobile come se la fosse stata di marmo giallo d'Egitto.
Ben presto lasciammo il piano, che forma come un orlo di verdura a quella splendida coppa, e voltando le spalle al mare di Loth, incominciammo a montare quella serie di contrafforti che si sovrappongono gli uni agli altri fino a Gerusalemme. La volpe, l'avvoltojo, la jena, il leopardo popolavano il paese; ma l'uomo che vi si climatizza e vive, se non è una creatura pia, vi diviene più selvaggio di quelle bestie selvaggie. I pozzi sono secchi, gli alberi bassi e rari, i precipizii ricolmi di pietre e senz'acqua; delle caverne tristi, riparo oggidì di leoni, altravolta di re pazzi, fuggiaschi. Seguivamo ora il letto d'un torrente, ora la costa di un colle, ascendendo sempre e poi sempre.
Il paesaggio cangiava ad ogni istante ed era sempre l'istesso. In un solo sito trovammo una donna quasi ignuda, abbronzita come un vecchio sicomoro, che abbeverava delle magre capre vicino ad un pozzo. Oh! non era Rebekah che diede da bere ad Eleazar al pozzo di Haron, e fu scelta per sposa d'Isaac; non era Rachele che Giacobbe abbracciava presso quell'istesso pozzo, dopo aver dissetata la sua greggia; nè Zipporah e le sue sei sorelle, cui Mosè aiutò ad attinger l'acqua dal pozzo di Madian.
- Ecco lì la serva d'un Esseniano, dissi io, troppo rigoroso per permettersi una moglie, troppo appassionato per far a meno di una femmina.
- Ne dubito, replicò Bar Abbas; ella mi par piuttosto la sorella primogenita delle sue capre, solamente la scabbia le ha fatto perder il pelo.
La notte scintillava già dei suoi milioni di stelle, quando arrivammo alla lugubre frana che si sprofonda nella valle del Cedron, fra Gerusalemme e il mar Morto, a tre ore dai colli di Betlemme. Questa trincea selvaggia, aperta nella roccia, dalle bianche labbra, dal fondo rossastro, è bucata da caverne, come le colline di Betlemme e di Herodion, ove le bestie feroci e gli uomini cercano un riparo dai dardi di sole. Al tempo di Erode, un pugno di Farisei e di Esseniani vi accorreva per isfuggire alla vista della città, dei palazzi, dei teatri, delle terme, dei giardini che sbucciavano sotto gli ordini di quel re, come il mondo sotto il fiat di Dio. Dalle alture circonvicine, essi potevano scorgere le cupole del Tempio e il suo frontone listato d'oro. Ai piedi d'una roccia, zampillava un getto d'acqua dolce e pura, la benedizione di queste contrade ove l'acqua è uno sguardo fluido di Dio.
Il Battista aveva qui la sua residenza, quando lasciava le sponde del Giordano. Un certo numero de' suoi discepoli abitavano con lui nelle grotte della montagna, vestendosi di foglie o di pelli di montone, non cibandosi che di erbe e di radici del deserto, non bevendo nè vino nè alcun'altra bevanda fermentata, non tagliandosi nè capelli nè barba, non toccando a nulla di morto, fosse il cadavere della loro madre. Il loro costume era lo stesso ch'Elijah portava dinanzi il re Achab e la sua regina sidoniana. Questa maniera di vivere, la stessa che diversi profeti avevano adottata onde rendersi altrettanto aggradevoli a Dio che dispettosi agli uomini, era seguita da Johanan e dagli Esseniani e Sabei, che aspettavano il loro trentesimo anno per darsi all'istruzione del popolo.
Mentre Bar Abbas faceva rizzare la nostra tenda sotto quel burrone, nel letto stesso del Cedron, io ascendeva il sentiero e andavo a cercare Johanan. Banù il figlio di Jeù, che più tardi si diede ai Farisei, m'informò che Giovanni era stato chiamato da Antipas, alla casa Dorata, in Tiberiade49, che là aveva avuto una viva discussione a proposito di sua moglie Erodiade, e che questa l'aveva fatto rinchiudere nella fortezza di Makaur, ove Jeù s'era recato da alcuni giorni, avendo udito che Giovanni versava in qualche pericolo.
- Giuda, provveditor mio, ascoltami, disse Bar Abbas. Lasciamo su codesti profeti, i quali non sono nemmeno buoni a farsi trovare a posto - vanno alla corte in fede mia! - ed andiamo a vedere i figli del Golonita. Il nostro affare è colà.
- Se sei stanco, ritorna a Gerusalemme.
- Non è per ritornare a Gerusalemme che sono venuto nel deserto. Ma spero, almeno, che non staremo qui ad aspettare quel lavandaio di pelli conce. Se egli è a corte, andiamo a corte. Là sono come in casa mia. Antipas mi pizzica l'orecchio, ed Erodiade mi chiama ruzzone. Siamo della famiglia. Essi sanno che io lavoro per loro, que' rampolli tisicuzzi di un grande avo. Gli Erodiani mi stimano. - Ah tu mi guardi! ebbene, sì, mi stimano. Oh che! tu stimi bene Hannah, tu. Solamente se l'avessi saputo là su, avrei domandato a Pilato di prestarmi una toga. Sarei stato bello eh! in una toga con delle frangie verdi e rosse nel basso.
- Tu conosci dunque abbastanza Pilato, per ciò?
- Eh! sì, sì. Abbiamo fatto un baratto insieme. Un giorno gli ho venduto una colomba. Deve ricordarsene quel bellimbusto.
- Hum! sta bene. Domani partiremo per Makaur.
XIV
Due giorni dopo, mettendo piede nella fortezza di Makaur dissi a Bar Abbas:
- Siamo qui in mezzo ai tuoi amici. Tu hai a dir loro due cose: che si tengano pronti alla prima chiamata; che vengano alle prossime feste del paschah in gran numero, lasciando al paese i vecchi, le donne ed i ragazzi: tutti armati. Gli avvenimenti possono farci prendere delle risoluzioni impreviste.
- Ma per che e per chi dovranno esser pronti ed armati? E' me lo domanderanno, per fermo.
- E tu risponderai, che si dispone della pelle del leone quando lo si è ucciso. In ogni caso non ci sono che i figli di Erode che abbiano diritto all'eredità del loro padre. Il premio della corsa è sempre per colui che arriva primo. Che gli Erodiani si affrettino.
- Che Antipas Erode non dorma, replicò Bar Abbas.
Ora Antipas dormiva, o presso a poco, ed e' non ci conveniva troppo di risvegliarlo.
Antipas era figlio di Erode il grande e di Cleopatra di Gerusalemme, una delle nove mogli di quel re. Alla morte di suo padre, egli aveva avuto in parte la tetrarchia di Galilea, cui egli vagheggiava, fra due sbadigli, di allargare fino ai limiti del regno di suo padre, e cercava, a furia di attenzioni, di adulazioni e di regali, di piacere ai romani, onde ottenerne le provincie date a suo fratello o annesse all'Impero. Egli innalzava dunque delle città e dei monumenti, cui conferiva il nome dei signori di Roma, ed era sempre sulla strada d'Italia.
Il re Erode, tribolato continuamente al suo confine di mezzogiorno dal re Aretas e dai suoi Arabi, sovente battuto mai tranquillo, risolse un giorno, secondo la sua politica, di soffocare l'ambizione fra due baci. Egli maritò dunque Antipas, il suo erede prediletto, a Sara la figlia di Aretas, e si assicurò così la pace, ed un aiuto potente per effettuare un giorno il suo gran progetto di estirpare i Romani dall'Asia e sottomettere questa parte del mondo al suo potere, più grande di quello di Salomone, più grande di quello d'Alessandro, più grande di quello di Augusto, più grande infine di quello di Ciro. Fino a che egli visse, Antipas e Sara furono felici. Sara era molto bella, molto prudente, di costumi puri, piena di dignità, di risoluzione e di coraggio: l'antitesi di suo marito, molle, dissoluto, incerto, ed infingardo. Dopo la morte di Erode, Antipas scosse il giogo morale di questa nobile principessa Moabita.
In uno dei suoi viaggi a Roma egli vide Erodiade, la figlia di Aristobulus e di Mariamne la Maccabea, maritata a suo fratello Erode-Filippo, figlio di quell'altra Mariamne, figlia di Simon, figlio di Boethus, il gran sacerdote della discendenza di Onias della razza di Aaron che era restato in Egitto. Fra le due Mariamne non aveva giammai esistito ombra di accordo. Erano due orgogli, rampolli di due razze, di cui l'una, la Maccabea, aveva esclusa l'altra, l'Aaronniana, dalla successione del gran sacerdozio. La figlia del gran sacerdote cospirava onde assicurare il potere d'Erode, al suo figlio Erode-Filippo, a scapito dei figli della nipote d'Ircanus, il discendente dei Maccabei. Erode, offeso da quell'intrigo di palazzo, se ne sovvenne vergando il suo testamento, ed Erode-Filippo fu diseredato. Non pertanto egli aveva prima tentato di ravvicinare quelle due ambizioni, dando in matrimonio al figlio di Mariamne la betusiana Erodiade, figlia di Aristobulus, figlio di Mariamne la Maccabea50. Erodiade era giovine, ardente, bella ed ambiziosa; Erode-Filippo, più vecchio di lei, di carattere indolente, deciso a non forzare il destino, disperando di vincere l'antipatia del padre, rassegnato ad una sfortuna ch'ei non poteva scongiurare.
Antipas vide sua nipote, moglie di suo fratello, e si lasciò abbagliare dalla sua cupa e fatale bellezza. Essi risolsero di maritarsi, ad onta dei costumi, delle leggi, e delle convenienze. Di già Erode aveva insegnato alla sua famiglia che le leggi del matrimonio per i principi non sono le istesse che pel popolo, avendo sposato, per amore o per politica, le sue nipoti, le sue cugine, delle ebree, delle straniere. Messo in un posto appartato, in mezzo a popoli che la legge di Mosè stimmatizzava come impuri, Erode e la sua famiglia non avevano molto a scegliere; si maritarono dunque in famiglia. In attesa del matrimonio, Antipas prendeva51 le arre dell'amore. Egli invitò Erodiade nel suo palazzo stesso di Tiberiade, ed ivi tramavano come l'uno si sbarazzerebbe della figlia di Aretas, l'altro del figlio d'Erode.
Sara, che aveva già avuto conoscenza di questo amore, e che si sentiva oltraggiata nella stessa sua casa, risolse di abbandonare il tetto di suo marito, onde evitare almeno il veleno, cui Erodiade le avrebbe certamente versato per essere francata dell'ostacolo. Sara finse, nella primavera, di voler andare a godere l'aria della montagna nella residenza di Makaur.
Makaur è una piccola città forte, sopra una collina in mezzo alle aride lande dell'Arabia, un altipiano roccioso, sul quale Erode il Grande aveva fabbricato un immenso edifizio, metà palazzo, metà castello, a fin di tenere in rispetto le tribù arabe. Perocchè Makaur è alle frontiere del paese di Moab, ove i dominii di Aretas cominciano, e la Perea, dominio di Erode, finisce. La città era posta in alto come una vedetta del deserto, merlata, solitaria, avendo dell'acqua, delle solide mura, e qualche ciuffo di verdura.
L'Arabo veniva a frangersi contro questo ostacolo.
Era dunque nel bel palazzo che si alza nel mezzo della fortezza che Sara cercò un rifugio. Ma ella aveva di già avvisato suo padre dell'oltraggio che le si faceva, e del suo progetto di fuga. Uno stuolo di Arabi, posti in agguato al sito opportuno rapirono la figlia di Aretas agli ufficiali e ai soldati di Antipas, i quali l'accompagnavano, e la condussero a suo padre, a Petra, ove era il nido di quell'aquila.
L'aquila poi discese nel piano e principiò la guerra contro Antipas. Ma che gl'importava la guerra a costui? Egli era libero adesso di sposare Erodiade la quale era la sua fatalità. Ella ripudiò suo marito. Questo fatto enorme, sconosciuto nella nostra storia, contrario alle nostre leggi, che pure permettevano al marito di ripudiare la moglie, allarmava i nostri costumi. Il marito vendette sua moglie.
La guerra divenendo ardua sulla frontiera, la coppia amorosa lasciò la Casa d'oro di Tiberiade e si recò a Makaur.
Traversando la Galilea e la Perea, Antipas udì parlare del Battista e dell'influenza che costui esercitava sul popolo. Un profeta è uno degli elementi della vita ebrea52. Noi ne usiamo in tutte le circostanze; mischiandolo a tutti gli avvenimenti, ingannandolo e lasciandoci ingannare da lui coll'istessa indifferenza, ma ascoltandolo con interesse, con passione, come un attore della tragedia sociale della nazione.
Erodiade, dimenticando la parte che Natan in una situazione analoga aveva sostenuta con Davide, ed Elijah con Achab, si lusingò di sedurre il nazir del Giordano e di servirsene per calmare l'avversione e pacificare lo scandolo cagionato dal suo matrimonio. Johanan fu invitato, o meglio obbligato, a recarsi a Tiberiade. Johanan, a cui piaceva imitar Elijah col quale i suoi discepoli lo identificavano fino al punto di dirlo Elijah risuscitato, afferrò l'occasione d'imitare quel profeta, ed invece di accarezzare la passione dei due padroni, fulminò contro di essa. Erodiade avrebbe forse soffocato immediatamente quella voce impertinente. Antipas si decise ad aspettare a fine di raddolcire quel zelante predicatore, e di non sollevare dietro a sè i bigotti, avendo già dinanzi gli Arabi.
In questo stato di cose arrivai a Makaur.
Io vi era conosciuto. Erodiade sapeva che io aveva come lei il sangue dei Maccabei nelle mie vene. Antipas sapeva che io cospirava per rovesciare il dominio romano nel nostro paese. Ora chi era il possessore legittimo di queste contrade una volta liberate se non il successore del grande Erode? Erodiade, di cui io aveva delusi altri intendimenti, non nutriva in favor mio l'istessa confidenza. Più astuta, più perspicace di suo marito, ella prevedeva che uomini come Hannah e come me, non si esponevano a pericoli infiniti, supremi, per porre la corona di un sì gran principe sopra una testa così poco degna di portarla. Ciò nondimeno, fui accolto a meraviglia dal tetrarca e da sua moglie. Antipas, in oltre, aveva in quel momento una cagione di rancore di più contro Pilato. Questi aveva fatto trucidare, esporre nel circo e crocifiggere dei soggetti della tetrarchia, sui quali non poteva esercitare alcun diritto. Questo insulto esigeva una vendetta, od una riparazione.
Io mi astenni dal rivelare tutti i miei piani ad Erodiade o ad Antipas. Dissi loro giusto quel tanto che occorreva a deciderli a darmi l'aiuto che loro chiedevo. Toccai dunque la questione che mi consegnassero Johanan, se questo selvaggio rabbì voleva mettersi al nostro servizio. Erodiade protestò.
- Questo insultatore non è l'uomo della situazione, diss'ella. Egli non comprenderà punto ciò che gli si domanda. Codesta gente del deserto hanno la patria delle belve: lo spazio. Codesto Johanan potrebbe forse provocare qualche voce fra la plebe e vomitare maledizioni; egli non solleverà mai un braccio per combattere. Ora a noi occorrono degli uomini d'arme, degli uomini che sentano la dignità della patria, e non mica degli schiamazzatori.
- Lo so, risposi, e per ciò io non accetto il shiloh tale qual è, ma vorrei provare se posso addomesticarlo ad essere ciò che voglio io.
- Non mi oppongo al tuo tentativo, replicò Erodiade. Ma se tu riesci, devi tanto più diffidare d'un istrumento che cangia di tempra per un interesse qualunque, e che può frangersi al primo urto.
Correva l'anniversario della nascita di Antipas. Ci era dunque festa al palazzo, e molti capi militari, governatori di città, ufficiali della tetrarchia erano stati invitati. Il momento dell'abboccamento con il Battista non mi pareva opportuno. Imperciocchè, siccome gli era lasciata una grandissima libertà, egli aveva veduta una grande parte dei suoi discepoli e poteva o non sentire il peso della solitudine, o conoscere gli affari del mondo più che non occorreva. In ogni caso, avrei voluto parlargli da solo a solo, senza apparato, senza quella messa in iscena che poteva stuzzicarlo a rappresentare una parte mentre io aveva duopo di trovare l'uomo. Erodiade che diffidava di me, che aveva tante e così pronte ed ardenti passioni, volle che questo interrogatorio avesse luogo subito, alla sua presenza ed a quella di suo marito. Ella si condusse nel gabinetto ove soleva trattare gli affari e ordinò che il Battista vi fosse introdotto.
Erodiade era seduta dinanzi una tavola di malachite coperta di carte; giacchè era dessa che amministrava le provincie, riceveva i rapporti, e dava gli ordini: mentre suo marito godeva delle voluttà della vita, inventate a Babilonia, esagerate in Roma, abbellite ad Atene. Io mi tenevo in piedi dietro la sua sedia. Antipas, coricato sopra un monte di cuscini, giuocava con dei globuli d'ambra, che palleggiava, sbadigliando, nelle sue mani, e stuzzicava un leopardo addomesticato, accovacciato ai suoi piedi.
Johanan, entrando, girò il suo sguardo sopra la scena e le persone, quello sguardo sospettoso ma perspicace degli abitanti del deserto, i quali fiutano a volo il suolo, l'aria, il cielo, l'acqua, e sospettano ovunque un pericolo od un nemico. Egli poteva avere da trentaquattro a trentacinque anni. Una foresta di capelli e di peli gli copriva il viso, non lasciando scorgere che una piccola lista del fronte, le poma delle guancie bronzate, e due occhi profondi e scintillanti. Un vecchio straccio di pel di cammello, serrato alla vita da una coreggia, gli scendeva53 fino alle ginocchia, lasciando nudo il collo, il petto, i bracci, le gambe ed i piedi che si sarebbero detti di granito rosso. Le sue labbra livide fremevano di una commozione, che non potendo essere la paura doveva essere la collera o l'ansietà.
- Cosa si vuole da me? disse egli entrando, con voce ruvida come un ruggito, e alta per fierezza.
Erodiade impallidì e tacque. Io non mi credeva autorizzato a prendere la parola, allorchè quei padroni potevano e sembravano volerne far uso essi stessi. Antipas rispose con voce bassa ed indolente:
- I tuoi amici di Gerusalemme t'inviano un messaggio ed un messaggiero. Sta ad udire.
- Ah! fece Johanan, alzando il capo ed inchiodando sopra di me il suo sguardo selvaggio. Ah! codesto giovine viene da Gerusalemme? So dunque quello che e' vuol dirmi. Jeù54 me l'ha55 già annunziato. Egli può ritornare là donde è partito. Non ho nulla a rispondere.
Erodiade mi guardò con un'ombra di sorriso sulle labbra, quasi che avesse voluto dirmi: «cosa ne dici di questo essere eteroclito?»56.
Il tuono rozzo e deciso del Battista abbreviava ma non tagliava corto al colloquio. Domandai dunque ad Erodiade se mi permetteva di continuare la conversazione. Ella mi fece cenno di sì, ed io dissi all'irascibile rabbì:
- Rabbì, il duro messaggio che tu m'imponi di riportare ai nostri amici di Gerusalemme, mi prova che tu sei stato male informato, e che non sai a che cosa rispondi.
- I tuoi amici, prima di tutto, non possono essere i miei. Io arrivo dal deserto; tu sembri giungere da Roma o da Babilonia, effeminato nei tuoi modi, effeminato nella tua lingua, effeminato nelle tue vesti. Ma non temere l'equivoco. Io so benissimo a che mi risponda. Tu vieni a domandare la mia complicità per ristaurare sul trono di Davide gli eredi del capo Arabo; ed io te la rifiuto.
Se fossimo stati soli, avrei disingannato Johanan: in presenza di Erodiade e di Antipas, dovetti mascherare il mio pensiero, e risposi:
- Ma quando ciò fosse, o rabbì, domando io: il popolo d'Israele ha egli avuto dopo Salomone, un re più grande di questo figlio dell'Arabo Antipater, di Erode?
- Allora tu non lo conosci punto, replicò Johanan. Arabo di nascita, Romano di ambizione, Greco nell'anima e nei gusti, Ebreo di necessità, Erode è stato la più grande calamità che abbia afflitto il popol di Dio. Ai grandi sacerdoti che si succedevano ereditariamente, egli sostituì i grandi sacerdoti che si pescano ove si puote, come un ufficiale delle armi o un collettore delle tasse. Ai grandi sacerdoti che stendevano il loro potere sopra Israello, egli ha sostituito dei parassiti, che limitano la loro autorità alla soglia del Tempio. Il gran sacerdote, che torreggiava sul capo del re, non è più che un ufficiale della sua corte. Egli cangiò di gran sacerdoti, uccidendoli, a seconda delle fasi della sua politica. Egli abbattè, con un intrigo del suo serraglio, Ananelus cui aveva cercato in Babilonia; uccise Aristobulus della razza dei Maccabei; inviò a cavar fuori di Egitto Simone. Cominciò ad edificare il Tempio con una mano; con tutte e due cooperò ad alzare il Tempio dei Samaritani a Gerizim, fabbricò quello d'Apollo a Rodi. Sacrificò a Jehovah, e protesse Astharot a Sidon, Moloch per i Sirii, Iside pegli Egiziani, Dagon pei Filistei, Manah pegli Ismaeliti, Artemis per i Greci, e Giove pei Romani. Servitore di Dio, campione degli Dei, il suo vero Dio fu Cesare, pel quale alzò un tempio alla sorgente del Giordano. Eravamo un popolo grave, con leggi severe, separato per avversione d'animo dagli stranieri, che ci circondavano di costumi stranieri, che ci serravano sulle nostre frontiere onde guizzare in mezzo a noi e preparare la strada ai dominatori pagani...
- Ma, rabbì, tocca a noi forse, interruppi io, giudicare un principe, che è stato servito da tutto un popolo, e che ne fu adorato per tanti anni, e che tutti i re d'Asia e d'Europa hanno applaudito?
- Se non istà a te il giudicarlo, giovine Babilonese, replicò il Battista con tuono altero, sta a me. Ora, Erode strappò la corona ai nostri principi maccabei; uccise settanta membri del sanhedrin che l'avevano accusato di omicidio innanzi ad Ircanus; mietè le famiglie principesche e sacerdotali della Giudea; coprì tutti i suoi Stati di palazzi, teatri, terme, ginnasii, circhi, di collegi, di residenze voluttuose, e di giardini. Fabbricò delle città alla greca ed alla romana, con architettura pagana, e stabilimenti pagani. Introdusse fra noi i giuochi olimpici, e le feste oscene. Alzò fortezze da per tutto, perfino alla porta del Tempio, dominando così la città: Sion divenne un quartiere di Roma. Egli fabbricò una capitale pei Samaritani, che erano stati, come empii, maledetti dai nostri padri: sacrificò ai dii pagani. Le nostre leggi ci proibiscono di avvicinarci agli stranieri; Erode sposò le loro donne. Egli aveva già la sua Araba Doride, quando sposò Mariamne la Maccabea, di cui aveva esterminata la famiglia; poi l'Egiziana Mariamne figlia del gran sacerdote Simon; poi la Samaritana Malthacè di Sebaste. Sposò la figlia di suo fratello; poi quella di sua sorella; poi Cleopatra di Gerusalemme, Fedra di Rodi, Elpis d'Antiochia57. E chi potè contare le sue favorite, la più svergognata delle quali fu Cleopatra, quella regina d'Egitto ancora calda degli abbracci d'Antonio, il quale l'aveva fatto re? Assiro nei suoi amori, Egiziano nello sposare le sue parenti, fu Parto, uccidendo mogli, parenti ed amici. Cospirò per la morte di Cleopatra; uccise Mariamne la Maccabea ed i due suoi figli, cui aveva fatto educare alla corte di Augusto; uccise suo cognato Aristobulus; uccise la moglie del suo gran sacerdote Ircanus; uccise suo zio Giuseppe ed il marito di sua sorella, Cortobanus; uccise suo figlio primogenito Antipater; uccise la sua ava Alessandra, la quale, per piacergli, aveva torturata la figlia Mariamne strappandole riccio per riccio tutti i suoi capelli d'oro; uccise i suoi amici ed i suoi complici, Doseteo, Gadias, Lisimaco. I suoi Stati furono arrossati dal sangue dei suoi omicidii. Ed egli aveva accumulato nell'anfiteatro di Gerico «gli uomini più eminenti della nazione giudea» per farli uccidere e frecciate, avanti la sua morte, dopo aver tentato di suicidarsi58; ma i suoi ordini non furono eseguiti. Ora, son gli eredi di tal mostro, mostruosi come lui, che si vuol far sedere sul trono d'Israello, e si domanda la mia cooperazione?
- Rabbì, gli diss'io, non t'ho interrotto perchè ero curioso di sapere come si apprende la storia nel deserto. Ebbene, rabbì, quella che tu hai tratteggiata può essere la storia saporitamente leccata dai becchi e dalle iene, dai cammelli e dalle asine, ma non è certamente quella di questo gran principe. Se un uomo, che si crede ispirato da Dio, potesse imparare qualche cosa, ti direi ben io cosa fu Erode, e ti abbaglierei dello splendere di questa grande figura del nostro paese. Ma un apprendista profeta non sa che farsene della verità istorica.
- Di' pure, urlò Giovanni: sono curioso59 alla mia volta, d'imparare come si traveste la storia davanti ai principi.
- Ebbene, continuai, sappi dunque che Erode fu l'Augusto della Giudea. Egli ci portò le arti, le scienze, la tolleranza, la fraternità dei popoli, il rispetto alle altrui credenze. Egli ci apprese a sprezzare le minaccie dei Farisei e degli Esseniani; abbattè quella potenza del sacerdote, che turbava lo Stato ad ogni istante, e demolì i privilegi del Tempio. Erode ci inoculò uno spirito virile, guerriero industrioso, attivo; ci rivelò i poeti ed i filosofi della Grecia i quali valgono meglio delle grida da energumeni dei nostri profeti, pieni di non sensi che passano per bellezze. Fortificò le nostre città, e le portò all'altezza delle città degli altri popoli pei loro pubblici stabilimenti. Innalzò il popolo a spese dei preti e dei principi; tentò fondere quell'ammasso di gente d'ogni fatta che occupa il nostro suolo, onde farne una sola nazione, un solo popolo, e le fuse nella sua famiglia sposando, per amore o per politica, delle donne di tutti i partiti, di tutte le razze. Lo splendore del tempo di Salomone era una notte in confronto di quello che Erode sparse sulla Giudea. Egli rovesciò i partiti dei Maccabei, dei Betusiani, del Tempio, della Sinagoga, del Sanhedrin, e costruì la forza una, la forza per tutti, quella del re: a Sebaste e a Seforis egli era altrettanto potente che a Gerico ed a Gerusalemme. Cesare lo trattava da fratello. Da Damasco ad Alessandria, il suo braccio era temuto, il suo consiglio ascoltato. Ebbe una corte il cui splendore offuscava quella di Tiberio; un esercito di cui si paventava l'urto. Lo si invoca ancora come un Dio. Se gli spiriti limitati, ed i bigotti, e le mummie dei nostri antichi usi, ed i zelanti, ed i più stupidi tra i Farisei non lo compresero e gli fecero la guerra, è egli colpa di quel gran principe che volle ricondurre il suo popolo alla sua epoca, e cancellare questo anacronismo dall'Asia e dall'Europa? Erode era la conciliazione; si volle che fosse il ristoratore dei vecchi riti e delle viete ridicolaggini del popolo d'Israele. Egli si vide contrariato nel suo disegno di fare della Siria una nazione cogli splendori e la civiltà greca, e s'irritò. Gli s'introdusse la cospirazione contro la sua opera nella sua stessa famiglia: e fu obbligato di frangerla.
- E dove ha condotto tanto genio, tanta eloquenza, tanta forza, tanta cortesia, tanto valore e buon gusto? interruppe Johanan: ov'è il regno fondato da codesto principe? Due frammenti ne sono stati lasciati ai suoi figli, affine di ricordarci sempre di maledirlo e di disprezzarlo: il resto è di Roma. Erode abbassò il principe, il sacerdote, il nobile: ov'è il popolo ch'egli creò? Gli mancò qualche cosa al tuo gran re, o giovane Assiro: il soffio che vien da Dio, la fede; il soffio che vien dal popolo, il sentimento di quella libertà che fece sì grandi Roma e la Grecia. Ma se questo gran re era piccolo, cosa sono i suoi figli, i quali contaminano il nostro suolo con tutte le infamie del padre senza avere alcuna delle sue virtù e delle sue grandezze? La casa di Erode è una scuola d'incesti e d'adulterii. Si può dire al popolo: Rispetta il tuo re, difendi il tuo re, quando codesto re sarebbe questo Antipas Erode, e la regina questa Erodiade, cui io ho supplicati colle lagrime agli occhi di tirarsi dal loro delitto, di lavarsi dell'impudicizia?
- Basta così, Giannuzzo, esclamò mollemente Antipas continuando a dare dei buffetti sul grugno del leopardo: tu vaneggi, e biascichi sempre l'istesse cose. Mi piacciono molto i profeti; dopo aver ascoltato tutta una mattina dei buffoni, dei nani, dei parassiti e dei commedianti, dopo essermi cibato di un pranzo prelibato, regalarmi di un'ora di profeta può divertirmi ancora, per diversione, e per prepararmi dolcemente a quel riposo pomeridiano così bene inventato dagli Spagnuoli. Ma se codesto profeta diviene monotono, e rivomita sempre e poi sempre le stesse impertinenze, con meno spirito che i buffoni, allora ciò mi fa sbadigliare. Tu lo vedi, Giannino, io sbadiglio, e ciò mi farà male alle mascelle pel pranzo. L'è una cosa imperdonabile. Masticherò male, e digerirò peggio. Ora io ti perdono di chiamarmi adultero ed impudico; ma di essermi causa d'un'indigestione! alto là, ser colui!
- Non sono io che venni, sei tu che m'hai chiamato.
- Io? no, veramente. Ti ho lasciato venire. Questo giovane, che non dubita di nulla, credeva che i profeti potessero talvolta avere del buon senso. Io era curioso di vedere se ciò fosse vero. Che vuoi? Si vedono così poche cose bizzarre, nuove o miracolose in questo mondo! Come ritardare d'altronde quell'ora del pranzo che arriva sempre quando non si ha fame. Ah! Giovanni, che bella cosa l'aver fame! Io passerei volentieri un paio di giorni con te nel deserto per darmi questa voluttà, se tu avessi però un buon cuoco. Ebbene, t'ho ascoltato. Hai parlato male di mio padre, assolutamente come s'egli ti avesse beneficato fin ch'era vivo e nominato suo erede dopo morto. Tu hai creduto di farmi dispiacere. Ti sei ingannato. È la sola cosa nuova che io mi abbia udito a proposito del grande Erode, dacchè sono tetrarca. Tu sai che non si crede mica agli dii che si fabbricano nella propria bottega. La mia povera Erodiade ne è tutta verde. Capperi! l'hai chiamata impudica alla bella prima60! Ella ha udito ciò sì di sovente che ne avrebbe sbadigliato: ma la inghiotte i suoi sbadigli, il che le causa quel pallore che scorgi in lei. Ora, Giannuzzo, ciò che contraria di più un principe è il noioso. Si può egli uccidere un uomo perchè vi fa sbadigliare? Il noioso gli prova che egli non può far tutto. È male Giovanni. È male agire così. Per uno che vuol divenire messia, tu sai poco quel che si deve al rappresentante di Dio sulla terra.
- Posso andarmene allora? sclamò Giovanni bruscamente.
- Un'ultima parola, gli dissi io. Rabbì, tu vedi il levar del sole al nord. Tu guardi la famiglia d'Erode invece di guardar Roma. Non è ciò che occorre nella Casa Dorata, o nel cuore d'una nobile donna, che interessa i destini del nostro paese: gli è ciò che avviene nella corte di Cesare e nel cuore di Pilato. Nè tu, nè alcun altro ha il diritto di contare i baci d'una donna e di scandagliare l'immensità di quell'infinito che si chiama l'amore. Ma noi tutti abbiamo il dovere di protestare contro il dominio straniero, e di infamarne l'obbrobrio e le miserie.
- Io non sono nè profeta, nè messia, rispose Giovanni, nè uomo di guerra, nè uomo di corte. Roma dunque non mi risguarda punto. Quando un popolo soffre simili oltraggi, ne è degno, o li espia. Io sono un uomo giusto, che predica contro il peccato, che spinge alla penitenza, e annunzia il castigo. Ora il peccato è qui: il peccato è questa donna, è quest'uomo, sì alto locati che il popolo li vede, e potrebbe imitarli. Io devo prevenire questo pericolo; ecco perchè io dico: Erode, cessa lo scandolo; rinvia la moglie di tuo fratello; spegni i fuochi della tua lubricità. Erodiade è il tuo delitto; ella sarà la fatalità della discendenza di Erode. Ecco ciò che io sono, ecco ciò che voglio regolare.
- Ma no, Giovanni, no, osservò Antipas con impazienza, non è così che tu devi dir ciò. Occorre che io ti faccia dare qualche lezione dal mio tragico Ajace che ho condotto meco al mio ultimo viaggio di Roma. Vedrai come egli recita codeste cose nell'Oreste di Sofocle. Nel deserto si apprende male a maledire; si squittisce come volpi. Poi, caro te, non venirmi tanto vicino. Puzzi troppo la cipolla. Io non sapeva che nella mia casa si nudrissero così male i profeti. Gli è per questo che tu fai della politica così cattiva. L'ho sempre detto io: la buona politica si prepara nello stomaco, e si formula nella camera da letto. Ma sta tranquillo, Giovanni, m'incarico io d'oggi innanzi del tuo cibo. Se non fossi vestito così sommariamente ti inviterei a pranzo stassera alla mia tavola, in mezzo alla mia corte ed ai capi del mio Stato. Ma i miei buffoni ti tormenterebbero troppo e le donne troverebbero troppo naturali i tuoi vestiti. Non fa nulla, t'invierò, sopra un bel bacino, ogni sorta di buone cose che restano al mio desco, e quando ti avrai mangiato la tua pappa, sono sicuro che ai frutti ed alle bellaria, verrai a bere alla mia salute.
Erodiade non aveva detta una parola durante tutto questo colloquio. Ella aveva affettato di sfogliettare dei rapporti e delle epistole. All'ultima frase di Antipas, ella alzò gli occhi, ed un lampo passò sopra la sua cupa figura, rendendola potentemente raggiante. Un'idea terribile aveva, forse, traversata quell'anima.
- Tetrarca della Giudea e della Perea, riprese Johanan avvicinandosi fino ad afferrar Antipas per il braccio, io ti fo, nel nome di Dio, un'ultima intimazione: licenzia quella donna. Pentiti, ripudia il peccato, cancella il delitto e lo scandalo. Non stancar più la misericordia di Dio: licenzia quella donna, purificati....
- Già, Gianni, vattene, ripetè Antipas afferrando il suo leopardo alla nuca; non ti avvicinare; guarda Cacus che si alza. La sua pelle freme. I suoi occhi s'infiammano. Tu senti troppo il deserto... Egli comprende il suo linguaggio... Vattene, o io non rispondo più di nulla. Cacus potrebbe dimenticare che è qui, e credersi sulle spiagge del mar Morto. Dovreste conoscervi, pure: egli dovrebbe stimarti. Cacus, giù gli zampini, gioia mia. Tu non rosicherai il mio profeta. Ti avvelenerebbe, sai?
Johanan gettò su noi un immenso sguardo di disprezzo e si allontanò lentamente, brontolando, gli occhi rivolti al cielo:
- Signore, tu puoi scatenare i tuoi fulmini ora; tu lo puoi. La tua parola è stata annunziata a questi empi, ed essi l'hanno disprezzata. Il tuo fulmine, o Signore, il tuo fulmine!
Antipas che era grasso, corto, un po' gottoso, si levò dolcemente, come se avesse assistito ad una commedia di Aristofane, e prendendo il mio braccio; disse:
- Vieni, Giuda, andiamo a fare un giro sulle mie terrazze, e cercarvi pel pranzo un po' di quel brigante d'appetito che non viene mai. Voglio mostrarti i due miei poeti, che ho fatto pescare ultimamente in non so quale cloaca di Roma. Li tengo in due gabbie separate per impedire che si divorino, e li nutro di erbe amare onde neutralizzare la loro bile... Diamine! scrivono un poema pel mio matrimonio colla mia cara Erodiade. Mi atteggiano a Giove che cade in pioggia d'oro sopra Danae. «Padrone, mi dice l'un d'essi, piovi dunque un po' su di me, come fai su di Danae.» - «Sopra di te? grida l'altro; padrone, egli non è nemmeno degno che tu gli p.... sopra!» Voglio che tu mi dia un consiglio, Giuda. Bisogna che io stabilisca nel mio Stato un ginnasio per educarvi i profeti. Vedi come si educano male al deserto! I profeti, i messia, i shilok sbucciano spontaneamente nel mio Stato. Vi sono più comuni che i conigli. Se ne incontrano in tutti i crocicchii61. Quando li avrò meglio preparati, ne farò un oggetto di esportazione.
E, scilinguando ciò, Antipas baciava sulla fronte Erodiade divenuta pensosa, e noi uscivamo da una porta, nel punto proprio che da un'altra entrava una fanciulla di una quindicina d'anni, ed andava a gettarsi nelle braccia di sua madre la quale le apriva per riceverla.
La giornata passò gaiamente, in attesa della cena e della festa ufficiale della sera.
Più di cento convitati circondavano l'anfitrione reale nella splendida sala costrutta dal re Erode. Erodiade era coricata vicino ad Antipas, ed io seduto come gli altri, vicino a lei. Tutto ciò che si può immaginare di più prezioso in vasellame ed in porpora, tutto ciò che si può concepire di più delicato in cibi ed in vini, copriva la tavola di quel principe sontuoso e voluttuoso. Il deserto, il mare, i fiumi, le stalle, i giardini e le cantine erano stati esauriti per celebrare questa festa che doveva sedurre quelli che facevano la guerra per il loro padrone, e quelli che avevano ripugnanza a favorire i suoi amori. I discorsi allegri, lusinghieri, bellicosi s'incrociavano in mezzo ad un brillante rumorìo da un capo all'altro della sala. I fiori imbalsamavano, il vino inebbriava, gli effluvii misti dei cibi e dei profumi mettevano in fuoco il sangue. Questo splendore di vasi d'oro, di lumi, di stoffe dai vivi colori di cui i convitati si erano pavesati, il sorriso delle donne, le canzoni degli istrioni, i bizzarri motti dei buffoni, le smorfie dei parassiti.... tutto ciò aveva esaltato gli spiriti ad una temperatura infernale. Ad un tratto, una musica dolce ed invisibile irrugiadò il banchetto, come per calmarne la febbre e preparare l'assopimento. Si aspirava questa freschezza di melodie, ciascuno si cullava a quell'ondulazione di suoni profumati d'estasi. Ma ecco che ad un cenno di Erodiade, una porta s'apre, cinquanta schiave nubiane nude si dispongono in fila con candelabri d'oro alle mani, ed una visione simile ad un raggio di sole s'insinua nella sala.
Fu un soprassalto generale. Antipas, mezzo nudo, si rizzò sul suo gomito come abbagliato.
Era Salomè, la figlia di Erodiade e di Erode-Filippo suo primo marito, che faceva invasione nella sala, bella come una collana di stelle del mattino, appena coperta da un velo leggero che scendeva fino alle ginocchia, le sue ciocche d'oro ondeggianti, un cerchio d'oro sul fronte, sormontato da una stella di diamanti, che pareva Vesper. Al suono di una musica lenta ed in sordina ella cominciò ad atteggiarsi in una successione di pose, ove il suo giovine corpo, bianco come la cima del Carmelo nell'inverno, parve più flessibile d'una pantera. Poi, la musica animandosi, Salomè principiò a volteggiare, ed il velo trasparente che la ombrava, ondeggiando con lei, le dava l'aspetto d'una farfalla che gavazza follemente nelle ajuole d'un giardino, nella primavera. Finalmente la musica diviene turbinosa. Fu allora un getto di fiamma che ravvolse tutta la festa. Salomè poggiando sopra un piede, alzando l'altro al livello del suo braccio, girò sopra sè stessa, svelando dei tesori di bellezza e di gioventù, che davano la vertigine. Fuori di sè, come eravamo tutti, Antipas gridò:
- Che io possa divenire povero come Giobbe, se non accordo a questa fanciulla qualunque cosa la mi chiegga, fosse pure la metà dei miei Stati.
Salomè si fermò, ansante, palpitante, gli occhi dolci e brillanti, la bocca semichiusa, respirando non aria, ma baci. Ella scivolò sulla punta dei piedi e venne a cadere sul seno d'Antipas che le sfiorò, colla bocca i capelli.
- Di', Salomè, di', gioja mia, cosa vuoi? Un palazzo?
- No.
- Dei giojelli?
- No.
- Ami qualcuno?
- No.
- Cosa vuoi dunque? Il mio Stato per una delle tue carezze.
Salomè prese allora sovra una credenza un gran piatto d'argento, ove erano stati serviti dei dolciumi, si avvicinò ad Antipas e gli disse una parola all'orecchio. Antipas sembrò stupito.
- Domandami altra cosa, ragazza, diss'egli.
- No, rispose la giovinetta: aspetto.
- Vuoi tu la città di Tiberiade?
- No.
- Vuoi il lago di Genezareth coi suoi cento villaggi?
- No. Voglio quello che t'ho detto: ed aspetto.
Antipas sospirò. Un grido unanime si alzò dalle tavole.
- Accordato, accordato. Tutto ciò ch'ella vuole è accordato. Tu l'hai giurato, o Tetrarca.
Antipas si chinò all'orecchio d'uno dei suoi ufficiali, e gli disse alcune parole. L'ufficiale, senza mostrare la minima esitazione, prese il piatto che Salomè teneva ancora nelle mani, ed uscì.
La dolce musica ricominciò! Il silenzio era profondo fra i convitati: tutti attendevano, ansiosi e curiosi di vedere il dono domandato dalla giovane aurora. Si sarebbe detto che quella bocca, ove l'amore aveva deposto le sue ebbrezze, avesse pronunziato qualche cosa di strano e di terribile.
L'aspettazione non fa lunga. Salomè era andata a mettersi all'uscio, gettando uno sguardo nella sala del banchetto, un altro negli appartamenti ove l'ufficiale era scomparso. Finalmente arrivò. Salomè gli strappò il bacino, e presentandolo a sua madre, lo scoprì.
Conteneva la testa del Battista.
Un fremito corse in tutti i convitati.
Si racconta che una dama romana punse colla sua spilla da capelli la lingua di un avvocato che aveva fatto condannare suo marito. Erodiade, lei, avvicinò la coppa d'oro alle livide labbra di quella testa tagliata, le versò nella bocca una parte del suo vino, o disse:
- Il profeta beve alla salute del Tetrarca Antipas e di sua moglie Erodiade; io bevo alla sua salute!
Un grido immenso, che rianimò il festino, accolse questa atroce facezia della amante di Antipas. I cortigiani ed i soldati si alzarono tutti e bevvero alla salute d'Erodiade. Solo Antipas ed io restammo tristi e muti.
Alla fine Antipas riprese il suo buon umore e mi disse:
- Non affliggerti, Giuda, se ti hanno servito il tuo profeta sopra un piatto. Verrai con noi a Tiberiade dopo domani, ed io ti prometto di offrirti un messia in una gabbia. Ordinerò una caccia di profeta apposta per te.
Due giorni dopo, lasciammo Makaur, seguendo il Tetrarca ed Erodiade.
Bar Abbas, che io non aveva più visto dopo il nostro arrivo, mi si avvicinò, e disse ad alta voce:
- Che bell'idea di avermi condotto teco! Ho mangiato come dieci, bevuto come cinquanta, e parlato come cento. Ebbene, tutti i soldati d'Antipas sono nostri! gli Erodiani non aspettano che un segno. Mille giovanotti verranno al prossimo paschah a Gerusalemme, armati di spade. Noi prepareremo loro gli scudi. Al primo segnale, scanneranno i Romani.
- Bar Abbas, gridai furibondo, se continui a chiacchierare in questa guisa, ti farò rinchiudere in una muda, fino a tanto che avrai mangiato, dalla fame, metà della tua lingua.
- Sarà il più ghiotto boccone che avrò fatto nella mia vita, rispose Bar Abbas. Ma non seguire, o Giuda, codesta ispirazione: diverrei dopo troppo difficile da nutrire.
XV
Noi abbandonammo Makaur all'alba passando sotto quel maraviglioso albero di ruta, grande come un fico, e divergemmo per un momento dalla nostra via verso il nord, a Baaras, nel vallone che circonda62 la città, per cercarvi quella terribile radice, che brilla la sera come un lampo, che si allontana dalla mano che vuol coglierla, cui non è possibile di prendere se non che inaffiandola o coll'urina d'una donna o col sangue mestruale d'una ragazza, che anche dopo ciò uccide chi la tocca, essa che ha il potere di cacciare il demonio fuori dal corpo degli ossessi63.
Passammo da presso alle fontane d'acqua64 calda e fredda che operano delle cure così sorprendenti. Seguimmo una strada frastagliata, costeggiante delle creste ritte sopra abissi, come i lati d'un triangolo, ed entrammo in quel profondo e pericoloso burrone, che aprendosi alla base della fortezza si divarica e scoscende spaventevolmente per sessanta stadii fino alle rive del lago d'Asfalto. Seguimmo la riva meridionale di questo mare, poi la sinistra del Giordano per tutta la sua lunghezza, ora sopra una banchina di verdura ombreggita da canne e tamarindi, ora sopra uno strato di sabbia bianca che abbagliava la vista, e rendeva difficile il respiro alzandosi in polverio, e talvolta lungo i contrafforti e le vecchie montagne di Galaad, ora Perea.
Nel punto ove il Giordano sgorga dal lago di Genesareth, sotto quella collina in forma di gobba di cammello sulla quale è fabbricata la città di Gamala, come appostata sul lago, trovammo la flottiglia del Tetrarca che ci attendeva in un piccolo seno. Erodiade, Antipas, io, i principali ufficiali della corte di quel principe, montammo sopra una bireme bianca come un cigno, dalle vele di porpora; il resto del seguito invase le triremi e biremi da guerra. Bestie e schiavi continuarono la strada lungo la costa. Il sole tramontava dalla parte della Giudea. Il lago sembrava un lembo di cielo stemperato in una coppa d'oro. Il cielo era una cupola azzurra infinitamente profonda. La luce abbagliava del suo sorriso tutta la natura che si svolgeva sotto il nostro sguardo. L'Halin, il Tabor, le montagne di Safed, i precipizii nevosi dell'Hermon, ondeggiavano da lungi d'una luce dorata e violastra.
Al primo piano di questo anfiteatro di basalto - dalla forma di fico, la cui base è all'immissione, ed il peduncolo alle foci del Giordano - si stendevano delle città e dei villaggi che gli ultimi raggi del sole doravano come melaranci. Gli altipiani ondulati della Golonitide e della Perea, aprendosi a mo' di terrazza fino a Cesarea di Filippo al nord, rizzandosi di tanto in tanto in picchi deserti ed inaccessibili, sembravano coperti d'un tappeto di velluto celeste ondato di viole. Il flutto dolce e sonoro baciava la spiaggia, giocando colle piccole conchiglie nel piccolo estuario formato dal fiume salato di Tabiga, perdendosi nelle ajuole di fiori e d'erbe di Tarichea, alla uscita del Giordano e sulle rive della pianura di Genesareth. Dei piccoli promontorii, rivestiti di tamarindi e di capperi spinosi e di oleandri, si disegnavano sulla sabbia. Una vegetazione abbagliante, dalla noce del Caspio al fico della Siria, alla palma del Nilo, al cedro ed all'arancio della Sicilia, fino alla quercia ed al cipresso del Nord, copriva d'ombra i giardini e sfidava i cocenti raggi d'un sole indiano. Dei casali, dei villaggi, delle ville s'addossavano alle colline che circondano il lago: in minor numero, nella costa più arida del mezzogiorno, le cui montagne erte e rocciose caddero in eredità alla discendenza di Manasseh; in più gran numero, sopra le rive occidentali del nord e dell'ovest. Là, Gamala; da lato Tarichea, Hippos, Pella, Gadara città greche; sopra la costa della Galilea, Magdala Delmanutha, Capharnaum, Chorazin e Tiberiade dalla fronte d'oro; sulla costa di Golonite, Bethsaide unita da un ponte a Julia e Gergesa; a nord, Cesarea di Filippo, e quella grotta di Panium, dalle salutari sorgenti, circondata da statue di Pan, da Ninfe, da Eco, ed il tempio che Erode fece alzare ad Augusto. Sopra ogni punto della roccia vulcanica, sopra ogni fessura della montagna, una capanna di pescatore o di battelliero; sopra ogni bricciola di terra, un mazzo di frumento, di viti, d'alberi, di fiori, di verdura. Le acque delle sorgenti e dei ruscelli rivaleggiavano di limpidità, di dolcezza, d'azzurro, colle acque del lago, calme come la pupilla d'una giovine Brettone. Delle nuvole d'uccelli, bianchi e grigi, dalle piume scintillanti, giravano in corona sulla nostra bireme che volava verso Tiberiade come un alcione.
Il sole era scomparso, ma il cielo ardeva ancora, rosso dei suoi ultimi raggi, i quali indietreggiavano dolcemente dinanzi una miriade di stelle, svelantisi gradatamente, quando la bireme si fermò nel porto di Tiberiade.
La capitale d'Antipas si svolgeva ai piedi d'una collina dirupata, presso una sorgente d'acqua calda, sulle rovine d'una città, e di tombe d'un popolo di cui è perduto il ricordo. Tiberiade era una città romana, una Napoli, una Baja, una Pozzuoli, una Siracusa dell'Asia, con tutti gli edifizii pubblici delle città romane, tempii, collegi, ginnasii, stadium, palazzi, forum, teatri, circhi e terme. Un castello coronava la città; e sotto la protezione di quella fortezza, al di sopra della città, sorgeva la Casa Dorata, residenza d'Antipas, il cui tetto era coperto di lamine d'oro, come il Tempio. Un alto muro, scendendo dalla fortezza fino al mare, circondava la città. Un porto, delle gittate, delle porte che davano su l'acqua, delle torri, delle terrazze, nulla mancava. Centinaia di barche, come tante nere bagnanti dalle pezzuole multicolori, si cullavano nelle limpide acque. Volendo popolare rapidamente le belle vie e le belle case della sua città, Antipas ne aveva fatto un asilo pei malfattori, un mercato libero pei commercianti, un sito di delizie per i ricchi, un rifugio pegli impuri, un luogo molto lucroso pegli artigiani e gli artisti, un tesoro pel povero che vi cercava lavoro, un terreno neutro per tutti i popoli. Per ciò, Tiberiade era popolata da cittadini di tutte le nazioni; Italiani, Greci, Asiatici, di tutte le parti. Lo schiavo che ne toccava il suolo diventava libero. Il malato che veniva alle sue fontane se ne tornava guarito. Antipas comperò degli schiavi e diede loro un angolo di casa nella sua città. Tutto vi abbondava: le cortigiane, i divertimenti, le derrate, il lavoro, gli dei, gli uomini d'arme, le fortune da tentare, le scienze da acquistare, la pace dell'anima, l'ebbrezza dei giuochi. Antipas, quantunque sedesse alla sinagoga, andasse al Tempio, e si ragunasse con gli altri al shema, era un Romano pel vizio, un Greco pel gusto, un Egiziano pel piacere. Egli comprendeva tutto, ammetteva tutto, e tutto amnistiava. Dava la mano a Jehovah, un sorriso a Venere, rispettava Iside, e si acconciava in buoni rapporti con tutti gli dei che si importavano nei suoi Stati.
La mia intenzione non era di godere lungamente della vita ardente della Casa Dorata, che m'era tanto andata a genio alcuni mesi prima. Lo scopo della mia escursione era di trovare un capo popolare per la grande sollevazione che io tramava contro il dominio Romano. Il Battista mi era scoppiato fra le mani, bisognava cercarne un altro. Antipas mi aveva già parlato d'uno dei suoi sudditi, ch'egli fece invitare il giorno stesso al suo palazzo. Ma io mi fermava al progetto di ritornare sui miei passi, e d'andare a Gamala per vedervi i figli di Giuda il Golonite, di cui il più giovane, Menahem, ha già figurato fra i delegati dei partiti al consiglio rivoluzionario di Gerusalemme.
Alle terme ove m'ero recato Bar Abbas mi raccontò confusamente di non so quali miracoli d'un rabbì che meravigliava i pescatori della costa di Cafarnaum. Ora, siccome io nei miei viaggi ne avevo veduti tanti di codesti giocolieri delle pubbliche piazze, non feci gran caso della scoperta di Bar Abbas. Per altro essendo l'indomani sabato, e il tempo bello, e le rive dell'acqua deliziose, bisticciando con Bar Abbas, passeggiai dalla parte orientale del lago. Volevo veder da vicino, in cima alla roccia su cui è fabbricata Cafarnaum, quella splendida sinagoga di marmo bianco, che da lungi scintilla al sole sul lago; poi, ritornando, frugare un po' in Magdala onde cercare qualche traccia di Maria che era sparita senza lasciarne alcuna.
Uscii dalla Casa Dorata all'alba, seguii la via romana che corre da Damasco a Tiberiade, passando dinanzi Magdala, traversando il rigagnolo d'acqua salata che zampilla da alcune larghe sorgenti, a pochi passi dal lago, e si getta in mezzo ad uno spesso tuffo di verdura, montando la china tagliata nella roccia, verso la bocca del Giordano, e tagliando la base di quella collina, ove è posta Cafarnaum.
La sinagoga è un'istituzione popolare, come il sanhedrin è un'istituzione aristocratica, del popolo giudeo. Essa rimonta un po' al di là dei Maccabei.
La sinagoga è una casa di riunione per pregare, per cantare i salmi di Davide, leggere il Pentateuco, ascoltare delle lezioni morali e discutere la dottrina: un tempio, una scuola, un palazzo municipale in caso di bisogno.
Quando tutti comprendevano l'ebraico, il Tempio stesso era inutile: ogni focolare era un altare. Mosè aveva ordinato di fare la lettura pubblica dei libri sacri ogni sette anni. Ma dopo il ritorno da Babilonia, l'ebraico era divenuto una lingua da letterati che si imparava come un'altra. Il popolo non parlava più correntemente che l'arameno, dialetto siriaco misto d'ebreo. La lettura dei libri di Mosè non poteva esser fatta dunque che da una classe scelta.... Un po' più ancora, e quei libri sarebbero stati obbliati. Allora Ezra fondò una riunione ebdomadaria per cantare i salmi e leggere i profeti. Questa istituzione divenne popolare: la sinagoga nacque; dieci persone bastavano per costruirla. L'architettura n'era semplice: si imitava la tenda che era stata imitata dallo stesso Tempio. Più tardi se ne fecero dei monumenti.
La sinagoga costrutta dal cittadino romano in cima alla collina di Cafarnaum era splendida, di marmo bianco, che spiccava vivamente sul basalto grigio di cui era fabbricata la città: il frontone ornato di colonne a capitelli corintii, un portico dinanzi la porta ed un magnifico cornicione d'ordine composito.
Era l'ottava ora del mattino. Dei gruppi di conciatori di pelli, tintori, fabbricanti di sapone, mercanti d'olio, venditori di cacio e di frutta, dei pastori, dei marinai, dei pescatori, dei giardinieri facevan capannelli sul piccolo piazzale della casa di riunione, attendendo il momento d'entrare, e in attesa di occuparsi della salute dell'anima, trafficavano fra loro.
Cafarnaum è la prima città, sulla via da Tiberiade a Damasco, che abbia guarnigione romana.
La sinagoga era bagnata di una calda luce che faceva scintillare di rosee tinte i muri di marmo bianco, sotto un cielo azzurro, sopra un lago ceruleo circondato da verzura e da roccie vulcaniche. Passai, ed innanzi di entrare, immersi le mani nella vasca d'acqua presso alla soglia, nettai i piedi alla lama di ferro posta vicino, feci una riverenza all'arca, e mi fermai alla porta rivolta all'occidente. Poco dopo il popolo principiò ad entrare, imitando ciò che io aveva fatto. I dieci del batlanim (oziosi) avevano già preso posto nella piattaforma elevata del mezzo della sinagoga. I ricchi andarono a sedere sui loro alti posti vicino all'arca; i poveri si accalcarono sulle panche di legno coperte da stuoje; i fanciulli mezzo nudi ed intieramente abbronzati al sole, s'accocolarono sul suolo di nudo marmo, facendo degli sberleffi, pizzicandosi di nascosto, più vogliosi di andar a giuocare sulla piazza, che di stare lì dentro. Le donne occupavano già il loro nido dietro una larga grata nella galleria superiore, vicina al tetto. Il Hazzan, che è il guardiano della sinagoga, vi mantiene l'ordine, e compie certe funzioni, fece il giro della sala per vedere se tutto andava convenevolmente. Gli anziani stavano sulla piattaforma, ed il loro capo aspettava che il Hazzan gli dicesse che tutto era in ordine per dare il segnale del servizio. Il segnale fu dato. Il capo del batlanim bruciò dell'incenso che riempì del suo bianco fumo e del suo forte profumo tutta la sinagoga, ed intuonò un salmo di David che fu cantato dall'intera assemblea. Finito il salmo, il Hazzan andò all'estremità orientale della sinagoga, allontanò, inchinandosi, il velo che copre l'arca, l'aprì e ne tirò fuori il Torah - ruotolo ove sono scritti i cinque libri - lo portò intorno ai banchi del popolo, di maniera che tutti potessero baciarlo, o toccarlo colla mano diritta, ed ascendendo i gradini della piattaforma, lo presentò al Sheliach.
Questo vegliardo, prendendo il ruotolo nelle sue mani, si levò e, mostrandolo aperto alla congregazione la quale si alzò pure, gridò:
«Ecco la legge che Mosè dettò al popolo d'Israello, la legge che Mosè c'impose, l'eredità dei figli di Giacobbe. Le vie del Signore sono perfette. Le vie del Signore sono provate. Egli è lo scudo di tutti queglino che credono in lui.»
Lo Sheliach aprì poi il ruotolo sul leggìo, lesse ad alta voce il capitolo pel parashà, o sermone del giorno. Il popolo seguiva questa lettura cogli occhi, col cuore, le braccia alzate. Ogni sillaba, ogni pausa era marcata. Quando la lettura del parashà fu finita, e la spiegazione fatta, il Hazzan riprese il Torah, lo rimise al suo posto chiudendo il velo che lo ricopre. Il popolo gridò nuovamente:
«Il nome del Signore sia lodato; il suo nome sia esaltato poichè la sua gloria vola nel cielo e sulla terra.»
Allora si cantò un altro salmo, poi il capo degli anziani principiò il suo midrasch, specie di commentario sul capitolo letto dallo Sheliach. Appena ebbe egli finito, un uomo, il quale stava seduto vicino a me sulle panche del popolo, si alzò e domandò di nuovo il Torah.
Io non aveva prestato la minima attenzione a ciò che avveniva nella sinagoga, distratto da prima dal guardare alle finestre il popolo che, non avendo trovato posto di dentro, cercava di fuori di raccapezzare quanto poteva della lettura o del commentario, ed assorto poi dalla grata delle donne.
Quando il canto ebbe principio, credetti intendere una voce che io conosceva, avendo con essa cantato e commentato il Cantico dei Cantici. Quella voce mi aveva colpito. Poi m'era parso distinguere una forma, uno sguardo che si turbava sotto il mio, una persona che si tirava addietro.
Intieramente fisso a quella grata, io non aveva osservata la persona, seduta come me sul banco dei poveri, ma circondata da un certo numero di amici che le parlavano con rispetto, l'ascoltavano con deferenza e spiavano tutti i suoi moti. Avendo domandato il Torah, mentre il Hazzan andava a riprenderlo, quella persona si avanzò sulla piattaforma, e montò al leggìo del lettore. Il rabbì sembrava essere molto conosciuto, poichè il popolo l'accolse con un mormorìo benevolo, ed un movimento d'attenzione si propagò su tutti i banchi. Avendo ripreso il ruotolo, l'aprì, e lesse di nuovo il parashà del giorno, sopra il quale incominciò a dare delle spiegazioni a suo modo. Egli parlava, lo si ascoltava, ed io l'esaminai. La donna alla grata, che s'era tirata indietro, riapparve sul davanti.
Il nuovo lettore era un uomo d'una trentina d'anni, di statura ordinaria, agile e magro. Aveva la tinta biliosa e bronzata, la barba nera, tagliata in punta, i capelli neri egualmente divisi sulla fronte alla moda Galilea, e gettati all'indietro in lunghe ciocche. Il fronte, un po' basso nella parte anteriore, si allargava alle tempie. Non si scorgeva del viso che le pomette un cotal po' accentuate, ed il naso leggermente ricurvo. I mustacchi coprivano le labbra sottili e scolorate, la bocca larga rialzantesi agli angoli e i suoi denti color avorio. Tutto ciò sarebbe stato volgare, se dei grandi occhi neri, colle sopracciglia folte e quasi riunite sull'alto del naso, dallo sguardo potente, vellutato, voluttuoso, dolce o carico di lampi a suo piacere, non avessero rischiarato quella fisonomia mobile, cangiante secondo il pensiero o l'interna passione che l'agitava. La sua voce era dolce, singolarmente melodiosa, sopratutto quando voleva accarezzare. Le sue maniere erano gravi. Una grande dignità risaltava da tutto l'insieme della persona, dal suo portamento, dalle sue parole e dei suoi modi65.
Io intravidi tutto ciò in un batter d'occhio, poichè ero sempre attratto dalla grata. Non intesi quindi ciò che il nuovo lettore disse, come non avevo udito il parashà dell'anziano che l'aveva preceduto. Una voce, che partiva dalle sedie dei ricchi, mi richiamò alla lezione. Ogni individuo avendo il diritto di fare delle questioni, un ricco mercante di grano gli aveva domandato:66
- Rabbì, donde ci vieni tu?
Mi volsi allora verso un giovane che sedeva a me vicino, mostrandomi molto soddisfatto di ciò che il Rabbì andava dicendo, e molto malcontento dell'interruzione, e gli chiesi:
- Qual è il nome del Rabbì che parla ora?
- Da che sotterraneo sbuchi tu per non conoscere il nome del nostro Rabbì?
- Sbuco da un sotterraneo che si chiama Casa Dorata a Tiberiade, e da un deserto che si chiama Gerusalemme; scusa dunque la mia ignoranza.
- Ebbene, gli è il Rabbì di Nazareth. Lo conosci ora?
- Meno di prima. Ma non monta. Chi è codesto tuo Rabbì?
- Quegli che sazia le moltitudini con pochi pani.
- Mi meraviglierebbe se la saziasse con dei ciottoli, o con delle foglie d'alberi, come le vacche. È dunque un figlio di Salomone o d'Erode, il tuo Rabbì di Nazareth?
- Meglio assai, straniero, rispose il giovine con disprezzo: egli è figlio di Dio.
Non ebbi a replicare. L'entusiasta mio vicino, che era discepolo del Rabbì, e si chiamava Giovanni, alludeva ad un fatto accaduto alcuni giorni prima, in cui il Rabbì, avendo condotto seco un certo numero di discepoli in una escursione nelle montagne, aveva loro fatta la gradita sorpresa di distribuire del pane preparato la vigilia, regalo al quale non s'attendevano in quel sito. Questa attenzione li aveva tocchi al punto che paragonavano la generosità del maestro a quella leggenda d'Elijah, che moltiplicò l'olio e la farina della povera vedova di Sarepta la quale gli aveva dato da bere, e ad Eliseo che aveva nutrito gli abitanti di Guilgal in una carestia, con venti pani d'orzo.
Alla domanda del mercante di grano: donde vieni tu? il Rabbì non rispose categoricamente; ma facendo allusione alle voci propagate dai suoi discepoli, disse:
- Sì, sì, voi mi domandate ciò, perchè avete udito parlar d'un miracolo, e perchè vi piace di saziarvi d'un pane che non costa nulla67. Ebbene non vi date pena per un alimento che si consuma, ma per quell'alimento che dura sempre, e che il figlio di Dio, solo, può darvi. Dio il Padre vi è garante per lui.
- Tutto questo è molto bello, sclamò un pescatore dai banchi del popolo; ma che occorre egli fare per meritarsi da Dio codesto prezioso alimento?
- Poca cosa, replicò il Rabbì; per piacere a Dio, bisogna credere in colui ch'egli ha inviato.
- Dio ha inviato dei profeti, disse allora un anziano ed essi si sono manifestati con le parole, e gli atti. Ora che segno ci porti tu, pel quale potessimo vedere e credere in te? quali sono le tue opere? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, ciò è scritto, ed essi credettero in Mosè, il quale loro distribuiva così il pane del cielo. E tu, che hai fatto tu? Dov'è la tua manna?
Sfidato a dare questa spiegazione, obbligato a declinare i suoi titoli di parentela con Dio, il Rabbì rispose con un motteggio:
- Voi siete degli sciocchi, e null'altro, credendo alla vostra manna scesa dal cielo per quarant'anni, e sempre a tempo. Mosè non diede del pane del cielo ai vostri padri68; ma gli è il padre mio al contrario, il quale vi darà il vero pane celeste. Imperciocchè, gli è il pane di Dio soltanto che piove dal cielo, e dà vita al mondo69.
- A meraviglia, osservò ironico il capo degli anziani, punto molto che il Rabbì non avesse trovato buono il suo parashà: a meraviglia, maestro, ma dacci dunque di codesto pane miracoloso che non costa nulla, nutre così bene, e viene da così alto70.
A una domanda così impertinente, ad una derisione così fina, il Rabbì rispose con un'altra dell'istesso calibro.
- Come, anziano mio? tu vuoi di questo pane tu? Ebbene, niente di più facile, e di più alla tua portata. Eccomi. Io sono il pane della vita. Chi mangia di me non ha mai fame, e chi mi crede non ha mai sete71.
Uno scoppio di riso accolse questo scherzo.
- Ah! fece un fornaio su i banchi dei ricchi: alla buon'ora! così non sarò rovinato, io.
- Io lo mangerei in due pasti, quel magrolino lì, urlò un enorme facchino dietro a me; ma dopo?
- Ne parli a tuo comodo, tu, osservò un altro, tu lo mangeresti in due pasti, e per noi altri, allora?
- Ebbene, mangerete dell'arrosto di montone, perdio! e state zitti voi altri, vociò Bar Abbas, che dalla strada sporgeva la testa in dentro pella finestra.
Per un istante il Rabbì sembrò turbato da quei lazzi, e la sua figura si animò. Era per rispondere vivamente, ma, riprendendosi tosto, affermò con calma:
- Non voglio soggiungere che questo: voi mi avete veduto, e non mi avete creduto. Ma sappiate che tutto ciò che mio Padre mi dà verrà a me, e chiunque verrà a me, non lo respingerò mai, avvenga ciò che vuole; poichè io sono disceso dal cielo, non per fare le mie volontà, ma quelle di colui che m'ha inviato. Ora è volere di mio padre che m'ha inviato, che io non debba nulla perdere di ciò ch'egli mi ha dato, ma che debba renderglielo di nuovo all'ultimo giorno. Gli è ancora volere di colui che m'ha inviato, che chiunque vede il Figlio, e crede in lui, possa avere una vita eterna. Ed io lo risusciterò all'ultimo giorno.
Gli anziani, il Batlanim, il Hazzan, si guardarono in faccia l'un l'altro; al banco dei poveri, si restò stupefatti non comprendendone niente; ai seggi dei ricchi si mormorò; dietro la grata delle donne si udirono dei lunghi sospiri. Bar Abbas insinuò di nuovo la sua testa nella sinagoga ed osservò:
- Nipote mio, nipote mio! tu viaggi nella luna.
- Ma non è egli Gesù il figlio di Giuseppe il falegname e il figlio di Maria? Non conosciamo forse più suo padre e sua madre, noi? Perchè ci viene dunque a cantare che è disceso dal cielo? Per chi ci prende egli?72
Gesù fece un movimento d'impazienza e sclamò:
- Non mormorate fra voi73. Resistete? Tanto peggio. Poichè nessuno può venire a me, se non vi è spinto dal Padre che mi ha inviato. Ciò è scritto nelle profezie di Isaia, di Geremia e di Micah; ed è Dio che li ispirò. Ogni uomo, quindi, che ha udito ed imparato la volontà di Dio, viene a me. Non già che nessuno abbia visto il Padre; quegli soltanto che è di Dio ha visto il Padre.
- L'hai veduto tu, dunque, o Rabbì? gli domandò un giardiniere.
- È desso grigio o biondo, tuo padre, nipote mio? interrogò Bar Abbas. Lo rinneghi dunque quel povero disgraziato di carpentiere di Nazareth?
- È morto, disse un altro.
- Non lo frastornate dunque, voi altri, gridò il mio giovane vicino: non lo interrompete. Sì, Rabbì, tu hai veduto il Padre e noi ti crediamo.
- E fate bene, rispose Gesù. Sì, sì, ve lo ripeto e ve lo affermo, chi crede in me, avrà una vita eterna.
- Ma, giurabacco, gridò un mendicante, parliamo un po' del pane, e lasciamo da parte il Padre ed il Figlio. M'inquieto io assai di tutto codesto. Hai del pane, Rabbì?
- Io sono il pane della vita, continuò Gesù gravemente e con più forza. I vostri padri hanno mangiato la manna del deserto, e sono morti. Gli è qui il pane sceso dal cielo, affinchè colui che ne mangia, non muoia punto. Io sono il pane vivente; se qualcuno mangia di questo pane, vivrà eternamente; ed il pane che io gli darò, è la carne mia che darò per la vita del mondo74.
Lo scandalo fu al colmo. Le interruzioni s'incrociarono, partendo da tutti gli angoli d'ogni natura, inette, burlevoli, gravi, irritate75.
- Ma dicci almeno, nipote, a che condimento dobbiamo mangiarti? brontolò Bar Abbas di nuovo colla sua testa alla finestra. È buono conoscer tutto. Chi sa? in un giorno di fame! Poi, come ucciderti senza farti male? Dovresti, mi pare, occuparti un po' di ciò. Tu sei troppo duro ora, alla tua età, per mangiarti crudo. Occorrerà lasciarti stagionare una coppia di giorni forse?
Tutti rincarivano in queste buffonerie. Ma una interrogazione primeggiava su tutte.
- Come mai può egli dare da mangiare la sua carne?
Gesù, ostinandosi nel suo singolare paradosso, rispose:
- Sì, sì, se voi non mangiate la carne del Figlio dell'uomo, e se non bevete il suo sangue, non avrete più in voi la vita. Quello che mangia la mia carne e beve il mio sangue è in possesso della vita eterna, ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perocchè la mia carne è veramente un nutrimento ed il mio sangue una bevanda. Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me, ed io in lui. Ora siccome io vivo pel Padre che mi ha mandato, così quello che mi mangia vive per me. Ecco il pane che è sceso dal cielo. Questo pane non è come la manna che i vostri padri hanno mangiata, e che non li ha impediti di morire. Colui che mangerà di questo pane vivrà eternamente.
- Traduci ora tutto ciò a portata del senso comune, soggiunse Bar Abbas.
Il Rabbì, stanco di tante obbiezioni, d'avere sì a lungo parlato, egli che aveva la parola corta, d'avere fatto un sì grande imbroglio di parole, egli che per solito era chiaro e pratico, scese dalla piattaforma, e venne a sedere in mezzo ai suoi discepoli. Uno fra essi, pescatore dalla faccia di granito fortemente delineata, profondamente bronzata, mormorava fra sè stesso ad alta voce:
- L'è un po' troppo! l'è un po' troppo! come si fa a sentire tranquillamente simili frascherie?76
Gesù l'intese borbottare e gli rispose:
- Ciò ti urta, cuore di macigno! Cosa sarà dunque se io vi dirò che il figlio dell'uomo ascenderà nel cielo, ove egli era prima!
Io sorrisi. Gesù se n'accorse, ed il giovinotto mio vicino mi disse:
- Sei un fariseo, tu che ridi e non ci credi punto.
- È lo spirito, che vivifica, aggiunse Gesù fissandomi: la carne è ottusa. Ora, le parole che ho dette sono dello spirito, ed esse sono la vita. Ma vi è chi non ci crede.
- Tu sei il Cristo, figlio di Dio, gridò il ruvido barcaiuolo.
Intanto la riunione si separava, e tutti uscivano irritati, il viso rosso dalla collera, o composto alla berta. Il Rabbì uscì anch'egli, accompagnato dai suoi discepoli, in mezzo agli sguardi furiosi, stupidi, severi o burlieri. Io m'avvicinai a Bar Abbas e gli ordinai:
- Segui quel Rabbì; ho bisogno di parlargli domani.
- Non ti sfuggirà, va!
Poi, appostandomi ad un angolo della porta, assistei all'uscita delle donne. L'ultima fermò il mio sguardo. Ella si mise a seguire da lungi il Rabbì, ed io, lei.
Gesù camminava lentamente, in silenzio, profondamente contrariato, anzi irritato. Al basso della città, volse coi suoi discepoli a sinistra, mentre la giovine donna prendeva la diritta seguendo la via romana che conduce a Magdala. Non mi avvicinai. Ella non si volse indietro. Per altro la mi aveva osservato, poichè l'avevo veduta abbassare il velo che le copriva la testa, e tremare in tutta la persona.
Non m'ero ingannato: era Maria.
A Magdala, ella penetrò nel villaggio e per una viuzza ascese alla cima della costa, all'ultima casa che s'apriva sui giardini della collina.
Qual cangiamento!
Quella piccola casa aveva la forma oblunga, l'aspetto d'una tenda, le mura nude forate da buchi quadrati, senza cornice, nè camini, la finestra della camera, al secondo piano, nascosta da un pergolato che teneva lontani gli sguardi curiosi. Alla cima, una terrazza circondata da una balaustra merlata di tegole vicine le une alle altre, sopra la quale le donne ebree, col velo alzato e le calzature lasciate nel basso, coi vestiti rialzati, stendono e seccano il formentone, nutriscono le colombe ed i piccioni, ed alla sera si lavano e filano. E' fu sopra una simile terrazza che Betsabea mostrò il suo seno a Davide, che la spiava dall'alto del suo palazzo.
Una domestica che ci aveva preceduti o era restata a casa, ci aprì la piccola porta praticata nel muro di pietre rozze che circonda il giardino, nel cui mezzo sorgeva la casa. La parte anteriore di questo giardino era quasi invasa da un enorme fico; quella posteriore all'abitazione montava l'alto della costa, e guardava sul lago. Dalle due parti c'erano dei legumi. Traversando la porta della casa, passammo per un corridojo a vôlta, che conduceva ad una piccola corte interiore aperta (il patio degli spagnuoli). Due porte che davano nelle due stanze, s'aprivano dalle due parti della corte. L'inverno non era ancor giunto. Maria viveva tutta la giornata in questo sito a cielo aperto. Forse ella vi trascinava la notte il suo materasso e la coperta e vi dormiva sotto lo sguardo delle stelle.
Le famiglie giudee si coricano in quella specie di corte tutti insieme, madre, padre, fratelli, figlie, ragazzi, mogli e mariti, ed i loro bimbi; felici, quando le tenebre coprono i misteri della notte. Allorchè principia il freddo, tutti si rifugiano in una di quelle camere laterali, chiuse da un tappeto abbassato.
I muri erano imbiancati di calce e nudi, il suolo in calce e sabbia battuta. Una panchina che serviva di sedile il giorno, e di letto forse la notte, occupava un angolo del muro, una lampada di terra rossa, due o tre sedie di legno, un piccolo mulino da grano, una brocca di terra cotta per andare ad attingere e conservar l'acqua; ecco tutti i mobili di questa donna, che a Gerusalemme viveva come una cortigiana di Corinto, sopra i tappeti e le piume, circondata di lusso e delicatezze.
Non scambiammo una sola parola lungo la strada. Arrivato nella sua casa, Maria, mi ricevette come se fossi stato suo fratello. Non un'allusione al passato. La mi parve sì profondamente cangiata, sì tranquilla, sì felice, che non osai risvegliare nessuna di quelle memorie che m'erano pur tanto care. Era mezzogiorno: un giorno di sabato. Maria servì una manata di civaie cotte la vigilia, un pezzo di carne fredda, del pane, e avvicinò la brocca d'acqua.
- Io non rispetto scrupolosamente il sabato, mi diss'ella, se avessi prevista la tua visita ti avrei ricevuto meglio. Ma, se pranzi male, spero che cenerai un po' meglio.
- Un buon pranzo, una buona cena sono due eccellenti cose, risposi, ma non sono tutto. Io sono felice di vederti.
- Ebbene, mi vedrai ugualmente, sia che resti seduta, o che mi muova un po' per prepararti qualche cosa da metter sotto ai denti, al tramonto. Dove abiti ora?
- Alla Casa Dorata, a Tiberiade.
- Dev'essere un po' più comodo di qui, credo.
- Non così bene, Maria.
- Tanto meglio. Se tu sapessi che attrattive ha la semplicità!
- Credi dunque molto semplice una casupola che tu riempi dei tuoi sguardi e della tua persona?
Maria lasciò passare tutti i miei complimenti per non rimettermi sulle traccie del passato. Tutt'al più sorrise. Passammo la giornata, fra la corte scoperta ed il giardino, a chiacchierare. Io la seguiva da per tutto. La vidi cogliere i legumi, lavarli, cuocerli, preparare ed arrostire un pollo; impastare il pane, ammadiare la pasta per farne dei pasticcini fritti rimpinzati di mandorli, di latte rappreso e di miele; cogliere i fichi e l'uva ancor fresca nel suo giardino, ed allestire i fiaschi di vino del paese. Poi quando il sole principiò a scendere, la vidi posarsi sulla spalla una brocca ed andar a cercar l'acqua alla fontana nel basso del villaggio. Io chiedeva a me stesso: È dessa l'istessa donna! cosa ha potuto cagionare un simile cangiamento?
Essa portava una tunica bianca, incrociata alle ascelle, ed un'altra celeste sovrapposta che discendeva fino a sotto le ginocchia, stretta alla vita da una cintura di lana nera.
La giornata scorse rapida come un'ora. Il sole tramontava già tutto rosso, le leccornie preparatemi da Maria ingombravano il tavolo, ed eravamo sul punto di sederci nella corte scoperta, quando udii un rumore di passi nel giardino.
- To', disse Maria senza parere sorpresa, quantunque con emozione, gli è forse il Rabbì di Nazareth, che hai veduto questa mattina nella sinagoga.
- Sarei felice d'incontrarlo, diss'io, ma non in questo momento: sono sì felice di trovarmi solo con te.
Eppure era ben desso, il Rabbì, e non era solo. Giovanni, il figlio di Zebedeo, il giovine che era seduto a me da presso nella sinagoga, l'accompagnava; e tre minuti dopo apparve anche Bar Abbas.
Gesù m'imbarazzava; ma al postutto avrei tirato partito dal caso che me lo conduceva sì opportunamente. Gli altri due mi tediavano. Giovanni, vedendo tante buone cose preparate sul tavolo, gonfiava le sue giovani narici, e fiutava il pranzo come un cane da caccia. Il ragazzo si prometteva un piccolo festino. Ma questa non era la mia intenzione. Volevo esser solo fra questa donna ch'io sapeva muta, fedele, prudente, ed il Rabbì a cui volevo parlare. Feci dunque cogli occhi un segno a Bar Abbas, indicandogli il piccolo Giovanni, ed allargai la mia cintura. Bar Abbas comprese, rammentandosi della nostra conversazione. Egli prese dunque pel braccio Giovanni e conducendolo fuori del giardino:
- Vieni, gli disse, voglio regalarti all'osteria. Hai quattrini, ragazzo?
Ahimè! Giovanni aveva compreso il mio segno; s'era veduto frustrato di quell'appetitosa cena, egli che era sì ghiotto, e così permaloso! Non me la perdonò mai più. Nulla potè, nelle nostre relazioni posteriori, raddolcire la reciproca nostra antipatia77.
La cena fu fraterna e dolcemente gaja. Finita che fu, presi il braccio del Rabbì e lo condussi in quella parte del giardino che era dietro la casa.
XVI
La notte era bella. La luna piena, specchiandosi nel lago, le dava quei riflessi brillanti e vivaci, cui l'aurora dà al tetto del Tempio, irto di lame d'oro. Milioni di stelle volteggiavano nell'azzurro silenzioso del firmamento. Nessuna voce umana arrivava fino a noi: le voci stesse della notte non avevano principiato le loro armonie. Maria, che aveva osservato il segno da me fatto a Bar Abbas per isbarazzarci di Giovanni, ci aveva lasciati soli. Il Rabbì ed io passeggiavamo sotto un pergolato di vite carico ancora di pampini violacei e di grappoli dorati, contemplando in silenzio il grandioso spettacolo del lago e le montagne vaporose della Galilea e della Perea, le piccole ville e i villaggi, che riposavano sulle rive dell'acqua, in mezzo ai giardini profumati.
Il Rabbì sembrava assorto. Evidentemente lo smacco del mattino, lo scandalo, i rumori, le risa, i motteggi che egli aveva suscitati nella sinagoga l'avevano colpito, anzi ferito. Egli, così grave, così positivo, era stato messo alla berlina sur un ribobolo - sfuggitogli per rispondere ad una importuna domanda - vi era stato confitto implacabilmente, e ricondotto a quella sua parola, quando se ne staccava, con una crudele ostinazione. Gli era stato mestieri svolgere una corona di non sensi come parole profetiche, ed alzare un bisticcio al grado di una promessa messianica. Io era stato edificato della sua persistenza del suo sangue freddo, della sua ostinazione, e della sua presenza di spirito. Egli che d'ordinario parlava poco, aveva lungamente dissertato; niente l'aveva scosso. La sua imperturbabilità, anche nel paradosso, m'aveva cattivato. La potenza della sua volontà, per non andare in collera, l'elasticità del suo spirito, per trovare e presentare sempre una nuova faccetta della sua prismatica assurdità, m'avevano sedotto. Dissi a me stesso: ecco il mio uomo, se vuol essere un uomo! L'ardire, la calma, la tenacità, la franchezza, la finezza, la frase misteriosa, l'accento seducente, lo sguardo fascinatore, la poesia.... nulla gli mancava per dare alla plebe un'anima ed un braccio.
Siccome il Rabbì, immerso nei suoi pensieri, continuava a tacere, io gli dissi:
- Rabbì, ero questa mane alla sinagoga. E' sono stati implacabili.
- Bisogna scusarli; non m'hanno compreso, rispose Gesù con dolcezza.
- Non t'hanno compreso, e non era poi molto facile il comprenderti. Ad ogni modo, la cosa è spiacevole, perocchè sono dei malintesi che divengono talvolta fatali. Un mio fido ha vôlto la cosa in ischerzo. Le sue buffonate hanno soffocata e stornata la collera che si accendeva negli occhi di quei sozzi bigotti. Senza ciò, non so' come il tuo parashà avrebbe finito.
- Il popolo principia sempre per mormorare e finisce quasi sempre coll'adorare. Ma chi sei tu che così t'interessi a me?
- Da questa mane, sono tuo discepolo.
- Mio discepolo? Sai tu dunque ciò che occorre per esserlo? La regola è dura: io sono assorbente come la donna.
- Dimmi le prove che esigi.
- Lascierai tuo padre.
- È morto.
- Tua madre.
- Ahimè! la povera donna mi vede sì di raro, e mi desidera così tiepidamente.
- Lascierai tua moglie.
- Non ne ho.
- Lascierai i tuoi fratelli e le tue sorelle.
- Non ho fratelli. La mie sorelle pensano ai loro figli, ai loro mariti.
- Venderai quanto possedi, e lo darai ai poveri.
- Non ho d'uopo di vendere nulla, e farò qualche cosa meglio che dar i miei beni ai poveri. Li metto nella borsa comune, Rabbì, e vi si troverà sempre qualche cosa quand'anche gli altri non vi mettessero nulla78.
- D'onde vieni, tu?
- Donde vengo? Arrivo da Makaur, Rabbì, ed ho veduto la testa del Battista servita sopra un piatto alla festa anniversario della nascita di Antipas.
- L'hanno dunque ucciso? gridò Gesù vivamente colpito.
- Per piacere ad una giovinetta, che ha danzato un passo voluttuoso.
Gesù si tacque, e restò concentrato per alcuni istanti, poi sclamò:
- Ch'egli abbia la pace nel cielo! Iohanan era un giusto.
- Questa mattina, o Rabbì, ho lasciato la Casa Dorata di Tiberiade. Ci sarai forse invitato domani.
Gesù fece bruscamente alcuni passi verso la porta del giardino. Poi si fermò come vergognoso del suo istinto alla fuga, ed affermò:
- Non vi andrò.
- V'hanno, o Rabbì, degli inviti che rassomigliano ad ingiunzioni. Se tu non ci vai, ti faranno prendere.
- Allora che la volontà di mio padre sia fatta. Seguì un istante di silenzio. Io ripresi:
- Rabbì, Maria m'ha assicurato che tu sei uscito poco al di fuori del raggio di questo bel lago; che al più al più sei andato fino a Tiro ed a Sidone; che non hai mai posto piede in una città greca o romana. Non l'avevo creduto. Ma mi sento disposto a crederlo, vedendo la tua rassegnazione.
- E perchè?
- Tu non conosci il mondo. Gli è proprio qui soltanto che tu vuoi, o Rabbì, restringere e seppellire la tua missione? Hai mal scelto il tuo teatro. Pochi mesi fa, sei quasi stato sul punto di essere precipitato dall'alto d'una roccia, a Nazareth, per esserti dichiarato l'unto del Signore; oggi ti avrebbero lapidato se non avessero riso, perchè ti sei spacciato come il pane della vita. Tu sei in mezzo ad un popolo che aspetta dei fatti, e tu gli annunzi delle verità. Essi domandano di vedere, tu imponi loro di credere.
- Credere, è vedere dell'anima.
- Il popolo non ha anima. L'anima si forma; ed esso non ha il tempo di formarla. Tutt'al più il popolo ha un cuore, per balzi.
- Ecco la mia missione: io porto un'anima a questo popolo.
- L'è molto bella; ma tu non hai ancora sballata la tua mercanzia, ed io credo che questo non sia il mercato conveniente per metterla a partito. La Galilea non è il tuo forum, la tua sinagoga, il tuo tempio, come meglio t'aggrada. La Galilea è il giardino della Siria, un pezzo d'Italia sotto il cielo dell'Asia. Al mormorio delle sue dolci acque, all'ombra dei cedri del suo Hermon, delle quercie del suo Carmelo, delle palme dei suoi colli coperti di mirti, di vigne e di aranci; alle attrattive di questa natura che ricorda le rive del Nilo e di Damasco, si ama, o Rabbì, ma non si crede. Qui, i Romani hanno tracciato le loro strade della Campania; i Greci e gli Egiziani, i larghi sentieri a cammelli di Memfi. Questo angolo della terra racchiude i più bei paesaggi che l'est e l'ovest svolgano con incanto.
- Tu credi?
- Quando gli uomini79 del mare abbatterono Tiro e Sidon, onde sopra onde di Cipriotti, d'Egiziani, di Macedoni, d'Italiani e di Arabi, da quelle piaggie conquise si sparsero sopra questa provincia, parlando diversi idiomi, vestendo costumi proprii, adorando dei particolari, trascinando con loro nelle città ch'essi avevano fatto sbucar dalla terra, le loro ricchezze, le loro credenze, le loro arti, la loro scienza. La casa ebbe una famiglia, cui il Giudeo ritiene come impura, il tempio ebbe un Dio, cui il Giudeo ritiene come un demone.
- Sì, si confusero insieme, ma non si mischiarono.
- Cosa importa, Rabbì? Il coltivatore cananeo, il vignajuolo giudeo, hanno essi potuto far a meno di frequentare per forza l'artigiano, il commerciante che discendevano forse da quei principi di Tiro e di Sidon cui Alessandro e Pompeo rigettarono dal mare nel centro di queste montagne, o che vennero d'Antiochia, d'Alessandria o da Roma? Nelle città della costa, Tolemaide e Tiro, nelle città forti dell'interno, Sephoris e Gadara, si accumularono gli artisti, gli operai in oro e marmo, i rettori, i pittori, gli oratori, le danzatrici, i poeti lubrici, i professori di tutte le arti, i propagatori di tutti i vizii venuti dalla Grecia, i legionarii, gli avvocati, i gladiatori, le cortigiane, i cocchieri, i procuratori, la polizia... un mondo intero distillato dalle cloache della Gallia, della Spagna e dell'Italia. Ma i figli di Esaù, che vivono sotto le loro nere tende del deserto, e sopra le rudi e nude montagne al sud del Giordano, possono essi far a meno d'incontrarsi, d'intravedersi, di odiarsi anche, se il vuoi? I rivali di questo suolo non si uniscono guari in matrimonio, non vivono nelle istesse città, si evitano il più che possono; ma c'è' una corrente che va dagli uni agli altri: c'è un sentimento che non conosce ostacolo, che si slancia dalla tenda dell'Arabo, che passa sulle città murate del Greco, che invade le città aperte del Giudeo, e la capanna del Siriaco - l'odio - e questo legame comune è indissolubile.
- Sì, poichè essi non hanno ancora udito la grande parola che io loro reco: la fratellanza.
- La fratellanza tra la tigre ed il lepre? Rabbì, ciò che la magia dell'arte greca non ha ancor fatto, ciò che la potenza di Roma non ha ancor ottenuto, là dove la grande personalità del re Erode ha naufragato, nessuno riescirà. Nessuno, nè un Samuele, nè un Elia, nè tu, nè Dio stesso. L'argilla di cui l'uomo è impastato, è eterna ed invariabile. L'ebreo e questi stranieri sono separati da una maledizione irrevocabile: l'impurità. Il giudeo è una anomalia nella società umana. Egli non può avere nulla di comune collo straniero; non può toccar nulla di ciò che lo straniero ha toccato; non può bere all'istessa tazza, sedere alla stessa tavola, dormire nella stessa città, passare la soglia dell'istessa casa che il Greco o il Latino passarono. Lo spirito cupo ed insocievole dell'Ebreo non si rischiara all'attrazione raggiante dei popoli europei. La legge ebrea è inesorabile.
- Io vengo per cangiar codesta legge, rispose Gesù con tuono ispirato. Io vengo a cominciare un'altra êra del popolo di Dio. Noi non imiteremo più degli antenati, di cui non dobbiamo che arrossire. Noi non riconosceremo più come padre quell'infame Abramo, che obbliga Sara sua moglie a provvedere il suo letto di concubine, e che la prostituisce per danari ai re Abimelech e Faraone, facendola credere sua sorella. Noi rinneghiamo quell'infame Loth, che dorme colle sue figlie al chiarore di Sodoma bruciante ancora; quell'infame Isacco che trafficò di sua moglie Rebecca e visse di questa prostituzione; quel dissoluto Giacobbe che passa da Rachele a Lia, dalle due sorelle alle loro schiave, l'istesso giorno, l'istessa notte, lordando la religione del matrimonio. Il padre di Giuda, che ebbe un commercio vergognoso con Tamar, vedova dei suoi due figli, la quale si mascherava sotto il vestito delle prostitute e che quel patriarca frequentava, ci fa orrore. Noi ci vergogniamo di Davide che fece uccidere il suo ufficiale Uria per prendergli la moglie, avendone già tante altre; di Salomone che sposa trecento donne, avendo già settecento concubine e delle innumerevoli figlie di re; di quell'Osea, primo fra i profeti, che ebbe dei figli da una donna pubblica, e la rinnegò; di quel traditore Geremia, che profetizzava in favore di Nabuchadnezzar; d'Isaia che passeggiò nudo in mezzo a Gerusalemme; di quell'Ezechiele a cui Dio ordinò delle cose così immonde, e che lo fece parlare così impudicamente. Noi veniamo a rovesciare le leggi di quel Mosè che commise un omicidio, fu ladro in Egitto, ebbe diverse mogli, e fece delle azioni inique. Io porto un nuovo codice che non ha che un precetto: gli uomini sono fratelli.
- Non si tratta punto della tua dottrina, o Rabbì. Che monta che tu abbi del grano d'Egitto, se lo semini sulle roccie di Moab? Sopra un suolo ove sono passate dodici generazioni, vicine le une alle altre senza darsi la mano, senza scambiare la parola del viaggiatore, la fratellanza è una burla, se pure si arrivasse a comprenderla. La Galilea è la terra dei messia, perchè questo popolo attende un vendicatore. Il messia è un generale che giunge dal cielo per condurli alla vittoria con meno fatica; la vittoria è l'espulsione dello straniero. Ecco il messia che la Galilea saluterà con entusiasmo, e seguirà con fede. Ma, d'altra banda, qual'è la sorte che i minacciati preparano a codesti portatori della collera divina?
- Ahimè! terribile.
- Sì, o Rabbì, i messia non ci sono mai mancati. Sakya-Muni, Hillel il babilonese, ebbero la scienza. Erode, Giuda il figlio di Ezechia, Simon lo schiavo, Athrongeus il sacerdote ed i suoi quattro fratelli, Theudas, Giuda di Gamala ed i suoi figli Simone e Giacomo ebbero la spada. Ma essi apparirono e passarono. Gli Ebrei non compresero Erode e la sua missione di fusione, che tu chiami fratellanza. Al di là del deserto, presso Gerico, Gratus schiacciò ed uccise Simone che aveva bruciato i palazzi d'Erode a Gerico e nei suoi dintorni, Theudas che bruciò il palazzo del re ad Amathus ed a Betharemphta presso il Giordano, e Athrongeus che si era incoronato80. Là in faccia a noi si rizzò come gigante quel nobile Giuda di Gamala. Devoto alla legge orale, e' predicò la libertà nazionale, l'eguaglianza degli uomini, e che non vi doveva essere nè re nè padroni del mondo all'infuori di Dio. Lo si credette come un profeta, lo si seguì come i fratelli Maccabei. Insegnò il disprezzo della morte, e sancì le sue parole con un sublime eroismo, combattendo. Giuda tuonò contro le imposte esatte dai romani, ordinò al popolo di rifiutarle e di resistere. Il popolo minuto gli si strinse intorno. Un nobile fariseo, Sadok, gli si unì nella missione. Da ogni parte il popolo si sollevò. Cirenius andò incontro a loro, li battè, li schiacciò, mise in croce Giuda e Sadok. Cirenius credette di aver trionfato. Pilato doveva imparare a sue spese che quel trionfo non era stato completo, poichè Giacomo e Simone, figli del martire, non rinunziarono all'opera del loro padre. Giuda lasciò dietro a sè una setta: gli Zeloti; un testamento; mai tregua ai romani! o Rabbì, il popolo attende ancora il suo liberatore.
- È arrivato.
- Se è arrivato, egli comprenda che il suo assunto è terribile, e che il suo posto non è nella Galilea.
Questo suolo è fatale. Jeri periva il Battista; domani perirai forse tu pure, o Rabbì. L'inimico qui è potente; e quand'anco si giungesse a vincerlo, niente è fatto fino a che resta a Gerusalemme. Gli è di là che deve venire il colpo: gli è là che lo si deve portare.
- Gerusalemme divora i profeti.
- Sì, i profeti che piagnuccolano, non quelli che agiscono. Certo, a Gerusalemme il successo è più difficile, il pericolo più grande: perocchè là bisogna contare forse più con i partiti che con i soldati. Ora i partiti sono trincierati dietro a palizzate di bronzo. Bisogna intendersi con loro; bisogna cercare il punto comune di contatto. Esiste esso codesto punto? I Maccabei hanno franto l'antico mondo giudeo; ma essi trovarono aperta la breccia. La breccia era stata fatta a Babilonia. Il povero, incolto e primitivo Giudeo era stato abbagliato in una città, ove l'arte, la ricchezza, il lusso, l'attività, ed il piacere prendevano le sembianze di meraviglie. La loro dottrina mosaica fu scossa da quella di Zoroastro. Due generazioni, che vissero in Babilonia, consideravano ormai la Giudea come una terra di condanna - le classi ricche, le nobili ed istrutte principalmente; giacchè esse erano più al caso di comprendere quelle arti e quella scienza, di godere di quegli splendori. I vecchi libri, la vecchia lingua di Mosè furono dimenticati. Un nuovo partito si formò nella vecchia massa; i Sadducei restarono fedeli, a lor modo, all'ebraismo; i Farisei proclamarono la necessità della riforma. Tutti ritornarono dall'esilio, con Babilonia nel cuore.
- Ecco il fallo.
- Ecco, io credo invece, il progresso. In ogni caso i Sadducei, invaghiti più degli altri di quella civiltà piena di lusso, cercavano di farsi perdonare i loro gusti con una apparenza di più stretto attaccamento al vecchio patto di Mosè; i Farisei, che vedevano la breccia praticata nelle antiche leggi dal contatto dei Caldei, tentarono di legalizzarla e ristringerla, proclamando, come altrettanto sacra, la tradizione degli anziani, detta legge orale81. La civiltà caldea importata da quelli che ritornavano da Babilonia s'incontrava con quella che la Grecia aveva soffiata sulle coste di Tiro, di Sidon, di Gaza, di Joppa, o che veniva da Cipro e d'Antiochia. Questa trionfò.
- Ecco la disgrazia.
- No, Rabbì, ecco ancora il progresso. Era però naturale, che quando i Maccabei infransero la potenza macedone, succedesse una reazione. Essi erano stati aiutati nella guerra dai separatisti, che si chiamavano Farisei; questi presero il potere e dettarono la legge. I Sadducei che accettavano tutte le forme esteriori della vita, tutte le trasformazioni della coscienza, ma lasciavano intatta la legge nel tabernacolo, furono messi da parte, come gente strana nei costumi, retriva nello spirito.
- A che setta appartieni tu dunque?
- Alla sadducea.... ed a nessuna. Il gran collegio decise che la legge orale era eguale al patto di Mosè. Da allora quella legge divenne formidabile. Mentre però essa era obbligatoria, mentre discendeva a regolare fino le più piccole azioni dell'uomo, fino alla maniera in cui doveva tener le sue mani, ed a quale temperatura poteva riscaldar l'acqua, era proibito l'insegnarla, e la lettura non ne era permessa che ad uno scarso numero di privilegiati. Gli Ebrei dopo questo nuovo codice divennero un popolo di macchine: l'iniziativa, la libertà, lo spirito furono inutili, furono anzi un delitto. Le più stolide scempiaggini divennero un dovere e furono sacre. La legge di Mosè faceva dal popolo ebreo il primogenito dei popoli; la legge orale ne fece un idiota presuntuoso e barbaro, che respinge la luce, la scienza, la socievolezza, la fratellanza degli uomini.
- So tutto ciò; ecco perchè io condanno i Farisei ed i Sadducei.
- E gli Esseniani?
- Sono fanatici che cangiano, esagerandolo, il bene in male. Io li condanno anch'essi82.
- Ebbene, o Rabbì, hai torto di condannarli. Il tuo compito è di conciliare. La separazione uccide la nazione ebrea. Occorre trovare il punto di contatto, il terreno neutro ove tutti i partiti possano darsi la mano, lasciando ad ognuno il movimento libero nel suo proprio cerchio.
- Questo terreno esiste forse?
- Esiste. Gli è l'odio di tutti e di ciascuno contro lo straniero.
- L'odio! sempre l'odio! gridò Gesù dolorosamente. Ed io che sognava di fare dell'amore il codice del mondo.
- Rabbì, hai detto il vero quando dicesti che sognavi. L'amore uccide, Rabbì. È questa roccia dell'odio, è questo amore in rivolta che dà al mondo la energia e la varietà. Dio scacciò Adamo dall'Eden perchè vide la sua creazione in pericolo di sciogliersi; come una perla di neve al sole, in quell'interminabile assopimento dell'amore. Non cercare di renderci tollerabili i nostri oppressori. Tutte le nostre dissonanze si mettono all'unissono in questo grido di esecrazione. Ciò che ci occorre, Rabbì, gli è che Dio pure entri nella partita, e che l'uomo che si dice il suo profeta, il suo messia, od il suo figlio, getti l'istesso grido in nome di Dio.
- Dio anch'egli si metterebbe dalla parte della distruzione? sclamò Gesù commosso.
- Rabbì, ascoltami con attenzione, poichè il caso m'ha posto sulla tua via, e che abbiamo toccato un così grave soggetto. Tu ti sei dato a Nazareth per il Messia che ogni Giudeo accarezza nel suo cuore; e qui, questa mane, per il figlio stesso di Dio. A Nazareth hai eccitato la collera; qui, l'ilarità. Questo angolo del mondo che tu avevi scelto per i tuoi traffichi di divinità è stato da prima mal scelto, ed alla prova, esso ha respinto i tuoi tentativi. Ti è impossibile continuare la tua missione nella Galilea. Soccomberesti, o cadresti al livello di quei fascinatori di serpenti e venditori d'impiastri che servono di distrazione nelle strade. La Galilea attende qualche cos'altro, e gli stranieri che vi sono in gran numero, e potenti, non ischerzano coi messia. La sorte del Battista ti dice abbastanza quella che ti riserva la Casa Dorata, e ciò che nasconde l'invito che sei per ricevere. Occorre dunque lasciare la Galilea, o ritornare modestamente, dopo esserti proclamato figlio di Dio, e non so che altro, a fare delle casse, e allestire dei burchielli. Ti convien essa, codesta caduta, che ti farebbe correr dietro tutti biricchini delle strade? Dopo aver sognato qualche cosa di più grande d'un grande sacerdote, di più potente del re Erode stesso; dopo esserti librato coll'aspirazione al disopra di tutto il paese d'Israello; dopo aver attaccato i Farisei, i Sadducei, i ricchi, i principi ed i sacerdoti; dopo esserti proclamato successore dei profeti del popolo di Dio; dopo aver veduto, nelle estasi delle tue notti insonni, i popoli prosternati ai tuoi piedi, dimmi, o Rabbì, ti convien forse di ritornare alla tua bottega, alle tue tavole, alla tua pialla? E i miracoli che hai fatti? e la parola che hai annunziata come la verità? Ed i discepoli che ti hanno seguito come la face del loro spirito? E quei potenti della terra che ti hanno temuto come un riparatore? E i meschini che avevano posto in te la loro fede, in te, voce d'amore, d'eguaglianza e di carità? Tutto ciò non sarebbe stata che una ciurmeria d'un ciarlatano? Rabbì, ciò è impossibile. Ucciditi, ucciditi piuttosto, ma non cadere. Io te l'ordino in nome della dignità umana.
- Non hai duopo di simili intimazioni.
- Tanto meglio, maestro, tanto meglio; poichè nessuno più di te ha elementi così scelti, così completi, per avere una gran parte in questo mondo. Il mondo, maestro, appartiene ai sognatori perseveranti. Ebbene, lasciando la Galilea, non puoi venire che a Gerusalemme. Se Gerusalemme ti adotta, come adottò Giuda Maccabeo, e' non ci sarà gloria al disopra della tua. Tu passi per figlio di Dio che libera per la terza volta il suo popolo. A Gerusalemme i tuoi nemici sono i partiti. Essi saranno tutti contro di te, se ti proclami un partito. Tu devi invece innalzarti al disopra di tutti: e trar profitto delle loro comuni passioni. Se tu prendi questo posto, tutti cadranno d'accordo per ammetterti come figlio di Dio; perocchè quegli orgogliosi non si rassegnano a sottomettersi che a Dio. Il sagan, il gran sacerdote, il gran collegio, il sanhedrin83, le sinagoghe, i Sadducei, i Farisei, gli Esseniani, i Betusiani, gli Erodiani, i Zeloti, tutti crederanno di non abdicare, piegandosi dinanzi la parola che in nome di Dio dirà loro: la vostra patria vi appartiene! Allora i miracoli, sotto la tua mano, si faranno da sè stessi. Il tempio s'aprirà dinanzi a te, come dinanzi l'arca del Signore. Le tue vie saranno coperte di rose; i tuoi giorni un inno continuo; le tue notti una danza d'astri, che risuoneranno del tuo nome come del nome di Dio. Dimmi ora, o Rabbì, di', vuoi tu venire a Gerusalemme?
- Verrò, rispose Gesù con accento profondo e commosso; sì, verrò.
- Ne sono felice, o Rabbì. Ma ricordati che in Gerusalemme non c'è altro posto per te, che o il palazzo di Davide, od il Calvario.
- Che la volontà di Dio si compia!
Uscii.
Ogni altra parola sarebbe stata inutile, inopportuna od imprudente. Traversando la parte anteriore del giardino, incontrai Maria. Ella ci aveva lasciati tranquilli, ma aveva compreso l'importanza del lungo nostro colloquio. Ella conosceva lo scopo della mia vita. Maria mi fermò, e gettandomi le braccia al collo, sclamò con un accento pieno di disperazione:
- Oh! Giuda, non rapirmelo; io l'amo.
Fui tocco da questa parola sfuggita da quel cuore in tumulto, e le risposi baciandola sulla fronte:
- Cara Maria, hai ben ragione. Un cuore come il tuo è degno di quell'amore.
All'indomani, colmo di regali per le mie sorelle lasciai Tiberiade. Antipas convinto che io agiva per lui, mi aprì le casse del suo tesoro, e promise di venire a Gerusalemme pel paschah. Erodiade mi disse:
- Giuda, tutto ciò che una donna possiede, tutto ciò che una principessa può.... disponi di tutto, e rialziamo questa grande casa di Erode che il destino dirupa.
XVII
Io aveva lasciato Tiberiade con l'intenzione di recarmi a Sephoris, per vedere i tre figli di Giuda di Gamala. Un incidente mi fece cangiare di piano. Venni ad urtare in uno di quei piccoli nulla che decidono sempre dei grandi avvenimenti, e che doveva avere una così grande importanza nell'insurrezione del popolo ebreo che io mi ordiva.
Io aveva osservato l'invincibile ripulsione, l'orrore che la voce e la vista di Gesù Bar Abbas svegliavano in Gesù da Nazareth. Camminando all'indomani sulle rive del lago, gli chiesi:
- A proposito, potresti tu dirmi per quale causa il Rabbì di Nazareth ha per te una così profonda antipatia?
- Sei ben curioso, per esempio!
- No. Soltanto, ora ho il dovere di conoscere il più che posso di quell'uomo, onde afferrarne l'intera fisonomia, sotto tutti i rapporti. È altrettanto difficile di penetrare direttamente in queste nature mistiche, che agognano alla consustanzialità con Dio, che di penetrare nei segreti dell'Etna. È mestieri quindi metterli in camicia, a loro insaputa.
- Hai dunque definitivamente fissato le tue viste su quel Rabbì?
- Definitivamente? No. Ma egli ha delle attitudini, dei tratti, che ben diretti, potrebbero farne un porta voce ed un porta bandiera abbastanza conveniente.
- Per me ho contro codestui le istesse prevenzioni che avevo contro il Battista, di cui fortunatamente siamo sbarazzati.
- Che prevenzioni?
- Il Rabbì di Nazareth giuocherà la partita per suo proprio conto servendosi dei nostri dadi puntati - se pure giuoca il nostro giuoco. Ma non darà nella trappola. È così dolce l'essere adorato come figlio di Dio, grattandosi.... le chiappe, raccontando delle storielle morali, e, nell'ozio, dando alle donne isteriche delle pillole per far loro vomitare il diavolo. Codesti biascicatori di frasi vuote, cui nessuno comprende - neppur chi le fabbrica - non arrischiano certo la loro pelle ben grassa, per demolire dei Cesari. Demolire dei Cesari! Mille pesti! bisogna avere più di pelo nel cuore che sulle labbra o sul mento. Vogliamo altra cosa, noi: un messia corazzato.
- Tutto ciò è stato detto, e ripetendolo tu vuoi sfuggire di rispondere alla mia domanda.
- Io non cerco mai di sfuggire, quando ci sono dei colpi da ricevere, o delle vergogne da vantarsi. Io metto al sole le mie piaghe con voluttà - per nauseare coloro che me le hanno prodotte.
- Cospetto! tu m'intenerisci. Saresti tu convertito al regno di Dio, di tuo nipote? T'avrebbe egli promesso un posto in quel regno?
- Avrei preferito che mi avesse dato un posto alla sua scodella, se ne avesse una di ben provveduta. Ma ecco la ragione del nostro disgusto, quella che sembrami probabile almeno, perocchè non so proprio bene perchè egli mi glorifichi sempre del nome d'infame, ogni qual volta mi trova sulla sua strada. Infame! Cosa diavolo vuol dire? Credo che derivi dal latino in fame, o da qualcosa che significa aver sempre fame. Ebbene, a mia fe', bimbo mio, tu hai doppiamente ragione: ho sempre fame io.
- Sei sapiente come Gamaliele figlio di Simone. La tua spiegazione dell'infame è ammirabile. Ma principia un po' questa tua storia.
- Eccola qui in due parole. Io aveva reso un servizio al comandante della quarta legione in Germania; uno di quei servigi che si dimenticano raramente. Ritornato dalla guerra povero come un lebbroso, divenendo di giorno in giorno sempre più mariuolo a Gerusalemme, avevo inteso dire che questo Claudio Pellas, il comandante della quarta, essendosi disgustato con Augusto, era stato esiliato nella Golonitide, e aveva ottenuto di vivere nella Galilea. Gli è quello stesso che ha fatto regalo della loro sinagoga ai marinai di Cafarnaum. Decisi di andarlo a vedere. Vi fui infatti e lo trovai in quel bel villaggio di Nazareth, circondato dalle cure d'una donna eccellente, maritata ad un falegname chiamato Giuseppe. Il mio Romano mi ricevette come un Parto. «Chi sei tu? io non ti conosco, va all'inferno e lasciami in pace.» Lo lasciai in pace, e per sopramercato perdetti la mia, poichè presi moglie. Visitando quel caro Pellas incontrai una vedova, sorella del carpentiere, che possedeva un pezzo di terra presso Betlemme. Sposai la terra, la vedova, ed il suo cattivo temperamento.
- Le vedove hanno sempre torto. Non c'è questione.
- Eppure la mia, posseduta da cinque o sei dozzine di legioni di diavoli, voleva sempre aver ragione. «Gesù, non bere. Gesù, non giuocare. Gesù, non aver sempre delle brighe con tutto il mondo, Gesù, non far la corte alle femmine delle strade. Gesù lavora.» Lavora sopratutto! Era la sua manìa! Lavora! lavora! Come se la fosse stata una festa quel rabberciare dalla mattina alla sera delle ciabatte, e il giorno dopo ricominciare, e ricominciare sempre per settimane e mesi! Mille fulmini di fulmini! Maneggiare la lesina dopo aver maneggiato la lancia e la spada! coprirsi il petto d'un grembiale di pelle di becco, dopo averlo avuto coperto di una corazza d'acciaio! tagliarsi le dita con un trincetto, dopo aver ricevuto delle ferite, e dei colpi di daga alla guerra! Ah! vecchia carogna! va, va, non mi dirai più lavora, lavora....
- È morta dunque?
- Sì, Dio mercè, è morta. Insomma, come vedi, quella donna rabbiosa ed io, vivevamo molto male insieme. La mi aveva nondimeno acchiappato un bamboccio, nella ubbriachezza, in una di quelle notti d'inverno in cui, a mancanza di meglio, la moglie ti serve di stufa. Quel marmocchio era grazioso: non mi rassomigliava punto. A due anni, beveva già del vino, rosicava dei peperuoli intossicati, e mordeva sua madre. Mia moglie era sempre stata malaticcia. Non si pensa ella ora di cadere proprio ammalata? Era cardatrice di mestiere. Obbligata di porsi a letto, fece venire una figlia di suo fratello per assisterla, ed attendere al bimbo. Un giorno, infatti, o meglio una sera, rientrando, trovo una ragazza buona a portare un marito, ed un amante per soprassello, la quale mi accosta timidamente, e mi prodiga dei «barba mio» ad ogni motto. Non osservai punto quella tosa. Ho saputo di poi che il mondo la trovava bella.
- Non la vedesti dunque?
- Io la vidi al contrario, per un anno o due, ma non la guardai mai. Quell'oggetto delicato, bianco, diafano, sfuggiva al mio sguardo abituato ai grossi selvaggiumi notturni. Per finirla, mia moglie morì. e mi lasciò sulle spalle il marmocchio coll'appendice di quella ragazza di cui io non sapeva che farmi. Una circostanza mi cavò d'imbarazzo, e mi porse il modo d'utilizzarla.
- Hai così poca immaginazione tu, di non trovare un mezzo d'utilizzare una fanciulla?
- Non ridere, Giuda: n'ebbi ripugnanza. Vi sono dei pregiudizii che si piantano nell'animo come degli uncini di ferro, e si ha un bel fare, non s'arriva a svellerli. La mia piccola, che come sua madre si chiamava Mirjam, andava tutte le sere a cercar l'acqua alla fontana del Dragone in una giara che portava sulla sua spalla dritta. Pare che fosse incontrata da qualcuno che, trovatala di suo genio, la seguì fino alla mia abitazione e s'informò di lei e di me.
- Sono sicuro che gli si diedero sopra di te delle informazioni rassicuranti e lusinghiere.
- Così lusinghiere e rassicuranti, ti dico, che un giorno.... tu conosci, credo, Cneus Priscus?
- Se lo conosco!
- Ebbene, quell'orso mal leccato m'incontrò un giorno come per caso, e facendomi l'onore di considerarmi come un vecchio legionario romano, m'invitò - all'occorrenza dell'anniversario d'una battaglia perduta da Tiberio cui si festeggiava come se fosse stata vinta - a venire ad un banchetto della sua centuria.
- Non si rifiuta di bere alla salute di Cesare, che diamine!
- È precisamente quello che io dissi a me stesso. Ci vado. Si parla. Si vi riscalda; s'alterca; corrono parole grosse come la torre di Davide, e dei colpi di daga da calibro. E quelli che restano divengono amici. È la storia dei mio banchetto. Abbrevio.
- Non abbadarci, va sempre avanti.
- Dopo delle circonlocuzioni assai goffe, Cneus Priscus mi disse che il comandante di non so qual legione era innamorato cotto di mia nipote. Io era già mezzo brillo a forza di vecchio Chios; nondimeno l'idea di fare una buona speculazione di quel pezzo di carne senza sangue, mi balenò subito dinanzi agli occhi. - Mia nipote si vende e non si dà, risposi io sentenziosamente alla maniera del vecchio Hillel. - E chi ti ha mai detto, brutto muso, che la si volesse gratis, tua nipote? A quanto la libbra la vendi tu? - Io la valuto all'ingrosso. - Quanto? - Ne domando diecimila sesterzii.... - Te ne spippolo quindicimila. Vuoi tu giuocarli adesso, e guadagnarne tre o quattro volte tanto, comperarti una bottega di manichi da coltello e finire la tua vecchiaia in mezzo ai corni di bove e di montone? - Io ti giuoco l'anima, se ne hai una, e se vuoi arrischiarla, per farne delle suole a sandali da prete. - Avanti dunque, ma ai dadi, sai. - Eccoli, guardali. - Sta bene, ma il denaro? - Non mi devi tu quindicimila sesterzii? - E tu, non mi sei tu debitore di tua nipote? - Prendila dunque: o vuoi che te l'imballi con della paglia? - Va bene allora. Andrò a cercarla. Soltanto bisogna andar d'accordo in talune precauzioni. - Quali? - Verrò domani sera a mezzanotte, e avrò una lettiga per riporvela convenientemente. - Abbi tutto quello che vuoi. - Griderà forse? - Ciò ti risguarda. Io ti apro la porta; ti conduco nella sua stanza; tu mi dai il denaro.... e che il diavolo ti porti. - Ci mettiamo a giuocare. Guadagno cinquemila sesterzii. - Ti devo ventimila sesterzii, camerata, disse Cneus Priscus; a domani sera.
- E venne?
- Se venne! esatto come il gnomo del monumento d'Hircanus. A mezzanotte una lettiga portata da quattro schiavi neri si fermò dinanzi la mia porta. Cneus mi rimise una borsa col denaro: ventimila sesterzii! Mentre io li contava, egli entrò nella camera ove Mirjam dormiva col bimbo nelle braccia. Si gettò il bertuccino da una parte, s'inviluppò la testa della ragazza in non so cosa, una coperta credo, la si tolse su come una piuma, e due minuti dopo era sparita. Se il marmocchio non avesse gridato, nulla avrebbe interrotto il silenzio imponente della notte.
- E non sai cosa ne è avvenuto di poi?
- Sono due anni che non ho più inteso parlarne. Ella si è ecclissata, se però è tuttora di questo mondo.
- Ed è il comandante d'una legione romana che te l'ha pagata?
- Codesta l'è un'altra faccenda. Io credetti riconoscere quegli schiavi neri....
- I negri si rassomigliano tutti.
- Ecco precisamente ciò che mi sono poi detto a me stesso.
- Davvero, Gesù, tu hai commesso là una ben infame cosa, poichè l'infamia ti stuzzica.
- Tu parli come gli sciocchi. Vediamo un po'. Un uomo che paga quindicimila sesterzii, - e Cneus me ne ha rubati per certo altrettanti, - un uomo che compera questa leccornia al prezzo con cui avrebbe comperato uno storione del Tirreno, non è certo per ucciderla. Gli è dunque perchè egli ne è stupidamente innamorato. Ora cosa si fa delle donne che si amano? Si diviene loro schiavi. Ebbene! semplicione, cosa poteva sperare quella povera mendicante di mia nipote? Tutt'al più di sposare un vignaiuolo del suo paese. Il bel negozio! io ne ho fatto una piccola regina; io amo la mia famiglia, io, e lavoro alla sua grandezza, al suo splendore.
- Pare, per altro, che gli altri non prendano la cosa da questo magnanimo punto di vista.
- Lo so bene! quel piccolo rozzo carpentiere mio nipote avrebbe forse preferito, lui, di vedere sua sorella serva d'un cammelliere. Dappoichè io suppongo che la piccina ha dovuto scrivere ed informare sua madre della sua posizione, e che il piccolo Gesù ne sa sul proposito più di me. La prima volta che mi vide, mi prese pel collo gridando: «Infame, cos'hai fatto di mia sorella?» e di poi, tutte le volte che mi incontro con lui, mi accoppa sempre di questa ingiuria. «Cosa hai fatto di mia sorella!» Imbecille! o che ne so nulla io?
Questo racconto mi gittò in un inatteso ordine d'idee. La vista di Bar Abbas essendomi divenuta insopportabile, lo inviai solo a Sephoris, ed io presi la via di Gerico e di Betlemme.
O che ne so nulla io? aveva detto Bar Abbas.
- Sono sulle traccie, dissi a me stesso.
Tre giorni dopo, a mezzogiorno, mi presentai alla porta della casa solitaria di Berachah, la valle della Benedizione, risoluto questa volta d'entrarvi ad ogni costo, e di vedere la vedova di Cajus Crispus, la quale doveva probabilmente sapere qualche cosa di Mirjam, amante d'un camerata di suo marito, sorella del Rabbì di Nazareth.
Il mio ad ogni costo fu inutile. Trovai Moab sulla porta semi aperta, che si arrostiva le gambe al sole. La vista di Moab mi richiamò alla memoria la donna del circo, ed il caos per un istante dominò il mio spirito.
Moab era ancora un cotal po' convalescente delle sue ferite. Tuttavia e' mi parve meno impensierito di esse che affetto di profonda tristezza. Aveva l'aria abbattuta, scoraggiata, sudando lagrime da tutta la persona.
- Oh! come sono felice di vederti, Moab, sclamai fermando il mio cavallo e smontando onde esprimergli la mia gioia più da vicino. Tu risusciti, ragazzo mio. Oh come sei bravo, bravo, bravo! Cento come te, e Pilato andrebbe a remigare sur una barca del Tevere! Come stai? Dove sei stato fino ad ora? Non sai, il tuo capo, il Battista, è stato servito alla tavola di Antipas a Makaur come l'agnello del paschah.
- Si tratta bene di lui, si tratta.... gridò Moab sospirando.
- Ma che hai dunque, amico mio? posso io fare qualcosa per te? Non far complimenti, sai. A proposito, Moab, poichè sono qui, bisogna che ringrazii il padrone di questa casa, che dodici giorni fa mi ha dato ricovero una notte in tempesta.
- Non c'è padrone qui, disse Moab con aria ruvida.
- In somma, vi è qualcuno.
- C'è una padrona: ma tu non puoi vederla.
- E perchè? Divoro forse le donne io? o sono un così spaventoso spauracchio da farle partorire se sono incinte, o un brigante da rapirle se sono vergini?
- No, ma essa non riceve in questo momento.
- Aspetterò riposandomi, perchè, amico mio, io vengo da lontano.
- Non è questione d'ore. La mia padrona è stata colpita da una disgrazia e muore di dolore.
- Diamine! ragione di più per presentarmi; un po' di distrazione la solleverà forse dalla sua tristezza.
- To'! difatti, potresti aver ragione. Ma non so se codesta distrazione le possa andar a genio.
- È giovine la tua padrona? E cosa intendi con questa tua «padrona» anzitutto? Sai che....
- Io sono il suo cane, il cane di questa bella e nobile donna.
- Alla buon'ora! Ebbene, Moab, puoi lasciarmi passare. Una vecchia ti sgriderebbe forse; una giovine, essa pure, se io fossi un vecchio savio, noioso, e di quelli che si mischiano di dar consigli. Io invece ti prometto di ridere.
- Oh! se tu potessi darle un po' di gaiezza, Giuda!
- Proviamo, Moab, proviamo.
Entrai. E per paura che Moab si pentisse, gli lasciai nelle mani le briglie del mio cavallo ed in due salti mi trovai sotto il piccolo portico davanti la porta della casa. Non c'era nessuno. Vado avanti, e fo' un po' di strepito. Finalmente scorgo una giovine schiava che mi viene incontro, tutta attonita di vedermi colà.
- Introducimi dalla tua padrona.
- Ma chi sei tu, o straniero?
- La tua padrona lo sa. Precedimi a lei dinanzi.
Noah non replicò, traversò una corte scoperta interna, che i Romani chiamano cavædium; entrò nel tablinum ove si ricevono gli ospiti, aprì una porta invetriata nel fondo di questa stanza, sotto un piccolo portico che conduceva alla parte posteriore del giardino, e mi additò la sua padrona.
Io aveva seguito Noah senza aprir bocca.
- Padrona, disse la giovane, uno straniero che dice esser da te conosciuto, domanda vederti.
- Non ho detto conosciuto, ragazza mia. Ti ho detto: La tua padrona lo sa - supponendo che questa nobile signora fosse stata informata dai suoi schiavi, che una notte, circa dodici giorni fa, un viaggiatore chiese un ricovero dal temporale, e che la porta di questa casa si aperse alla sua preghiera. Quel viaggiatore, nobile dama, sono io, che vengo a porgertene i ringraziamenti.
Queste frasi, cui scrivo qui correntemente ora, ebbero pena a formarsi allora nel mio cervello e ad uscire dalla mia bocca. Io era sbalordito. Aveva dinanzi a me quella donna del circo, che da un mese dominava i miei pensieri, riempiendo i miei sogni, spronando i moti del mio cuore. La mia sorpresa raddoppiò, allorchè, rispondendomi, m'indirizzò la parola in lingua ebrea.
- Io non so che ricovero tu abbi qui trovato. La mia porta s'apre a tutti queglino che vi picchiano. I ringraziamenti sono superflui, per un semplice dovere compiuto.
- È precisamente perchè ciò potrebbe rassomigliare ad un dovere che te ne ringrazio. Il dovere è il più pesante dei balzelli.
- Non mi è stato insegnato codesto.
- Permettimi ora, nobile dama, di esprimere la mia soddisfazione nel trovare in te una compatriotta, dove mi attendevo trovare una straniera.
Ida non rispose. Riprese una ciarpa che aveva cessato di cucire quando io entrai, e continuò il suo lavoro, coll'apparenza di persona che desidera terminare il colloquio. Ma non era codesto che io cercava.
- La vista di questa casa, dall'alto della collina, continuai io, è incantevole. Si crede d'immergere lo sguardo in una cesta di fiori e di verdura. L'è una sorpresa in mezzo a queste desolate montagne.
Stesso silenzio da parte d'Ida. Principiavo ad esserne inquieto.
- Ho creduto vedere delle rose nei tuoi bei vasi di maiolica d'Italia. È un prodigio in quest'epoca dell'anno. Io vengo da Tiberiade; ebbene, alla Casa Dorata non ce n'eran più.
Ida non mi ascoltava. Era assorta altrove, e mi sembrava abbattuta e scoraggiata. Insistetti.
- Hai tu udito parlare di quel bel paese di Galilea, nobile dama?
- Poco.
- Oh! è l'Eden delle Indie, sotto il cielo della Siria. Nulla vi manca. Perfino i messia vi germogliano all'aria aperta.
- Ne hai veduto tu, dei messia?
- Se ne ho veduto! Ne ho anzi fatto provvista.
- Per che farne?
- Capperi! per farne di tutto. È il mio commercio.
- Li rivendi dunque?
- No, li do a nolo.
- Ma a che si può impiegare un messia?
- A che? a cento piccole inezie, ed a mille grandi cose. Prima di tutto, fanno dei miracoli.
- Possono essi render dolce la morte a chi la desidera e ha paura di darsela?
- Meglio ancora! risuscitano ciò che è morto.
- Anche un cuore disseccato?
- Questo oltrepassa i loro poteri.
- Ne dubitavo bene, fece Ida sospirando.
- E avevi ragione. Ma c'è un mago che fa ciò che Dio stesso non tenterebbe neppure.
- Come lo chiami tu codesto mago?
- L'amore.
Ida piegò il capo senza rispondere, e vidi un istante dopo caderle una lagrima sulla mano.
- Vuoi tu vedere, nobile signora, il messia che io ho scritturato per venire a far dei miracoli a Gerusalemme?
- Tu l'hai dunque nei tuoi bagagli?
- Lo aspetto fra poche settimane. Ti assicuro che è molto abile. L'ho visto, sabato scorso, invitare il popolo nella sinagoga di Cafarnaum a mangiarlo ed a beverlo, senza scomporsi.
- E l'hanno mangiato?
- Nemmen per ombra. Hanno avuto paura di rompersi i denti: le donne sopratutto sono fuggite serrando il velo sulla loro bocca. Conosci tu Cafarnaum?
- No.
- Ebbene, quelle belle donne, e quel mucchio di pescatori, di conciatori, di marinai, si son posti a gridare: Chi l'avrebbe mai detto che il figlio del carpentiere di Nazareth ci tenderebbe un simile agguato?
- Come si chiama il tuo messia?
- Gesù il Nazareno, figlio di Giuseppe il carpentiere.
Ida trasalì, e tacque.
- Stavano per lapidarlo. Allora io, e lo zio di quel Messia, Gesù Bar Abbas, ci siamo messi di mezzo; l'abbiamo salvato, e l'abbiamo arruolato nella nostra compagnia santa, per il prossimo paschah.
Ida, di già molto pallida, divenne come una morta. Io non dubitava più che ella non fosse Mirjam sorella del Nazareno; ma volli esserne più completamente convinto.
- Vuoi dunque, bella dama, che te lo conduca qui un giorno, il mio messia? Passo sovente davanti la tua porta: vado a trovar mia madre a Betlemme.
- Grazie, disse Ida, non sono curiosa.
- Di miracoli, lo credo. Gli è più facile fare un miracolo che una nobile azione. Ma il Rabbì di Nazareth non rende soltanto la vista ai ciechi, e le gambe ai paralitici; guarisce anche i cuori ammalati.
- Ne dubito.
- Eppure io sono stato testimonio di un miracolo simile. Conoscevo una giovincella di Magdala che aveva lasciato il suo ganzo a Gerusalemme, ed era fuggita col cuore sanguinante d'amore. L'ho trovata a Magdala, ho cenato con lei e col mio Rabbì, che l'aveva guarita radicalmente.
- Vuol dire che non era ammalata, rispose Ida sospirando.
- Sei ben triste, o giovine donna, ripresi. Perdona la mia indiscrezione. Ma ho veduto cadere una lagrima sulla tua mano, e te ne navigano ancora per gli occhi. Io sono uno straniero: ma sono giovane. Il mio cuore non è indurito verso i disgraziati, ho la gioia sempre a mia disposizione; scusa se io oso dirti: il dolore di una donna è la negazione di Dio. Posso io far qualche cosa per alleviarlo?
- Grazie. Tu t'inganni; io non ho alcun dolore.
- M'era per altro sembrato...
- Ti sei ingannato. Noah, offri a questo straniero dei rinfreschi se lo desidera.
Ida si alzò. Mi congedava.
- Non pensavo di offenderti, nobile dama, replicai. I miei occhi sono stati indiscreti, il mio cuore uno sciocco. Mi ricorderò questa lezione, e forse altri ne soffriranno. Ma tu sei la donna d'uno straniero, mi fu detto. Tu sei ebrea; tu sola hai un aspetto a scorruccio in mezzo agli splendori che ti circondano. Io ho sofferto sul suolo straniero dei dolori che nessuno ha consolato... Se ti ho offesa dicendoti: posso io renderti dei servigi, avendone ricevuto uno da te, - perdonami. Avrei creduto di mancare al mio dovere d'uomo agendo differentemente.
M'era alzato io pure, ed avevo nella voce una tale emozione, ed un'aria così fiera e così compunta, che Ida si fermò, e m'inondò84 del suo sguardo, pieno come il sole a mezzogiorno. Dio mio! quanto era bella, quella giovine donna!
Portava un lungo vestito viola molto accollato, stretto alla vita da una cintura di seta nera, ed i ricci dei suoi capelli d'oro, gittati all'indietro, ricadevano sulle sue spalle e sul suo seno. Guardandomi, la sua figura così triste si animò per un istante; il sangue corse alle sue labbra, che avrebbero fatto pianger d'invidia i petali di una rosa di Pstum, e le sue piccole narici si gonfiarono.
- Ti ho detto grazie, replicò, e te lo ripeto. Non hai alcun servigio da rendermi. Se avessi un dolore sarebbe di quelli che durano sempre, anche quando si credono estinti, che straziano, e non uccidono. Ma io non ne ho; sopratutto non ho nessuna indelicatezza a rimproverarti.
- Grazie, nobile dama: non avrei mai perdonato a me stesso d'essere stato così malaccorto.
- Ti aggiungo di più, continuò Ida, se un'altra volta, il temporale, la fatica, il sole, se infine una ragione qualunque ti costringe a cercare un ricovero, non dimenticare di picchiare alla mia porta, fino a tanto che io resto qui.
Era tutto ciò che io voleva sapere; la conclusione che io desiderava di più. La salutai e uscii, ebbro d'amore, pazzo di desiderii, avendo delle vertigini negli occhi e nel cervello.
- Ebbene, ha ella riso? mi domandò Moab venendomi incontro.
- Presso a poco. Non credere già che sia così facile di far ridere una donna in quello stato, come edificare il Tempio quando si posseggono le ricchezze di Salomone. Ridere! Cospetto! avrei voluto che mi avesse chiesto... Oh! lo stordito ch'io sono! Avevo portato questa bella collana, che Erodiade mi ha dato per farne un regalo alla mia amante e l'ho dimenticata. Gli è ch'ella mi ha colpito, Moab, mi ha colpito al cuore. Gliela presenterò nella prossima volta. Ho bisogno, di parlarti, Moab. Io sono pazzo per la tua padrona. L'amo...
- Che! gridò Moab.
- Ebbene! sì, io l'amo; l'amo tanto da morirne.
- Tu puoi morire allora, rispose Moab, freddamente. Tu non passerai più questa soglia, o io ti uccido, o tu uccidi me.
- Sei pazzo?
- Ascoltami, Giuda! Ho lasciato mia moglie ed i miei figli il giorno che ho abbracciato la dottrina esseniana. Ho adottato questa nobile giovanetta di cui tu vedi lo splendore del volto, e non puoi vedere lo splendore dell'anima. Io mi sono dato ad Ida, come la mia mano si è dedicata alla mia vita. Se ella mi chiedesse di demolire il Tempio coi denti, comincierei domani a divorarlo. Ho dunque il dovere di vegliare alla sua pace, al suo onore, alla sua anima. Ami Ida, tu dici? L'ami? Ebbene, non si amano le donne come colei, che quando se ne fa la propria moglie. Tagliami a pezzi se vuoi, ti perdono come ad un maniaco; ma non pensarti di lordare quella donna col tuo amore, neppure in sogno, perchè io ti strappo il cuore come ad una bestia feroce, e ti schiaccio come una bestia immonda.
E così dicendo, mi gettò alla porta e la chiuse dietro a me.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA
MEMORIE DI GIUDA
SECONDO VOLUME
Seconda Edizione Italiana
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.
XVIII
Restai confuso. L'apostrofe brutale di Moab m'immerse in un disordine d'idee vicino alla stupidità. Una sola cosa non lasciava più alcun dubbio: che questa Ida era la sorella del Rabbì di Nazareth. Di più! C'era ben stato un Cajus Crispus comandante la cavalleria della 12.a legione che abitava Gerusalemme quando Pilato se ne stava in Antiochia; ma aveva egli mai sposato questa ragazza che avea fatta comperare, e fatta rapire? Era egli morto? Aveva divorziato da sua moglie, o lasciato la sua ganza? Il cavaliere che io aveva veduto da Ida, nella notte dell'uragano, era egli Pilato, o uno del suo seguito? Che era egli andato a fare a quell'ora, con quel tempo, in quella casa? Io poteva rimuginare tutto ciò, andare al fondo di questo intrigo; ed avevo paura di conoscere la verità! La parola «sposare una tal donna, un simile angelo» increspava il mio viso d'un sorriso da demente, e mi metteva il delirio nei cuore.
Ero stato colpito dal sembiante d'Ida, al circo. Ne avevo accarezzata l'immagine immergendola sempre più nel mio cuore durante un mese, e la trovavo più bella ancora, più diabolicamente seducente. Il mio amore era scoppiato come un vaso che rinchiude un liquore fermentato. Doveva io resistere alla mia follia? Dovevo cedervi, sposarla, salvo, una volta saziata la passione, a ripudiarla, ad ucciderla, ed uccidermi con lei? Ma, anzitutto, consentirà ella a codesto matrimonio se io oso proporglielo? Che agguato mi si tendeva? E c'era poi un agguato? Io era idiota, ridicolo.
Meditavo tutte queste ed altre mille stravaganze avanzando lentamente sulla strada di Gerusalemme. Tentai di distrarmi.
Mi recai la sera presso Hannah, e gli resi conto del mio viaggio. Fu incantato dell'acquisto del Nazzareno. Gesù aveva fatto, e non senza successo, le sue prime armi in Gerusalemme. Hannah l'aveva scorto, ne aveva inteso a parlare; ed era ora più ardente di me stesso. Aveva veduto Claudia, che l'aveva ammaliato.
Claudia gli aveva tenuto un linguaggio più preciso. Si trattava inoltre di spiegare perchè Pilato, il quale aveva l'aria di dormire e vegliava con ambi gli occhi, avesse fatto venire una legione di più nella Samaria, un'altra in Galilea, una terza a Betlemme, ed aumentato di varie coorti la guarnigione stessa di Gerusalemme. Claudia fu esplicita, chiara, senza reticenze. Ella disse al sagan:
- Pilato vuol essere proconsole in Ispagna suo paese. A Roma si compra tutto. Noi non abbiamo denaro. Il vostro Tempio, la tomba di Davide, sono ricchi. Voi volete sbarazzarvi dei Romani: noi vogliamo sbarazzarci di voi. Voi avrete l'indipendenza e tutto ciò che vorrete. Ma cosa guadagneremo noi? Ebbene fate la vostra insurrezione. Noi vi lasceremo agire, ma avendo la forza di schiacciarvi quando vorremo. Terremo i nostri soldati nelle tre torri, nel palazzo d'Erode, nella fortezza Antonia. Voi potete comperare una capitolazione al prezzo dei tesori che vi ho indicati. Con quel denaro, noi compreremo i soldati che, potendo vincere, potrebbero avere della ripugnanza a rendersi, gli ufficiali che potrebbero resistere, il legato della Siria che potrebbe eseguire egli ciò che non faremmo noi, comperare infine l'impunità della reddizione, ed il governo della Spagna. Occorrono per tutto ciò milioni e milioni.... Siete voi disposti a comperare la vostra redenzione?
Claudia aveva risolte tutte le difficoltà sollevate dal sagan, e dissipati tutti i suoi dubbi. Hannah era sedotto, convinto, premuroso. Occorreva solamente che la sollevazione del popolo fosse talmente imponente, che Pilato potesse aver l'aria di dover cedere, senza che gli si domandasse come a Varo: Che hai tu fatto delle nostre legioni? Ora, per sollevare così il popolo, per riunire tutti i partiti e tutte le classi in un solo slancio, era necessario che qualche profeta o messia pieno di autorità facesse appello alle armi in nome di Dio e della patria. Ogni altro nome, qualunque si fosse stata la sua posizione sociale, non sarebbe riescito. Il sagan fu dunque fuor di sè dalla gioia udendo il ritratto che io gli dipingeva del Rabbì di Nazareth, e noi convenimmo di affrettare i preparativi, e disporre gli animi, onde tentare il gran colpo nel prossimo paschah.
Lasciando il sagan andai da Claudia. M'accolse a braccia aperte come un vecchio amico. Io diedi a lei ragguagli più completi, e valutai con più calma le probabilità dell'impresa. Le mie domande la imbarazzarono più forse di quelle del sagan. Ma in realtà, io prestava poca attenzione alle sue risposte. Una cosa per altro mi colpì, perchè ella stessa n'era impressionata. Claudia, dopo avermi raccontata la scena che seguì fra lei e suo marito dopo la mia partenza, mi disse, che da quella sera Pilato era divenuto invisibile e sembrava orribilmente triste. Arrivava al pretorio all'ora della giustizia, poi si chiudeva nella sua torre solitaria, e non se ne moveva più. Claudia non lo aveva intravisto, da circa un mese, che due volte, per darle delle lettere di Tiberio. Ella principiava a sospettare che suo marito l'amasse.
Ebbi paura di mettere questa lupa sulle traccie d'Ida, e di approfondire questa coincidenza di malinconia. Tuttavolta le dissi:
- Claudia, conosci tu Cajus Crispus?
- L'ho veduto a Joppa quando arrivai nella Siria.
- È egli morto ora?
- Otto giorni fa egli viveva, credo, poichè ne ho udito parlare. Non so se sia morto di poi.
- Conosci sua moglie?
- Mi fu mostrata a Roma spesse volte. È una delle Lesbiane alla moda, la più conosciuta nelle terme, aveva per amante il gladiatore Lydius, e per fellatore l'affrancato Cerinthus.
- A Roma! sua moglie non è dunque in Asia?
- Che io sappia almeno, no.
- Ma avrebbe egli ripudiato la sua moglie di Roma per prenderne una in Siria?
- Ne dubito. Terentilla è ricca. È figlia di un senatore, e Cajus Crispus è un ciompo, un legionario che ebbe fortuna. In quanto ad una moglie ch'egli potrebbe avere presa in Siria, non ci vedo nulla di straordinario. Tutti i nostri legionari si maritano nelle provincie ove stanno di guarnigione; poi quando partono, scrivono alle loro vedove desolate: «Cara amica, sono morto il venticinque del mese scorso» non dimenticarmi troppo, consolati come puoi, e non divenir troppo brutta nella tua vedovanza, addio.» I nostri legionarii, soldati ed ufficiali, ripetono questi matrimonii per una stagione o due, ovunque essi vanno, in Germania, in Ispagna, nelle Gallie, in Giudea, sotto ogni clima.
Ne sapevo abbastanza. Il destino di quella povera ragazza Galilea m'era ora spiegato. Vi pensai sopra tutta la notte: la mia convinzione fu completa. Ida era una vittima ed amava il suo carnefice, non dubitando punto del suo destino.
L'indomani all'alba, montai a cavallo, e mi recai di galoppo a Berachah. Moab vegliava in cima della sua piccola torre. La porta era chiusa.
- Ah! Giuda, mi gridò da quel posto senza muoversi, sei tu? Hai dunque riflettuto al mio consiglio?
- Si tratta di ben altro che del tuo consiglio, Moab. Vengo a svelare alla tua padrona il più infame tranello che si possa tendere ad una donna, e che le è stato già teso.
- Davvero! sclamò stupito Moab: parla dunque.
- Non è mica a te che devo raccontarlo, non sei tu che io possa prendere per confidente in affare così delicato.
- Sta bene. Va allora a raccontarla, la tua storia, al Monumento del gran sacerdote.
- Moab, finiamo questo scherzo che principia ad offendermi.
- Tanto peggio. Ma se tu principii soltanto ad offenderti di ciò che chiami il mio scherzo, io lo sono completamente di ciò che io chiamo la tua impudenza. Con qual diritto vieni tu ad insinuarti qui per attentare all'onore di una nobile dama che cerca la pace e la solitudine?
- Ma io vengo al contrario, per avvertirla.
- Di che?
- Ma bestia che sei, suo marito Cajus Crispus non è morto.
- E che importa a noi che il tuo Crispus sia morto o vivo?
- La tua padrona non è vedova.
- Ella vuol esserlo.
- Ella piange come un amore spento ciò che non è stato che un infame mercato.
- Tutti i mercati sono infami; compreso quello che tu fai in questo momento.
- Moab! Moab! la mia pazienza è stanca.
- E poi?
- Ma te ne supplico. Moab, lasciami vedere la tua padrona. Vengo a portarle la gioja. È così dunque che l'ami tu?
- Non inquietarti del come io l'ami. Non inquietarti di ciò che non ti risguarda. Non inquietarti del passato della mia padrona e di penetrarne le angoscie. La mia conclusione è questa: io conosco il pudore, la purezza, il profumo di questa viola mammola che custodisco da quasi due anni, e quali che sieno le apparenze e le ombre che abbiano velato, forse offuscato, il suo candore, non c'è una figlia di Sion che possa esserle paragonata. Io la vedo disgraziata e sola. Sola, poichè io sono tutto per lei, io straniero; io sono per lei padre, fratello, protettore, custode. L'ho adottata, io, a cui la mia fede proibisce d'amare la donna che avevo scelta, ed il figlio che la mi aveva dato. Io non comprendo la mia fede; non la discuto. La trovo crudele, insensata, immorale; ma non avendola inventata io, avendola accettata, la rispetto straziando il mio cuore la notte, e soffocando le mie lagrime il giorno. Ebbene, questa povera creatura sulla quale io veglio, colpita da un seguito di sventure, di cui Dio solo può comprendere e giustificare la durezza, questa povera vittima ha bisogno d'un protettore che la difenda, d'un cuore che l'ami nobilmente e puramente. La tua fiamma, Giuda, mi pare una di quelle luci che si scorgono la notte nei cimiteri: una scintilla della putrefazione.
- T'inganni, Moab.
- Lascia che m'inganni; non c'è alcun male. Di tutti gli uomini che ho conosciuti, Giuda, tu sei quegli che io mi ami di più dopo il Battista; che io stimi meglio, malgrado la tua empietà ed i tuoi vizii. Sei l'uomo al quale confiderei con minor timore il destino e l'avvenire di Ida; perchè sono convinto che un giorno ella ti amerebbe, e che la tua concupiscenza d'oggi, si cangerebbe domani in un nobile amore. Se tu continui a vederla, la tua fiamma divamperà sempre più e non so che cosa potrà accadere. Io non vorrei ucciderti pertanto! T'impedisco di vederla. Tu la vedrai, quando l'avrai domandata in isposa.
- Ma, amico mio, come vuoi tu che io sposi una donna che non mi ama, e che conosco imperfettamente?....
- Ecco perchè t'impegno a continuare la tua strada ed a lasciarci tranquilli.
- Ma consentirebbe ella a questo matrimonio, anche quando io consentissi a tentarlo?
- Ora no. Ma dal momento che tu sembrerai risoluto, io so il mezzo di determinarla a tutto.
- Mi amerà essa?
- L'amore non si coglie come una rosa bella e sbocciata in primavera. Si prepara, si coltiva, si accudisce, si chiama; e sta sicuro che un giorno, quando ella t'avrà conosciuto, l'amore verrà.
- Ma lasciami tentare ancora una visita, lascia che io le parli ancora una volta, non fosse altro per decidermi completamente.
- Cosa vuoi dirle?
- Lo so io forse? Moab, tu non hai mai amato, tu?
- Non so. Mi pare però che quando penso a quella disgraziata che volevano lapidare come adultera, e che il Rabbì di Nazareth ha salvata...
Moab s'arrestò. Sembrava soffocato da un singhiozzo.
- Moab, te ne supplico per la memoria di tua moglie e di tuo figlio, cui ti prometto non lasciar mancare d'oggi innanzi più di nulla; Moab, te ne scongiuro, fammi veder Ida ancora una volta io muojo d'amore per lei.
- Sia, disse Moab. Ma sarà l'ultima. Mi sono già spiegato abbastanza.
Io andava a tentare il mio colpo supremo, e non avevo un'idea nel mio spirito, una parola nella bocca. Non sapevo neppure perchè mi trovassi là. Il mio cuore mi soffocava.
Ida si era appena alzata. Era in una piccola stanza vicino al suo tablinum (il salotto d'oggidì), una specie di gabinetto ove ella tenevasi pensosa, stesa sopra dei cuscini di seta. Era avviluppata in una stola di lana bianca a grandi pieghe, che la copriva dal capo in giù, non lasciando vedere che dei piccoli piedi calzati di stivaletti rossi, piedi così piccini che parevano inverosimili. Noah aveva finito di vestirla e le porgeva una coppa di latte caldo per quel primo pasto che i Romani chiamano jentaculum. Ella si mostrò molto sorpresa, e sgradevolmente, vedendomi. Moab mi precedeva.
In realtà, io aveva l'aria d'un importuno. Ciò raddoppiò il mio imbarazzo. Quando si ama si diviene stupido. Io amava per la prima volta nella mia vita. L'affrontai dunque con una sconveniente storditezza.
- Ieri, le dissi, ho dimenticato, nobile dama, l'oggetto principale che mi aveva condotto dinanzi a te. Avevo a rimetterti questa collana cui Erodiade, la moglie del tetrarca di Galilea, mi diede, dicendomi: La presenterai alla donna che ami di più. Ida, degna di accettarla.
- Ti sbagli d'indirizzo, o giovane. Non è per me quel gioiello: riponilo nel suo scrigno.
E non lo guardò neppure.
- Ti chiedo scusa, Ida, ripresi dopo un istante d'esitazione. Io non so a chi offrirlo, secondo la destinazione che Erodiade gli ha dato. Non ho moglie, non ho amica, non ho amante, mia madre è vecchia, le mie sorelle sono ricche e maritate. Io sono solo.
- Conservalo allora per quando non potrai più ripetere ciò che dici in questo momento. Non c'è motivo perchè io accetti il tuo regalo.
- Ciò mi avrebbe fatto pertanto un così gran piacere! Intorno a qualunque altro collo, questa collana perderà il valore.
- Cessa, e se non hai altro a dirmi, addio!
Gettai il mio giojello a Noah, dicendole:
- Comprane la tua libertà, quando non avrai più una simile padrona.
Noah arrossì, tremò, e fuggì col suo tesoro.
- Ebbene, Ida, poichè mi condanni a non vederti più, concedimi di parlare, avanti che io ti lasci.
Ida si sollevò sul suo gomito, con aria severa ed offesa, e non rispose.
- Non aggrottare il ciglio, Ida: non ti parlerò di me. Io non ho cercato conoscerti. Taluni briccioli della tua storia sono giunti fino a me, soli, inattesi. Ne so forse più di te stessa, poichè tu non t'immagini certo neppure d'essere stata venduta per 15,000 sesterzii. Io conosco tuo fratello, e chi t'ha venduta. Sospetto chi fu l'uomo che ti comprò.
- Tu deliri, esci da qui, gridò Ida.
- Io non deliro punto, ma continuo. Tuo marito non è morto. Ha un'altra moglie a Roma.
Credevo di colpirla mortalmente: Ida si coricò lentamente sui suoi cuscini. Ella dunque sapeva tuttociò. Continuai.
- Sei stata la vittima d'una infame mistificazione: io ti porto la vendetta.
- Grazie, rispose Ida freddamente, riportala teco.
Mi ero fuorviato nuovamente. Toccai un'altra corda.
- Ida, sei sola, e ricca, continuai.
- T'inganni, interruppe Ida con un ghigno di disprezzo, sono povera. Puoi andartene ora, mi pare, dopo una simile spiegazione.
- Tanto meglio, risposi. V'è una ricchezza che macchia. Ma dov'è tuo padre? Ov'è tua madre? Ov'è tuo marito? Sono tutti morti per te, o io m'inganno sul loro carattere. A chi dunque indirizzarmi per dire ciò che tu rifiuti d'udire?
- Ma infine, gridò Ida incollerita, chi sei tu? Cosa vuoi?
- Chi io mi sia, Moab te lo dirà, tutta Gerusalemme potrà ripetertelo. Ciò che io voglio, non oso dirtelo.
- E fai bene perchè io non voglio nulla sapere, e nulla intendere.
- Sei tu libera, Ida?
- Che t'importa ciò?
- Io debbo dunque soffocare nel mio cuore il grido che mi dice: questa giovinetta sì rudemente provata dalla sventura, è il tuo destino!
Ida alzò le spalle sdegnosamente, e si ricoricò. Io continuai.
- Io t'ho veduta, Ida, per la prima volta al circo.
- Cinquanta mila persone mi hanno veduta come te.
- Nessuna coi miei occhi. Poichè da quel momento tu riempi la mia anima, come l'anima riempie la vita.
- Via dunque! disse Ida con disgusto. Codeste passioni repentine e chiacchierone si comprano bell'e fatte dai poeti e dagli istrioni. Quanto ti ha dessa costato, giovanotto?
- Hai tu giammai amato, Ida?
- Che t'importa ciò?
- Oh, se hai mai amato, grazia per me.
- Ma veramente, giovane, tu deliri. Con qual diritto t'introduci tu nella mia casa, sotto un ridicolo pretesto, per offrirmi un amore di cui non ho d'uopo, che non ho in nessuna maniera nè autorizzato, nè incoraggiato, cui io non voglio, cui respingo con isdegno? Da chi credi tu trovarti? Quale ignobile impertinenza ti ha consigliato questo passo che mi offende! Ah! proruppe poi sciogliendosi in lagrime. Ah! se non fossi stata sola!
- Addio, Ida, le dissi. Tu hai mal giudicato le mie parole, ma hai ragione. Io mi sono condotto male. Che vuoi? non si è sempre padrone dei proprii istinti. Io venivo soltanto per avvertirti d'un pericolo, per illuminarti. Accogliesti male le mie proferte; io mi ritiro. Ma ricordati questo. Ida: io t'amo. Se un giorno, il dolore che ti padroneggia in questo momento si calma, se la nebbia che ti ricopre si dissipa, e se hai bisogno d'un amico che ti consoli, di' a Moab di chiamarmi: io sarò sempre pronto, senza rancore, senza tiepidezza. Bisognava bene che io provassi alla fine quel dolore spaventevole che si chiama il primo amore.
Ida non intese forse una parola di ciò che io le dissi, poichè, la testa immersa nei suoi origlieri, singhiozzava. Io mi sentiva morire. Il sangue m'invadeva il cervello. Avevo voglia di gettarmi ai suoi piedi, di ucciderla, di coprirla di lagrime e di baci. Osai prenderle la mano - bella ed agghiacciata come quella d'una statua di Venere. A quel contatto, Ida balzò e si rizzò a me dinanzi. I suoi occhi si tersero in un istante.
- Che vuoi tu? la gridò. Noah! Noah!
La giovine schiava entrò.
- Indica la sua strada a codesto straniero, riprese Ida divenuta calma di nuovo, e volgendomi le spalle.
- Ida, gridai alla mia volta, sei dunque stata ben provata dalla sorte per divenire così crudele? Sono stato indiscreto forse, ma non ho meritato d'essere trattato come un galuppo.
Ida sembrò commossa.
- Giovane, disse ella, tu non sai dunque che non si deve mai domandar l'elemosina al ricco, il quale non comprende cosa sia la miseria? Tu mi domandi, credo, dell'amore: lo domandi ad una donna che soffoca sotto questo peso. Ebbene, io non ho nulla a darti. La mia ricchezza è forse minacciata in questo istante. Che importa! gli è sempre vero, che non ho nulla per te, nè per alcuno. Quando la rovina sarà certa, oh, allora, ciò che si farà dei resti del mio cuore mi sarà indifferente. Se la morte li respinge, li prenda chi vuole. Io non sarò più della partita. Una carcassa senza anima, appartiene alla prima jena che vi si getta sopra.
- Ida, mi prometti di ricordarti allora di me!
- Si ricordano i morti, o giovane, ma i morti, essi, non ricordano più.
Ida lasciò la stanza. Passando per la corte, dissi a Moab:
- Avresti fatto meglio di uccidermi sulla soglia.
- Io ti aveva prevenuto, mi rispose con voce accasciata.
I quindici giorni che seguirono questa scena non contano nella mia esistenza.
Fuggii a Gerico. Mia sorella che m'amava tanto, che m'aveva fatto giuocare sulle sue ginocchia quando ero bimbo, che mi era stata quasi una madre, la mia povera sorella fu spaventata dal mio stato. Ella mi credette talvolta pazzo, talvolta stupido. Poi, ebbi la febbre ed il delirio. Chi non ha avuto una simile crisi nella sua vita? Tanto peggio per queglino che non l'ebbero mai. Finalmente mia sorella entrò nella mia stanza, un mattino, spaventata, e con voce concitata mi disse:
- Giuda, un corriere da Gerusalemme.
- Che mi vuol egli?
- Porta una lettera.
- La dia....
- È venuto a cavallo, e viene dal palazzo d'Erode.
- Dal palazzo d'Erode, o dall'inferno, per me è tutt'uno. Dove è la lettera?
- Eccola.
L'aprii macchinalmente. Era di Claudia, e diceva:
«Giuda, ho il cuore morso da un sospetto. Conducimi subito il tuo messia, dovessi tu farlo trascinare dai soldati. Ho d'uopo di consultarlo, ad ogni costo. Presto, presto, presto.
«Claudia.»
XIX
Il Rabbì di Nazareth lasciò la Galilea la notte stessa che avemmo il colloquio in casa di Maria.
In meno di dodici ore, egli aveva traversato la crisi fatale della sua vita. L'attitudine del popolo nella sinagoga, l'aveva scosso la mattina; la prospettiva dell'immenso orizzonte che io aveva spiegato innanzi ai suoi occhi la sera, lo aveva deciso. La sua anima era tocca. In mezzo ad un amaro disinganno, una folgoreggiante visione l'aveva consolato ed esaltato. Ma egli aveva paura della tempesta che aveva scatenata, forse con più precipitazione e più prematura ch'egli stesso non l'avesse desiderato.
Ormai, egli non poteva restare più sotto il bel cielo del suo paese, ove aveva tessuto tanti idillii nella prima fase della sua missione. Dopo aver gettato la sua terribile parola, che lo tratteggiava a figlio di Dio, egli non poteva più abbandonarsi ai dolci amori dell'infanzia, dei fiori, della donna, dei profumi, alla sua morale gaia, alla sua sottile ironia contro le bizzarre pratiche dei Farisei. Gli era mestieri ora regnare nelle regioni della folgore. Ma nessuno lo comprendeva più. I suoi discepoli stessi lo trovavano strano, lo credevano tal fiata demente, si raffreddavano, o si allontanavano. Egli sentiva che doveva arrischiare un colpo decisivo; ed io gli offriva una gran parte, in un grande teatro. Nulla ostante, non credendo alle mie parole, volle assicurarsi dello stato degli spiriti, e per sua propria prova.
Il Rabbì era un cattivo Ebreo. Egli accettava le nostre leggi, le nostre tradizioni, i nostri patriarchi, i nostri profeti e le nostre dottrine, ma tutto sotto benefizio di stretto inventario; e ben poco ne lasciava in piedi dopo il suo esame.
Un abisso separava l'anima sua dall'anima nazionale.
L'Ebreo è materiale, formalista, rozzo, puntiglioso, orgoglioso, crudele, superstizioso, di passioni affatto vive e palpabili. Il Rabbì era dolce, semplice, tollerante, popolare; elevava lo spirito e l'ideale su tutto, e lasciava alla materia una grande libertà di sviluppo. Egli aveva sfiorato le dottrine di Sakya-Mouni, di Gesù figlio di Sirach, di Gamaliel, d'Hillel, d'Antigone da Soco, pigliando da loro i principii di eguaglianza sociale, di carità, di semplicità nel culto e nell'idea di Dio, di fratellanza umana. Ma egli faceva buon mercato del resto dei principii, presi sia nei libri di Mosè e dei profeti, sia nelle masores o tradizioni che formavano il corpo della legge orale. Respingeva, motteggiandola, la massa delle dottrine dei Farisei, come altresì quella dei Sadducei e degli Esseniani. Si alzava solo contro tutti: era egli perciò più alto di tutti? Al regno del popolo ebreo, opponeva quello di Dio. All'aspettazione di un messia più grande di Erode e di Giuda di Gamala, egli offriva un messia paradossale, addobbato ad iperboli incomprensibili, traboccante di promesse che se non erano delle assurdità, lambivano la mentecattaggine. Salomone, Giona, non arrivavano, diceva egli, all'altezza del suo malleolo85. Nonostante, la sua opera si riassumeva in un tessuto di frasi oscure, ed alcune guarigioni di ammalati, quali i ciarlatani della piazza pubblica compievano essi pure, e che i maghi egiziani sorpassavano. Non lo si comprendeva, egli diceva, irritandosi sempre maggiormente. Gli era forse vero, ma sta sempre, che avendo urtato profondamente le credenze degli abitanti dei villaggi del lago, sgomentati i Farisei, gettato la diffidenza nella Casa Dorata, egli non poteva più restare nella Galilea86. Lo avrebbero perseguitato, e preso in qualche agguato.
Spronato dunque dalla paura, consigliato dalla prudenza di verificare le mie parole, egli partì la notte stessa, seguito da soli due discepoli, l'ambizioso e turbolento Simone, e l'indolente Giovanni, altrettanto ambizioso, ma più poltrone del vecchio marinajo. Questi altresì si aspettavano dal maestro, nel suo regno, dei posti di generali, d'intendenti, di grandi sacerdoti, un'alta posizione in fine, con un ricco seguito di donne, di schiavi, di provincie da governare, di palazzi, di giardini, la porpora, le stanze dorate, e spingevano quindi il Rabbì ai colpi decisivi87.
Traversarono la regione delle colline della Galilea, e penetrarono nella pianura di Tiro. Percorsero a piedi il paese, dal piano di Sidon fino alle montagne di Gilead, fermandosi poco, fiutando l'opinione pubblica, non predicando nè insegnando; perchè credevano esser seguiti dalle spie dei Farisei.
La cosa che pungeva di più i Farisei, gli era il voltafaccia di Gesù a proposito dei pagani. Egli, che fino allora aveva rispettata la legge della separazione dallo straniero, come impuro, conversava ora con una Samaritana al pozzo di Giacobbe; dormiva sotto il tetto dell'uomo di Sychar; entrava nelle città greche, romane, o fenicie; si mischiava ai credenti di Baal e di Astaroth. Il popolo ebreo non era più per lui il popolo eletto, per il diletto del quale Dio aveva creato questa terra rivestita di fiori e di frutti, questo cielo inondato di astri. Egli credeva all'uomo, questo messia del popolo di Dio.
Il viaggio si faceva in fretta; poichè dal primo suo passo sopra questo suolo, ove l'attività umana si sviluppava con energia, Gesù comprese la situazione degli animi. Questi popoli che correvano il mondo, che trafficavano il mare, che esportavano ed importavano le ricchezze dei differenti climi, che godevano di queste ricchezze nelle orgie che si prolungavano fra due soli, che s'inebbriavano di donne, di vino, di arti, di ornamenti, che abitavano dei palazzi soppannati di seta e risplendenti di marmo e d'oro, questi popoli che divoravano le voluttà della vita, e la vita stessa senza risparmio, non potevano odiare i Romani che loro lasciavano una completa libertà di sviluppo, che l'incoraggiavano e li favorivano. Essi non potevano in nessuna maniera preferire una dominazione giudea, meschina, dura, barbara, limitata nello spirito e nell'attività individuale, che scorgeva in ogni uomo non circonciso un impuro da evitare o da lapidare.
Gesù in questo paese sentiva mancare il suo senso dell'ideale. L'aria voluttuosa che respirava nelle città gli dava la vertigine. Si trovava piccolo, disorientato. Egli che veniva a predicare la supremazia di Dio sull'uomo, l'eclissi dell'uomo dinanzi lo spirito, trovava che qui l'uomo era Dio, e creava come lui. I suoi due discepoli, che non comprendevano nulla alla rivelazione ed alla rivoluzione che si compieva nello spirito del Rabbì, che non avevano come esso una forte energia morale per sostenerli, soccombevano sotto la fatica della corsa vertiginosa che trascinava Gesù.
Il Rabbì vedeva il mondo chiudersi sopra di lui per soffocarlo. La Galilea gl'involava il mondo ideale: qui, il mondo materiale l'assorbiva nella sua esuberanza.
Non potendo fissarsi in questa pianura di Tiro e di Sidon, in queste due città scintillanti di palazzi, ove il popolo lavorava per godere, non potendo, egli credeva, ritornare senza pericolo nella Galilea, Gesù ed i due discepoli vennero a cercar un ricovero nella Decapolis, gruppo di città greche alleate che accampa alla punta meridionale del lago di Gennesareth e sulle due rive del basso Giordano. In mezzo ai Greci ed agli stranieri d'ogni paese che popolavano Hippo, Gadara, Pella, Scitopoli, il Rabbì di Nazareth si credette sicuro.
Ma là pure, la sua anima non aveva eco, nè trovava quell'odio contro la dominazione straniera, di cui io gli aveva parlato, e quel desiderio della dominazione ebrea, che io attribuiva a quei paesi.
Qui, egualmente, il lusso, l'arte, il movimento per abbellire la vita di piaceri e di agiatezze, la scienza, la poesia, l'esistenza facile, le relazioni festevoli, si sviluppavano vivamente. Gli Dei erano umani ed alla buona, e non dei tiranni brontoloni ed arcigni come il Dio degli Ebrei. Omero, Platone, Tucidide, Erodoto, Anacreonte, non facevano punto desiderare il Pentateuco, i libri di Salomone e dei Profeti, di Giobbe e di Daniele. Qui, quell'ideale del popolo ebreo sembrava un cupo e mal costrutto fantasma che era antipatico, ed offendeva lo sguardo. L'ideale stesso di Gesù, così semplice, etereo, si annientava in quell'aria febbrile, pregna di emanazioni umane, dell'eretismo dei sensi. Il Padre ch'egli predicava nel paese giudeo, era qui una creazione fantastica cui Platone aveva già abbozzata nella regione dei sogni. I miracoli trovavansi classificati negli aforismi d'Ippocrate. Quegli allegri bellimbusti dell'Olimpo ne avevano fatto di più belle.
Gesù non potè mantenersi neppure in quell'angolo d'un suolo, d'onde scopriva nondimeno le cime del Carmelo ai cui piedi sorgeva Nazareth sua patria, le roccie bruciate sulle vette delle quali poggiava Cafarnaum ove dimorava sua madre, le spiaggie fiorite ove Magdala lavava i suoi piedi, e cui Maria percorreva gli occhi assetati di rivedere il suo Rabbì.
Gli è in quel sito che lo incontrò il messaggiero che io gli inviai da Gerico dopo la lettera di Claudia, onde affrettare il suo viaggio a Gerusalemme.
Se Gesù aveva per un momento azzannato all'avvenire splendido che io gli aveva fatto intrasognare, e' si guariva ogni dì più delle sue speranze. Sulle rive del Giordano, come nei piani e sulle spiaggie di Tiro e di Sidon, egli comprendeva le terribili difficoltà della missione che io gli proponeva, la ripugnanza che destava un messia politico. Magdala, d'altronde, lo attraeva. Egli era come il Tantalo di quella casetta linda e graziosa ove Maria lo circondava di cure, di carezze, di fede. La tentazione lo vinse, prese il battello, e vi andò.
La voce del suo arrivo si sparse immediatamente. La gioja frenetica e comunicativa di Maria lo tradiva. Poco alla volta, in quarant'ott'ore, i cinque villaggi della costa orientale di Gennesarth furono commossi. Coloro che credevano nel Rabbì ne aspettavano infine una manifestazione che loro desse confidenza, e li ponesse in grado di respingere il ridicolo di cui i loro nemici li coprivano. Questi nemici poi si misero in posizione di tendergli nuovi agguati, per farlo esagerare nella sua predicazione, e perderlo. Perocchè dessi non l'avevano nè dimenticato, nè perduto mai di vista, nelle sue peregrinazioni.
La lotta principiava a divenire implacabile e il terreno si circonscriveva sotto i piedi del Rabbì. Egli avrebbe voluto restare nascosto per alcun tempo in quel ritiro, onde meditare, onde meglio determinare la sua situazione, e poi decidersi sotto la pressione degli avvenimenti. Non lo potè. E' non andò alla sinagoga; il popolo venne da lui. La sua posizione era critica: eclissarsi e mostrarsi, egualmente pericoloso. Del resto non gliene fu lasciata la scelta.
Gesù era sceso sulla spiaggia verso l'ora ottava per recarsi a Cafarnaum, dalla moglie di Zebedeo che era ammalata. Alcuni Farisei ed alcuni Erodiani che si trovarono là, lo circondarono, e il cerchio in breve cominciò a farsi fitto. Gli agenti provocatori non mostrarono nessuna disposizione ostile. Festeggiarono dapprima il ritorno del Rabbì, perchè era corsa voce che avesse abbandonato il paese; poi cominciarono ad interrogarlo, come gente che ha voglia d'illuminarsi. Gesù comprese.
- Tu ci hai detto che sei il Messia, gli dissero, e noi siamo fortunati di crederti. Ma mostraci almeno con un segno, che tu sei quell'inviato di Dio che noi attendiamo.
Gesù sospirò profondamente. Capì la perfidia di questa domanda. Che cosa doveva egli rispondere? che era il Messia, provandolo con delle cose sorprendenti, e chiamando il popolo all'insurrezione? A pochi passi di distanza, i soldati di Antipas lo spiavano. Rifiuterebbe di dare il segno che gli si chiedeva? l'avrebbero beffato, bandito come un impostore, posto alla berlina: ben felice se si fossero limitati ad annegarlo nel lago. Gesù, le cui principali qualità erano la presenza di spirito ed il sangue freddo, rispose:
- Quando la sera voi scorgete il cielo tutto rosso, voi pensate: domani farà bello. Quando lo vedete rosso il mattino, voi sclamate: oggi farà cattivo tempo. Ebbene, ipocriti, se voi potete indovinare i segni della faccia del cielo, perchè non indovinate voi altresì i segni dei tempi? Una generazione miserabile ed adultera domanda segni del cielo? Io non ne ho alcuno a darle, eccetto quello del profeta Giona.
- Insultare non è rispondere, o Rabbì, gli gridarono da tutte le parti. Se noi ti domandiamo il marchio del tuo apostolato di Messia, gli è perchè tu ti presenti come tale, e la trinci da figlio di Dio. Se tu non ti mostri così, sei un empio, e noi ti tratteremo come si trattano i bestemmiatori.
I discepoli del Rabbì, che si trovarono presenti, intervennero. Gesù, protetto da essi, indietreggiò di due passi e si gettò nella barca di Simone che si dondolava sulla spiaggia. I suoi discepoli lo seguirono, e fecero forza di remi. Era tempo: cominciavano già a lapidarli.
Questa scena imprevista sconcertò il piano dell'escursione di Gesù. Invece di vogare verso Cafarnaum, a pochi minuti di distanza ove senza dubbio si sarebbe rinnovata l'istessa scena, Gesù fece mettere la proda verso la costa greca ove poteva trovare ricovero.
Sembrava scoraggiato, profondamente abbattuto. Egli vedeva che bisognava rinunziare per sempre a questa contrada che gli parlava della sua gioventù, della prima epoca della sua missione, profumata dalla memoria della grande fede che vi aveva trovato, di tante belle opere fatte, di tante belle parole dette. Un destino lo spingeva, e lo metteva nell'impossibilità di resistere, di ricalcitrare.
Quando egli disse a Simone di dirigersi verso Bethsaida-Julia, questi gli fece osservare che l'ora era avanzata, che la notte s'appressava e che avendo lasciato precipitosamente Magdala, non avevano preso con loro il pane.
- Che importa il pane? replicò Gesù.
- Bravo, osservò Giovanni indispettito, saremo obbligati d'impastare e di mangiare il pane senza lievito.
Gesù l'intese e gli rispose seccamente:
- Come! ne siete ancora alla preoccupazione dei Farisei e dei Sadducei, il lievito nel pane?
- Sta quieto, rispose Simone piano, toccando del gomito Giovanni; non vedi che è in collera perchè non abbiamo preso il pane?
- Uomini di poca fede! interruppe il Rabbì, seduto alla poppa. Che andate brontolando fra voi per non aver comperato il pane? Quante volte ne avete mancato? Quando io vi parlava del lievito del pane dei Farisei, è delle loro dottrine che io intendeva parlarvi.
Il Rabbì non si fermò a lungo a Bethsaida-Julia, alla sorgente del Giordano. Quivi ancora, egli era troppo vicino; gli echi di Cafarnaum ve lo inseguivano. Egli si sentiva eccitato da una forza invincibile che lo spingeva avanti, a passare, come Cesare, il suo Rubicone. Si arrampicò sulla collina e venne a Paneas, divenuta da poco Caesarea-Philippi.
Dominato dalla sua preoccupazione, credendosi assalito pure in questo ritiro negli stati del Tetrarca della Golonotide - Filippo, un'altro figlio di Erode - egli pensava nascondervisi per qualche tempo. Avrebbe voluto sottrarsi alla fatalità che lo impelleva verso Gerusalemme ove io lo attiravo. Chiese dunque ai suoi discepoli:
- Gli uomini di qui, dicono essi pure che io sono il figlio dell'uomo?
- Gli uni dicono, rispose Giovanni, che tu sei Johanan il Battista; gli altri che sei Geremia; alcuni che sei Elija o un altro dei profeti.
- E voi, chi credete voi che io mi sia?
- Che tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente, rispose Simone bruscamente.
Gesù che si compiaceva molto di questo titolo il quale rispondeva meglio, pel suo vago, alle sue aspirazioni ancora indecise e assai complesse, lodò Simone della sua adulazione, e l'incoraggiò con promesse. Credendosi pertanto traccheggiato anche a Caesarea-Philippi dai suoi nemici, congedò una parte dei suoi discepoli, e con due o tre di essi soltanto, s'avanzò nelle vallate del monte Hermon onde raccogliersi per alcuni giorni. Raccogliersi solo; poichè ormai aveva presa una risoluzione.
Il Rabbì di Nazareth rinunziava definitivamente alla parte di messia politico, che aveva per qualche tempo accarezzata, dopo il quadro che io gli aveva tracciato della situazione degli spiriti nell'antico regno d'Erode. Io non avevo nulla esagerato nondimeno, come gli avvenimenti più tardi lo provarono. Ma Gesù, avendo nelle sue peregrinazioni toccato soltanto i paesi fenici, greci e romani, aveva creduto che il popolo ebreo dividesse con loro il sentimento di tolleranza del giogo romano. Avendo abdicato il titolo di figlio di David, cui alcuni mesi prima aveva vagheggiato, egli si era deciso per la parte di figlio di Dio che viene ad annunziare il regno di suo padre. Questo bisticcio, che non significava nulla, poteva prendere tutte le forme che le circostanze avrebbero indicate.
Il tipo di Rettore universale concepito da Gesù era quello di un gran sacerdote-re, il quale nel nome di Dio governasse e conducesse in via assoluta corpi ed anime - la monarchia teocratica la quale non conosce altro padrone che Dio con cui s'identifica, nè altro limite che le proprie aspirazioni - (il papato come è inteso oggidì al Vaticano).
Questo tipo non era realizzabile nei paesi misti, sotto la dominazione degli eredi d'Erode. La mescolanza di razze, di popoli, di credenze che s'incrociavano nelle provincie sotto la dominazione indiretta dei Romani, si opponeva a questa feroce autocrazia, quand'anche quei suscettibili figli di Erode fossero stati così dabbene da lasciarle gettare le sue basi nella loro casa. Occorreva dunque emigrare, e tosto; perchè i pericoli crescevano, si accumulavano dinanzi il Rabbì. Dove andare?
Io gli aprivo le porte di Gerusalemme, preparandogli una calda accoglienza. Io aveva bene specificato a quali condizioni. Gesù voleva sottrarvisi, e trar partito del favore che io gli preparava.
I primi colpi della contraddizione l'avevano cangiato. Era divenuto irascibile, assoluto, collerico, esigente più che mai, non tollerante alcun ritardo, alcun consiglio, alcuna controversia, alcuna resistenza: non discussioni, non dubbii. Era divenuto spaventevolmente assorbente. Egli comprendeva tutto ciò che la sua posizione aveva di terribile. Non vedeva nessuna maniera di sfuggirvi senza scadere, rientrare nell'ombra, annichilirsi, e morire di crepacuore nel ridicolo. Comprendeva che in situazioni simili l'ardire solo può esser salvezza. Cesare s'era salvato così. Pompeo ed Antonio avevano soccombuto per aver mancato di codesta prontezza necessaria a parare i colpi del destino. Egli non aveva più nulla a sperare dal tempo che facendogli violenza. L'occasione che io gli offriva non si presenta due volte nella vita dell'uomo che provoca la sorte. Occorreva agire, ora, e nient'altro che agire, sorprendere, forzare quelle decisioni dietro le quali si rizza o l'altare o il patibolo. I suoi nemici l'avevano compreso. Essi l'avevano segnato, avevano posto gli artigli sopra di lui, e parevano decisi a non più lasciarlo, che soccombendo essi stessi, o annientandolo.
Gli antichi partiti non potevano più vivere insieme con lui. Egli li aveva provocati; essi avrebbero creduto abdicare se non avessero accettata la sfida, e schiacciato l'audace che li aveva sberteggiati. Gesù veniva a disfare cinquemila anni di giudaismo. Si poteva incrociarsi le braccia e lasciarlo fare? Il tuono da lui assunto non poteva del resto durare più oltre. La dottrina, tale quale egli l'esponeva, si oscurava e diminuiva spiegandola maggiormente: al che lo si spingeva ogni giorno. Il figlio di Dio stava in equilibrio sopra un filo, fra il sublime ed il ridicolo, fra il messia ed il ciarlatano. Un soffio, e l'idolo ascendeva ai cieli, o si affondava nel fango. Già i suoi discepoli lo credevano un pazzo, ed i suoi nemici un demoniaco88. Ed egli si vedeva obbligato ad accelerare la progressione nell'entusiasmo, onde non precipitare dalle cime ove erasi innalzato.
Gesù aveva detto la sua prima parola: amore! Ora gridava freneticamente: Io sono la spada, il disordine, il fuoco! Rinnegava la patria, la famiglia, l'amicizia, la personalità: il sangue, il suo stesso sangue l'inebbriava. Dichiarava guerra alla società, alla natura. Un uomo gli disse: Io ti seguo, o Signore, ma lascia che prima io seppellisca mio padre. «Lascia» gli rispose il Rabbì «lascia i morti seppellire i morti: cammina». Ancora un passo, e questa fede, questa sicurezza, questa confidenza in sè stesso, questo idealismo, questa visione, questa fissità generavano la follia. Egli stesso me lo disse più tardi, tratteggiandomi lo stato del suo spirito nella capanna della valle del monte Hermon. Egli fe' violenza a queste riflessioni, tagliò corto all'aspettare, ai nuovi progetti, sviluppo consecutivo della sua dottrina e dei suoi piani, ed annunziò ai suoi discepoli che partiva per Gerusalemme ove andrebbe ad attenderli pel paschah.
- Aspetta ancora, o Signore, gli suggerì Simone, non andare ad esporti così presto.
- Indietro, Satana! gridò Gesù incollerito. Tu mi disgusti; perocchè tu non assapori le cose di Dio, e ti inebbrii di quelle degli uomini.
Gesù partì effettivamente dalla Galilea un mese prima della carovana. Andò a vedere sua madre a Cafarnaum - aveva rotto coi suoi fratelli che lo spingevano a perdersi con dei colpi messianici avventurosi. Andò a vedere Maria a Magdala, e le ordinò di unirsi alla carovana, e di recarsi a Gerusalemme per la valle del Giordano. Egli prese in seguito, solo ed a piedi, la via di Samaria, traversando Shichem, Shiloh e Bethel, le tre città sacre che precedono Sion.
La sera del 13 Adar, giorno del digiuno di Esther, vigilia della festa grottesca del Purim, le saturnalia degli Ebrei (carnevale odierno), il Rabbì di Nazareth, entrò a Gerusalemme pel sobborgo e la porta di Beniamino, vedendo alla sua sinistra Bezetha colle sue case, le sue sinagoghe, ed il nuovo palazzo di Antipas, alla diritta il Gareb coi suoi giardini, le sue ville, la sua piazza per i supplizj, le sue grotte e le sue tombe. Traversando la grande strada nella valle dei formaggiaj, e voltando a sinistra a mezza via nella strada che conduce alla porta delle Greggie, egli passò il letto disseccato del Cedron. Poi costeggiò la china occidentale del monte degli olivi, ed a traverso una piantagione di fichi e d'olivi arrivò a Bethany, villaggio a due miglia di Gerusalemme, nella casa del suo amico Lazzaro.
Questa casa era bassa e nuda; aveva un tetto aperto, un solaio a calce e sabbia, una piccola corte, e dominava la valle del Cedron, il mare d'Asfalto, le montagne di Moab, e quel sentiero di pietre liscie e sdrucciolanti sulle quali nè cavallo nè cammello possono tener piede, e che da Gerusalemme conduce a Gerico. Fu lì, seduto fra le due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, che rinvenni finalmente il Rabbì di Nazareth, dopo esservi andato dieci volte per trovarlo.
Era tempo, imperciocchè ecco che cosa era accaduto.
XX
Io non aveva mai compreso, nella nostra istoria, la violenza della passione di Amnon per la sua sorella Tamar, e la sua indegna condotta. La comprendevo adesso.
L'amore è sempre una malattia. In alcuni momenti, l'è una distruzione. Durante quindici giorni la mia anima aveva dato un terribile combattimento al mio cuore. Essa gli aveva presentato una ad una tutte le impossibilità, le inconvenienze, gli oltraggi del mio amore per Ida. Il cuore aveva sempre risposto: È vero, ma io l'amo. L'anima era restata colle sue ragioni vittoriose; ma il cuore aveva trionfato. Partii dunque da Gerico, risoluto di sposar Ida, checchè ne potesse accadere. L'avvenire era armato da capo a piedi in mio favore, se mai mi ripentissi. Poteva cacciarla, farla uccidere, ucciderla, se il delirio della mia passione si fosse calmato. Nonpertanto, quantunque assolutamente determinato al passo disperato di sposare l'abbandonata favorita d'un ufficiale romano, volli, per giustificarmi ai miei propri occhi, domandare un consiglio.
Arrivando a Gerusalemme andai a trovare Hannah.
Il sagan era uomo da darlo, questo consiglio.
Dopo la morte d'Erode, l'indomani stesso, due partiti si erano levati in armi l'uno contro l'altro in Gerusalemme: il partito dei nobili, depresso dai Maccabei; il partito dei separatisti, schiacciato da Erode: i vecchi legittimisti89, i quali sulla base della legge organica di Mosè ambivano una grande libertà oligarchica; il partito democratico, che mirava a monopolizzare e trar profitto del potere, oligarchico pure, ma dal basso in sù. I due partiti erano ambo contrarii alla dinastia, alle istituzioni di Erode, ed alla divisione ch'egli aveva fatto dei suoi Stati. Il partito nobile aveva per iscopo di rovesciare l'etnarca Archelao figlio di Erode, ed il gran sacerdote Joazar, della casa Betusiana, e d'impadronirsi del governo civile e religioso. Il partito popolare aveva per iscopo di rovesciare a qualunque costo Archelao, figlio d'una regina Samaritana, quindi impuro, e di trattare con Joazar, meno odiato, a causa delle sue maniere facili e nobili. Il capo del partito nobile era questo Hannah, figlio di Seth, uomo di grande nascita, di grandi ricchezze, dotato di coraggio, d'ambizione, di perseveranza illimitata, quantunque d'intelligenza scarsa, e di costumi depravati.
I due partiti avevano trionfato della famiglia di Erode. Archelao era stato chiamato a Roma per render conto della sua condotta. Accusato da tutti i partiti e dai suoi stessi fratelli, Augusto l'aveva esiliato a Vienna. In seguito l'Etnarchia era stata annessa alla Siria come provincia romana, mentre le due tetrarchie restavano ai due altri figli di Erode, che ambivano d'annettere la Giudea e la Samaria ai loro Stati. L'accusa principale contro Archelao era questa: ch'egli aveva cacciato sua moglie Mariamne, e sposato Glaphyra, figlia del re di Cappadocia, la quale era stata prima moglie di suo fratello Alessandro. Quando Archelao fu esiliato, la bella e giovine regina ne morì di dolore. Cyrenius, governatore della Siria, fu incaricato di organizzare le nuove provincie sotto un governatore speciale, chiamato procuratore. Caesarea, sulla costa, fu destinata a capitale e residenza di questo funzionario.
Cyrenius venne a Gerusalemme. Dopo aver tasteggiato tutti i partiti, destituì Joazar il gran sacerdote popolare, e mise al suo posto Hannah. Mentre il primo procuratore, Coponius, risiedeva a Cesarea, Hannah regnava in Gerusalemme. Durante quindici anni, quantunque i Giudei fossero oppressi d'imposte, addolorati dalla perdita della loro nazionalità e del loro governo nazionale, nulla turbò l'impero di Hannah e del partito nobile che governava Gerusalemme in nome di Roma. Ma Valerius Gratus, il governatore della Siria inviato da Tiberio, si avvisò di dare un altro assetto al dominio romano, forse perchè egli vide la marea dello scontento ingrossare, e perchè sperava scongiurare il pericolo appoggiandosi al partito popolare. Fatto sta che Hannah fu destituito, e Ismael elevato a grande sacerdote.
Gratus comprese presto l'importanza del fallo che aveva commesso, dallo scontento più grave ancora che seguì la destituizione d'Hannah, scontento fomentato dal partito nobile. Non volendo indietreggiare, e pur volendo calmare gli spiriti, destituì alla sua volta Ismael, e nominò gran sacerdote Eleazar figlio di Hannah, lasciando a quest'ultimo, col titolo di sagan (deputato), le funzioni spirituali, ed il regolamento dei riti inerenti alla carica di gran sacerdote.
Gratus non poteva però consolarsi di essere stato costretto a tutto ciò da Hannah e dai nobili. Per cui appena il potè impunemente, depose anche Eleazar, ed elesse in suo luogo Simone. Nuovo fallo; perchè in meno di un anno fu obbligato di deporre anche Simone e di nominare Caifas, genero del sagan. Da allora il trionfo del partito nobile fu definitivo, almeno per un certo tempo.
Pilato se ne fece un appoggio. Ma non riuscì nè a neutralizzare nè a vincere con questo partito quello popolare. Questo abbracciò i principii d'una fazione - la galilea di Giuda, di Gamala - cioè l'odio contro i Romani, e l'attesa d'un messia, il quale doveva vendicare i Giudei, spezzandone il giogo. Hannah vide questo partito ascendere, crescere, divenire ardito. Sentendosi in mezzo a due pericoli, piaggiò Pilato, e cospirò meco.
Tale era il sagan - un bell'uomo d'una cinquantina d'anni, rotto a tutti i vizii ed a tutte le astuzie, - che io stava per prendere a giudice della mia condotta.
Gli raccontai tutto: i miei passi presso l'Ida, l'accoglimento che ne aveva avuto, la mia lotta interiore, la risoluzione da me presa. Hannah m'ascoltò seriamente, tranquillamente, poi mi chiese:
- Hai tu la forza di strappare codesta passione dal tuo cuore?
- No. Ho provato, e non ci sono riescito.
- Lo vedo. Il tuo viso porta le traccie della sua lotta. Allora che vieni a domandarmi? Ogni transazione per mascherare la vergogna del tuo matrimonio, sarebbe un'altra vergogna. La passione non ha logica, non può quindi avere un codice. Agisci francamente, apertamente, altamente. Sposa quella donna, e aspetta dal tempo il rimedio.
- Ella non ha alcun parente a cui dirigermi. Non oso presentarmi a lei di nuovo, per paura di romper tutto. Vuoi tu andare a domandarle per me la sua mano?
- Son pronto.
- Non ne arrossisci? Non indietreggi dinanzi il rimprovero di esser entrato in una casa impura?
- Per nulla. Soltanto combineremo una storia90, che allontani più ch'è possibile di tali rimproveri.
- Ti lascio piena libertà d'azione.
- Quando devo andare a vederla?
- Aspetta. Bisogna che io parli prima con Moab onde prepararla alla tua visita. Temo di non riescire.
- Allora m'avviserai quando potrò presentarmi.
- In che maniera pensi tu di diminuire dinanzi il mondo la mia follia, e di mostrare mia moglie ai miei amici?
- Molto semplicemente. Noi non possiamo presentarla come la vedova di Cajus Crispus, che tutta Gerusalemme conosce, e sa essere vivo a Sebaste in questo momento, e che può capitar qui domani forse, alla testa della sua cavalleria. Gli è mestieri dunque far passare Ida per la moglie di quell'ufficiale, ripudiata da lui perchè la trovò invincibilmente attaccata alla fede dei suoi padri. Così, tutto è salvo. La bellezza d'Ida giustifica la passione del Romano che l'ha sposata, sperando convertirla in seguito. Questa perseveranza nel culto delle leggi di Mosè allontana da lei il rimprovero di avere sposato un pagano, e noi possiamo, senza contaminarci, entrare nella sua casa. Qualunque onest'uomo può sposare una donna divorziata per simile ragione. Ma gli è d'uopo d'una cosa: che Ida abbia uno scritto di suo marito che confermi codesto divorzio. Ella non l'ha, probabilmente. Occorre ad ogni costo che ne abbia uno, dovesse ella falsificarlo. Io m'incarico, se c'è di bisogno, di far domandare da Pilato questo attestato, se Cajus Crispus lo rifiuta. Nella condizione eccezionale di quella giovane, possiamo alterare il rito ordinario del matrimonio, accorciare le dilazioni, semplificare le formalità. In una parola, noi siamo padroni di agire un poco a nostro comodo, e preparare così dei motivi di nullità di matrimonio nel caso che tu te ne penta, o che abbandoni la tua follia.
- Grazie, Hannah, tu mi salvi. Corro a Berachah.
Vi corsi infatti immediatamente e vidi Moab. Gli dichiarai che volevo sposare la sua padrona, e gli spiegai il tutto.
Egli comprese. Promise di fare tutto ciò ch'era necessario, d'ottenere l'atto di divorzio, e di venire da me fra due giorni, per annunziarmi il risultato dei suoi passi. Ritornai più calmo, e, devo confessarlo? scusando me stesso della mia viltà.
Moab non disse una parola ad Ida di tutti questi accordi. A sua insaputa andò a vedere Pilato, nel giorno stesso, alla sua torre di Mariamne.
Ho saputo da Noah e da Moab, più tardi, i fatti che sto per raccontare, e li racconto qui onde far meglio comprendere le scene dolorose che stanno per svolgersi.
L'uomo che io aveva veduto uscire dalla casa di Ida, la notte in cui vi cercai un ricovero, era propriamente Pilato. Cajus Crispus non aveva mai veduto Ida. Colui che l'aveva comperata e fatta rapire era lo stesso Pilato. Il suo amante era Pilato. Nessuno conosceva questo amore. Egli andava a vederla la notte, e quasi tutte le notti. L'amore d'Ida era la brezza di quella vita bruciata da tante cupidigie e da tante passioni. Dopo la terribile scena però, ch'egli aveva avuto con sua moglie, Pilato aveva tremato forse; aveva avuto rimorso; in ogni caso e' voleva prepararsi il diritto d'essere d'ora in avanti severo con Claudia.
Ida l'aspettava come sempre. Quando ella udì il rumore dei cavalli, il rumore dei passi nell'atrium, corse, il sorriso sul volto, i baci sulle labbra, le braccia aperte. Ventidue ore della sua giornata erano un desiderio ed un preparamento a quelle due ore di beatitudine che passava col triste e cupo Romano. Ella cominciava a perder la speranza di vederlo in quella notte; la tempesta sfrenata metteva a soqquadro il cielo; l'ora ordinaria era scorsa. L'arrivo di Pilato le parve dunque una doppia festa. Ma appena fu egli penetrato nei raggi di quella camera da letto rischiarata vivamente, ella indietreggia colpita dall'aspetto di lui. Era orribilmente pallido, aveva gli occhi stravolti, gli abiti coperti di sangue, il braccio ferito, Ida gettò un grido. Pilato quella volta non le rese le sue carezze; non la calmò. Sedette, o meglio si lasciò cadere affranto sopra dei cuscini, e piegò la fronte fra le mani, sulle ginocchia. Ida corse a lui.
- Dio mio, Dio mio, cos'hai? gridò essa.
Pilato si alzò d'uno sbalzo, e baciandola in fronte le disse:
- Tranquillizzati. Questa notte hai d'uopo di tutta la tua calma. Vengo ad annunziarti una disgrazia.
- Che! non m'ami più? sclamò Ida tremante.
- Peggio ancora, Ida.
- Impossibile. Ma parla dunque, parla, Dio buono.
- Ida, non ho che alcuni istanti a darti, e darei la mia vita, per diminuirti l'amarezza. Ma non posso più nasconderti il vero senza disonore.
Ida gettò le braccia al collo del suo amante, e con voce soffocata, balbettò:
- Parla.
- Ida, io ti lascio.
- Come? tu mi lasci?
- Ida, amo mia moglie.
Le braccia d'Ida si sciolsero a poco a poco, un gemito sordo si sprigionò dal suo petto, e cadde al suolo fulminata. Pilato la prese fra le sue braccia, la posò dolcemente sul letto, e s'inginocchiò al suo capezzale, spiando, con gli occhi annegati di lagrime, il suo ritorno alla vita. Scorse lungo tempo. Finalmente, poco a poco, le pallide guancie, le labbra scolorite d'Ida si animarono, un soffio ardente traversò la sua bocca, le sue diafane narici palpitarono, le palpebre si aprirono dolcemente, smisuratamente, l'occhio ceruleo brillò come la stella mattutina, le lunghe ciglia tremarono; poi alzandosi di un colpo sul letto, gettando le braccia al collo dell'amante, e scoppiando in un riso convulso, ella gridò:
- Oh! amico mio, che sogno infame ho io fatto.
Pilato diede in un lungo sospiro, e tacque.
- Indovina! continuò Ida, ho sognato che tu mi lasciavi, dicendomi con voce breve e mortale: Amo mia moglie.
- Ida, non hai sognato.
- Non ho sognato, dici? gli è dunque vero! è vero che m'abbandoni e che ami quella donna, bella.... oh! bella, che ho veduta nel circo?
- È vero.
- E l'amavi tu, quando m'hai presa? L'amavi tu durante quelle notti lunghe e felici nelle quali mi hai mille volte ripetuto, che io era la luce della tua vita? L'amavi, quando mi prendevi sulle tue ginocchia, e la testa piegata sulle mie spalle, m'abbruciavi del tuo soffio, mi compenetravi di un fuoco che ci faceva tremare insieme, come due foglie sotto i buffi della tempesta? L'amavi tu, quando, qui, in questo posto, dove tu sei, dove sono io, m'inondavi dei tuoi sguardi come d'un bagno di fiamme, e che la tua anima si esalava in una cascata di baci? Dimmi, dimmi, era a lei che tu pensavi quando eri così vinto di tristezza, quando eri così fosco, quando sospiravi di così profondo, da sì lontano, che quel sospiro pareva uscisse dalla tomba della tua anima?
- Ida, mia moglie non sa ancora che io l'amo, che l'amo da sei anni! Ella non ha ancora ricevuto un solo bacio da me.
Ida balzò dal suo letto, e prendendo la testa di Pilato sul suo seno la coperse di baci.
- È vero quello che mi dici? è proprio vero, amor mio?
- È vero, Ida. L'è la mia terribile storia. Ma non è meno vero, figliuola mia, che io devo lasciarti per sempre, e che amai quella donna fatale dal primo giorno che la vidi.
- Tu non m'hai dunque mai amata!
- Ho fatto meglio che amarti, Ida, io ti ho considerata come il riposo della mia anima. I giorni felici della mia vita si contano con quelli che ho passato vicino a te.
- Ah! me ne ricordo ora: tu non mi hai mai detto d'amarmi. Sì, almeno non mi hai mentito. Ah! se tu sapessi, Ponzio, come io t'amo? Ma trovami dunque un paragone perchè io possa esprimerti come io t'amo, perocchè io, povera figlia del popolo, sono ignorante. Sì, ti sfido a trovare un paragone che non sia pallido e mentitore. Ma perchè non m'ami tu? Sono brutta forse? Sono cattiva? Mi vesto male, e non so dirti mille tenere cose? Me ne passano tante nell'anima, pure; te ne dico tante, quando non sei più là! Poi, non so come avvenga, dacchè tu arrivi, non so far altro che guardarti, abbracciarti, e poi.... ecco tutto! Ebbene inventa qualche cosa che valga un bacio tutto pregno di ciò che l'esistenza ha di più ardente. Dimmi i miei difetti, Ponzio, me ne correggerò. La mia testa, il mio corpo sono tuoi, fanne ciò che vuoi, col ferro e col fuoco.
- Ida, tu sei la creatura la più bella, la più soave, che io m'abbia vista in mia vita. Ma io amo mia moglie, che mi odia.
- Ma, io t'amo, io, Ponzio. Non sono così folgorantemente bella come tua moglie; ma io t'amo, non amo che te, non ho mai amato che te. Questa sera sono una stolida, vedi! Ho ricevuto un colpo troppo forte dalle tue parole. Ma vedrai domani sera come ti dirò delle cose gentili, come mi farò bella. M'adornerò dei bei giojelli che mi hai regalati. Il vecchio Thorix mi coglierà dei fiori che metterò nei miei capelli. Vedrai come Noah mi pettinerà bene. La povera ragazza ruberebbe la bellezza d'una regina per adornarmene, e farti piacere. Ceneremo insieme domani sera. Ti canterò quella bella canzone del tuo paese che m'hai insegnata..... Vedi, Ponzio, ti parlerò in Iberiano.
- Ida, fanciulla mia, non c'è più «domani sera» per noi! Ti dico addio per sempre.
- Oh! impossibile, impossibile, ti dico. Non si viene da una povera ragazza che ti ama, che non ti ha mai fatto del male, e non le si dice con quell'accento feroce che hai questa sera nella voce: Addio! addio, sia pure: ma nel cielo. Uccidimi, ucciditi, ed andiamo a ritrovarci in seno al Dio d'Abraham. Chi è dunque che ti ha consigliato di venirmi a torturare così, stanotte, con codesto orribile scherzo? È tua moglie forse. Ma di che sarebbe ella gelosa poichè la è così bella, più bella di me?
Pilato si alzò. Questa specie di divagazione della giovinetta, lo straziava.
- Ida, diss'egli, da alcune ore una nuova vita è principiata per noi. Mia moglie ha un amante che io non ho il diritto di uccidere, ma ella ti ucciderebbe se sapesse che tu sei mia. Eppure, Dio sa quanti rimorsi m'hanno costato queste goccie di consolazione di cui tu hai sparso la mia vita lugubre e disonorata. Io mi getto in un avvenire di tenebre, cui non oso guardar di fronte, e nemmeno intravedere. Non so cosa avverrà di me. So che non posso ormai continuare a vederti senza insultarti, senza insultare me stesso, senza insultare la donna che porta il mio nome. Tu ti consolerai, col tempo. Sei pura, sei restata pura anche sotto i tristi baci strappati al mio dolore. Sei giovane, l'avvenire è un abbagliante promettitore: confida in lui. Se sei stata punta da un'ortica cogliendo delle mammole, i fiori che si schiudevano nelle tue braccia non saranno men belli, quando il bruciore sarà calmato. Ah! potessi dire altrettanto di me! Gli Dei mi hanno messo nel cuore un amore per farne il mio carnefice....
- Cessa, o Ponzio, disse Ida, vedo che tu sei infelice, e che sei determinato. Oh! come vorrei vedere tua moglie, e dirle quanto tu sei buono, e supplicarla a ginocchio di amarti.
- Ida, Ida, sclamò Pilato abbracciandola in un accesso di delirio, perchè non posso io dirti: t'amo! tu sei la più nobile di tutte le creature!
Poi sciogliendosi ad un tratto da quella stretta, si precipitò fuori della stanza gridando:
- Addio, mia gioja perduta, addio consolazione celeste, sii felice per sempre!
- Pilato! Pilato! gridò Ida come risvegliandosi di un balzo, ancora una parola, un ultimo bacio. Pilato! ascoltami, Pilato
Pilato era già nella corte ed usciva dalla cinta. Ida corse fino all'atrio, e cadde svenuta nelle braccia del vecchio Thorix, il suo giardiniere gallo.
Dopo quella notte, Pilato non uscì più dalla sua torre, consumato da una implacabile malinconia.
Ida si strusse in lagrime, dopo due giorni di delirio, ed otto di febbre. Noah, Febea, la vecchia moglie del giardiniere, vegliarono giorno e notte su lei. Infine ella si alzò come dal fondo d'una tomba ove aveva lasciato la sua gioja, la sua speranza, la sua gioventù. Il giorno stesso in cui potè dare degli ordini, rese la libertà a tutti gli schiavi di cui Pilato l'aveva circondata, come una piccola regina. Thorix che da trent'anni abitava quella casa, passando di padrone in padrone, attaccato a quella gleba di cui aveva fatto un piccolo paradiso, a quelle piante, a quei fiori, a tutta la creazione che aveva imposta a quelle nude roccie, non volle la libertà, onde non lasciare quel mondo che era nato sotto le sue mani. Febea non abbandonò suo marito. Noah rifiutò di separarsi dalla sua padrona.
Intanto, Ida - continuo a chiamarla così - avendo perduto l'amante, non volle conservarne le reliquie. In questa casa, tutto le ricordava una felicità svanita, un amore che aveva naufragato al primo volo. Ma dove andare? Che divenire? Allora il pensiero di sua madre, della casa di suo padre, brillò come un arcobaleno dinanzi ai suoi occhi. Bisognava far loro conoscere la sua posizione. Chi inviare? Ella non aveva nessuno cui confidarsi. Moab era ancora molto ammalato, malgrado le cure ed i rimedii secreti di Febea che lo vegliava. Thorix non comprendeva quel mondo di cose, che una donna sa, od indovina, e che Ida voleva far conoscere a sua madre, per commuoverla. Prese una risoluzione, ed un mattino fece montare Noah sopra un cammello, Thorix sopra un asino onde accompagnarla, e li inviò a Nazareth.
Gesù conosceva da lungo tempo la dolorosa storia di sua sorella, dalla sua vendita al suo destino finale. Non ne aveva detto nulla nè a sua madre, nè ai suoi fratelli, nè a sua sorella. Noah trovò la famiglia partita per Cafarnaum. Ida sapeva già la morte del padre. Gesù era assente.
È impossibile descrivere il lutto che si abbattè sul cuore della povera madre del Rabbì, al racconto misto di lagrime che le fece Noah. Ne parlò ai suoi figli. Un grido di riprovazione sorse da tutta la famiglia.
I fratelli, l'altra sorella del Rabbì, erano gente di intelligenza limitata, rozzi, senza cuore, pieni d'avidità, d'ambizione, d'invidia, e di gelosia. La madre avrebbe voluto attendere a rispondere fino all'arrivo di Gesù, che era allora il capo della famiglia, essendo il primogenito. Ma gli altri figliuoli della moglie del carpentiere si pronunziarono in forma chiara ed energica «Mirjam è una straniera per noi, se la mette il piede in questa casa, noi la lasciamo tutti, ti lasciamo tutti, madre, o l'anneghiamo nel lago.» Questa è la risposta che la povera Noah udì tremante, e la sola che potè recare alla sua padrona.
Ida aveva ricevuto questa comunicazione da due giorni, allorchè io picchiai alla sua porta.
In questa situazione, si comprende la proposizione che mi venne fatta da Moab. Occorreva a quella povera giovane un angolo per ricoverarsi, poichè era decisa ad abbandonare la casa di marmo ed il delizioso rifugio donato da Pilato.
Ida, nonpertanto, sperava ancora nel ritorno del suo amante. Non poteva rendersi conto di ciò che era accaduto, e come in alcuni minuti avesse potuto rompersi un legame tessuto d'oro e di raggi per due anni. Per determinarla era mestieri un colpo decisivo.....
Moab stava per portarlo.
Egli si recò da Pilato.
Lo trovò in un piccolo appartamento nella torre Mariamna, molto poco ed assai semplicemente ammobigliato. Dappertutto c'erano soldati romani, cosicchè l'avresti detto alloggiato in un accampamento in tempo di guerra. Moab fu introdotto appena fece dire qual era il suo nome, e che veniva da Berachah.
Una certa emozione si dipinse sul viso di Pilato. L'aspetto di quell'uomo gli faceva ricordare tante cose, tanti giorni felici, irrevocabilmente tramontati! Imperciocchè Pilato era davvero cupamente triste, pallido più del solito, e come consunto da una febbre che non gli dava tregua. Lo si sarebbe detto convalescente. Aveva ancora il braccio avvolto in un pezzo di stoffa.
- È accaduta qualche disgrazia? gli chiese Pilato ansiosamente.
- La disgrazia sta di casa da noi, rispose Moab, non può dunque più arrivare.
- Parla, allora. È Ida che t'invia?
- No. Ella non conosce il passo che io faccio. Agisco di mia propria ispirazione.
Pilato prese un'aria più fredda, e soggiunse:
- Cosa vuoi dunque?
- Ecco, in due parole: m'occorre una tua lettera ad Ida, nella quale tu, nella maniera più definitiva e più formale, le dichiari che la non debba più pensare a te, perchè tu sei felice con tua moglie.
- Proprio! sclamò Pilato.
- Che la debba maritarsi, se trova uno sposo, e dimenticare il passato.
- È tutto?
- Non ancora. Mi farai poi uno scritto, in nome di Cajus Crispus, che dica ch'egli l'ha ripudiata, e che Ida è libera di convolare a nuove nozze.
- Quante nozze nelle tue parole! Stanno esse soltanto nel tuo discorso?
- No.
- Come no! Ida si mariterebbe dunque di già?
- Non è lei che si marita, sono io che la marito.
- Tu? ma, fulmini di Giove! parla dunque chiaro e presto.
- Io procedo per ordine. Non posso principiare dalla fine.
- Allora?
- Ebbene! Tu sai che Ida non vuole nulla da te, che ti ha rinviato i tuoi schiavi, e che si apparecchia a lasciare la casa che le hai data. Ella inviò Noah presso sua madre a Cafarnaum. N'ebbe in risposta: che non la conoscono più, e che se si arrischia a por piede in quella casa, i suoi fratelli la annegheranno nel lago di Gennezareth.
- Bestie brutali.'
- Cosa vuoi? ci sono dei bruti simili, i quali considerano che l'onore è ancora qualche cosa in questo mondo. Non sei dell'istessa opinione tu, marito di Claudia Paolilla?
Pilato fulminò di uno sguardo il suo insultatore, e non rispose. Moab continuò:
- Tu sai inoltre che Ida è povera, che è giovine e bella, e che, malgrado il tuo contatto, la è una delle più pure figlie d'Israello. Che diverrà ella quando sia uscita da quella casa, ove tutto le ricorda una gioja estinta, un amore oltraggiato, l'onore perduto? La sua vita è nelle lagrime; se non lascia quella casa, ella morrà.
- Che posso io fare?
- Quello che ti ho chiesto.
- Con quale scopo?
- Tel dico subito. Ti ricordi di quel giovane Giuda bar Simone da Kariot, che nel circo salvò la vita di tua moglie, che tu facesti arrestare, e ch'ella fece porre in libertà?
- Me ne ricordo.
- Ebbene questo giovane vide Ida nel circo, e ne fu colpito nel cuore. Egli la cercò, mi cercò, ma non potè allora trovarci. Per uno strano caso, una notte di tempesta, quella stessa in cui egli uscì dal palazzo d'Erode ed andava a Betlemme onde veder sua madre, egli si ricoverò a Berachah.
- Lo incontrai per via.
- Quindici giorni dopo, egli venne a ringraziar Ida; la rivide, la riconobbe, e la sua pazzia scoppiò. Lo misi alla porta, dichiarandogli che la vedova di Cajus Crispus non riceverebbe ormai che quegli che venisse a domandare la sua mano.
- Ed è ritornato?
- Mi ha domandato, quindici giorni dopo, di sposare Ida. Non l'ha riveduta. Non le ha nulla domandato. Vuole ora inviare il sagan a portare il suo messaggio.
- E Ida non ne sa nulla?
- Assolutamente nulla.
- Tu dunque non vieni in suo nome?
- Te l'ho già detto.
- Ebbene, io respingo la tua dimanda.
- E perchè la respingi tu?
- -Dapprima, perchè così mi piace; poi, perchè sei tu che me la fai; finalmente, perchè non credo alla tua storia, e che essa deve coprire qualche vergognoso mercato.
- Pilato, non abbiamo l'abitudine, noi, di comperare le nipoti a degli zii infami, e di farle rapire. Io ti ho detto il vero. Tu puoi assicurartene come meglio vorrai.
- Non ho d'uopo di verificare nulla; i vostri nomi me lo dicono abbastanza.
- Non so quale obbjezione hai contro i nostri nomi, e non vengo a spiegarmi a questo proposito. Si tratta d'altro.
- Di che dunque?
- Di che? disse Moab principiando a torcersi le mani e a respirare più violentemente, di che? Tu hai disonorato una povera fanciulla che non aveva nulla fatto per provocare una simile sventura. Questa fanciulla ti ha amato, è ancora onesta abbastanza per rifiutare il prezzo dell'amore ch'ella ti ha dato, e non venduto. Ora questa povera creatura, che ti ama ancora, ha qualcuno che s'interessa a lei, e che l'ama, l'ama al punto di dimenticare che la è stata gualcita....
- Sarebbe dunque ben felice, quel giovane, ottenendo Ida?
- Il passo ch'egli fa, lo dice ad esuberanza.
- Non la sposerebbe senza questi scritti che mi domandi?
- L'uno serve a decidere Ida; l'altro a redimerla, e rendere la sua disgrazia dignitosa.
- Ed egli si riputerebbe ben infelice, codesto Giuda, se dovesse91 rinunziare a lei?
- Lo credo. Io m'intendo poco d'amore, ma e' mi pare colpito da demenza.
- Ebbene, io rifiuto reciso di cooperare a codeste nozze.
- Ma rifletti, Pilato, che qui non si tratta di Giuda, ma d'Ida, continuò Moab con grande calma nella voce mentre che i colori si alternavano sul suo sembiante. Dimentica Giuda, e le ragioni che puoi avere contro di lui, se tuttavia ne hai alcuna. Ma potrai tu riposar tranquillo le tue notti, quando avrai gettato questa povera figlia sul lastrico, forse in mezzo a quelle disgraziate che portano la testa coperta ed il corpo nudo, agli angoli delle strade? Se io avessi un ricovero, io non sarei qui, non ti parlerei supplicante come fo. Ma il mio covo, il mio, gli è quello da cui scaccio nel deserto la tigre ed il leopardo. Posso io condurre quella povera creatura in quell'inferno? Non ho un pezzo di pane, vivo di radici, di locuste, di qualche lappata di mele che disputo alle vespe. Posso nutrire quell'essere delicato di queste immondizie? Non so lavorare. Il mio mestiere è di pregare, di far del bene, di fulminare il vizio, d'amare il mio paese, di detestare e combattere lo straniero. Varrebbe meglio forse coltivare la terra. Nol so. Ma è troppo tardi per tornare a ciò. E poi non è di questo che ora si tratta. Pensaci! cosa diverrà Ida una volta partita da Berachah? Pilato non ascoltava più Moab, forse non lo vedeva più. Passeggiava a passi concitati, e parlava a se stesso.
- Ecco gli amori eterni! L'eternità d'una donna, della più innamorata, non è dunque che quindici giorni? Come! il suo viso è ancora rosso dell'alito mio! i miei baci aleggiano ancora sulle sue labbra, le sue pupille riflettono ancora il mio viso, e già, già! ella apre le sue braccia ad un altro uomo! Puh! Ebbene, no; io non coopererò a questa infamia. La prostituzione di questa ragazza principierebbe nel giorno delle sue nozze.
- Pilato, non dir ciò. Gli è male ciò che tu pensi, e ciò che vuoi fare. Tu non hai mai amato Ida; donde ti viene codesta gelosia?
- Non è gelosia, è nausea. Io vendico la morale.
- Marito di Claudia, ti proibisco di pronunziare codesta parola, parlando d'Ida.
- Che! tu....
- Sei stato un infame, non esser vile.
- Va fuori.... fuori da qui, miserabile furfante
- Sì, uscirò, rispose Moab, ma quando l'avrò vendicata codesta morale, l'onore, il mio paese, ed Ida....
E così dicendo Moab cavò un pugnale e si scagliò su Pilato.
Pilato gettò un grido: cinque o sei soldati si precipitarono nella stanza.
XXI
Io attesi Moab tre giorni. Non sapevo ch'egli era stato arrestato dopo aver ferito Pilato alla spalla. Non osavo andare a Berachah. Una inquietudine febbrile non mi lasciava decidere sopra alcuna risoluzione. Percorrevo le vie di Gerusalemme dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina. Justus, che mi aveva evitato fino allora, credendomi istrutto delle sue infamie, ora, più tranquillo, mi seguiva dovunque.
Avevo già visitato Lazzaro quattro o cinque volte, dopo il mio ritorno, per aver notizie del Rabbì di Nazareth. Volevo inviarlo da sua sorella onde intercedere per me; giacchè, certamente, il Rabbì non poteva sperare uno scioglimento più fortunato dalla fatale posizione in cui Ida si trovava. Finalmente, in una corsa fatta un mattino a Bethania, Marta, sorella di Lazzaro, m'annunziò che il Nazareno arriverebbe per le feste del Purim. Mi sovvenni allora della lettera sì pressante di Claudia, ed andai al palazzo di Erode per dargliene notizia.
Ricorderò qui che io non conosceva nulla allora di tutto ciò che ho raccontato di Pilato e d'Ida, e che io credeva sempre che ella fosse stata l'amante di Crispus.
Claudia m'aspettava con impazienza da diversi giorni. Cento pazzie fermentavano nel suo capo.
- E il tuo messia? - mi domandò avanti che io neppure avessi passato la soglia della sua porta, - ove l'hai tu lasciato, il tuo messia? Perchè non entra?
- È per istrada, Claudia; arriva fra pochi giorni, al quindici di questo mese.
- Gli piacerebbero le mascherate, per avventura?
- Credo che non n'esca giammai, risposi ridendo. Hai dunque molta fretta d'interrogarlo?
- È desso almeno del calibro di Simone di Samaria?
- Non posso compararli; non lavorano nell'istesso genere. Ma il mio Rabbì, Claudia, mi sembra un compare non comune. È serio; è severo; difficile a maneggiare, come un giovine mulo; non ha passioni che diano presa su di lui; è ostinato e disinteressato; e vaneggia come dieci profeti.
- È dunque la perfezione che sei ito a dissotterrare in quella provincia! osservò Claudia. Mi dai la febbre dal desiderio di vederlo.
- Non potrei surrogarlo io, per un momento?
- Sei curioso? Ebbene non ti dirò nulla. Quando una donna ha una piaga, è già molto se la mostra al suo medico.
- Preferisco vedere le tue belle spalle, o Claudia, ed i tuoi occhi tumultuosi, che le tue piaghe. Ne ho abbastanza delle mie.
- Dimmi anzitutto a che punto sono i nostri affari più serii.
- Non potrebbero progredire più prosperamente. La Galilea e la Samaria non attendono che una parola per insorgere. In quei paesi, gli Erodiani ed i Zeloti che seguono i figli di Giuda di Gamala, sono animati d'uno spirito irresistibile. Antipas arriverà per la festa del paschah con un seguito numeroso, il quale prenderà le armi al momento della sommossa. Un migliajo di giovani del suo Stato lo precedono in occasione della festa, ed i sotterranei del palazzo d'Antipas si riempiono già di ciò che occorre per armarli. Il popolo di Gerusalemme è molto eccitato. I Farisei ed i Sadducei che si odiano fra loro, convengono in questo: che val meglio, cacciati i Romani, che uno dei due partiti resti padrone, dopo la distruzione dell'altro, anzi che lasciar dominare lo straniero, il quale li schiaccia tutti, anche quando favorisce il Sadduceo. Gli Esseniani, che professano principii contrarii a quelli dei due altri partiti, s'accordano in questo con loro: che occorre purificare il suolo d'Israello dalla presenza degli infedeli. Noi, Sadducei, vogliamo un governo oligarchico che soggioghi il partito del Tempio, una repubblica con gli efori come in Grecia. I Farisei vogliono una monarchia popolare, ma sacerdotale: il prete ed il re, confusi nell'istessa persona. Gli Esseniani vogliono una monarchia, o piuttosto una repubblica teocratica, ma tutta del popolo, tutta per il popolo, e fatta dal popolo. I Zeloti sono comunisti come gli Esseniani. Ma tutto ciò detesta Roma e vuole frangere la potenza. Infine, il Rabbì che io conduco vuole l'assorbimento del popolo e della nazione in un sol uomo, che emani direttamente da Dio, che abbia potere illimitato sulle anime e sugli individui, che confonda il trono e l'altare, che confonda le nazioni nell'istessa abdicazione in favore di questo eletto di Dio, luogotenente di Dio, onnipossente come Dio, arbitrario come Dio, figlio di Dio, e dell'istessa sua essenza.
- Che abbominevole garbuglio!
- Questo garbuglio però, forma un massa contro Roma. Hanno delle armi, del cuore, della disperazione e della costanza, sono irriflessivi ed atroci.
- Il tuo Rabbì entra dunque egli pure nella politica?
- Per la porta di dietro, ma vi s'impianta come un pilastro.
- Legge egli nel pensiero?
- Io non l'ho veduto leggere che l'ebraico nel Torah, e molto bene.
- Indovina il futuro?
- Non è ciò che è difficile: il difficile è decifrare il passato.
- Compone dei filtri, dei veleni, degli incanti?
- Cosa non si farebbe per te, o Claudia? Chiedimi di servirti una stella stemperata in una coppa d'acqua, ed io te l'appresto.
- E se ti chiedessi di uccidere un uomo?
- E che bisogno hai tu di me, mentre puoi ucciderlo con un solo tuo sguardo? I tuoi occhi sono come quel piccolo pesce del mar indiano, che d'un colpo di pinna sprofonda un naviglio.
Io principiava a dimenticare, in questi scherzi, la mia cupa preoccupazione, quando il nostro conversare fu interrotto dall'arrivo di Pilato. Eccetto il suo pallore, nulla tradiva la ferita che aveva ricevuto da Moab. Avanzò lentamente nella stanza, ed i suoi occhi s'animarono d'una subita luce, vedendomi e riconoscendomi.
Egli credeva sempre che io fossi l'amante di sua moglie. Claudia non fece a lui maggior attenzione che se fosse stato uno dei suoi schiavi.
Pilato le porse una lettera dicendole:
- È di Cesare.
Claudia la prese, la guardò, la riconobbe e la gettò da parte, domandandomi:
- L'è dunque burlesca la vostra festa del Purim?
- Valgono meglio le bacchanalia, risposi, alzandomi e salutando Pilato come per partire.
- A proposito, Claudia, disse Pilato, bisogna che tu faccia un regalo di nozze alla fidanzata di codesto giovine. Egli si ammoglia.
- È vero? mi domandò Claudia, con aria allegra.
- Pel momento, io risposi sull'istesso tuono, non è vero che per metà. Sposo una donna che non lo sa ancora.
Claudia si alzò, entrò nella stanza vicina, e ritornò immediatamente con un pugno di gioielli, dicendomi:
- Prendi, Giuda: per la tua fidanzata.
Pilato sembrava stupidito. Non comprendeva nulla a quell'indifferenza di Claudia ad una notizia ch'egli le dava per atterrarla. Credette quindi che noi fingessimo la calma.
- Ti ringrazio, risposi. Accetterò il tuo regalo quando il matrimonio sarà deciso.
- Mi condurrai tua moglie, Giuda, riprese Claudia, se la non teme contaminarsi entrando in una casa di pagani. Non dubito che la tua compagna non sia una nobile, bella e pura fanciulla, che io sarò felice di vedere.
- Sua moglie è tutto ciò, Claudia, rispose Pilato; io la conosco.
- Tu la conosci! sclamò Claudia rizzandosi sulla persona e fissando suo marito negli occhi.
- Si, ho avuto diverse occasioni di portarle i messaggi di suo marito, il mio amico Cajus Crispus.
- Che mi vai bisticciando?
- Sì, codesto giovane sposa la donna cui Cajus Crispus ha or ora divorziato.
- Capisco, disse Claudia tristemente. Poi, dopo un istante di silenzio, soggiunse: Avrei preferito ch'egli avesse sposato una giovinetta conosciuta da lui, cui lo sguardo della madre non avesse abbandonata giammai, e che fosse sempre restata sotto la protezione di suo padre.
- Hai ragione, Claudia, risposi sospirando; ma di tutti i tiranni, il cuore è il più inesorabile.
- Ahimè! è vero! fece Pilato.
- L'è dunque assai bella, codesta giovine donna? chiese Claudia.
- Non come te, Minerva romana.
- È stupendamente bella, rispose Pilato. E fui anch'io92 sul punto di diventarne innamorato, aggiunse sorridendo.
Claudia ed io lo guardammo con uno sguardo differente, ma egualmente feroce.
- Mi permetterai tu, il mio giovine, disse Pilato con tuono sdegnosamente sarcastico, di porgere un regalo di nozze alla dama, che ebbi, non ha guari, ancora il piacere di vedere?
- Grazie, risposi freddamente: io non conosco nulla di più costoso d'un regalo; ed io sono troppo povero per pagarlo, troppo orgoglioso per riceverlo.
- Orgoglioso! disse Pilato sorridendo: difatti. Credo che Ida sia molto ricca. Gli è vero?
- È falso. La donna che io prendo ha per unico adornamento i suoi capelli, per tutta ricchezza la sua bellezza. Ella non ne porta alcun'altra nella mia casa.
Pilato sorrise, e non rispose.
- Cajus Crispus sarebbe dunque così taccagno e così ignobile, osservò Claudia, di riprendere alla moglie ch'egli rinvia, i doni che le fece?
- A proposito, disse Pilato, tre o quattro giorni fa, Ida m'inviò un uomo per pregarmi di ottenere da Crispus l'atto del divorzio. Ho ricevuto questa mattina codesto atto e mi disponevo a portarglielo. Ma poichè il suo fidanzato è qui...
Feci un movimento di gioia, e arrossii.
- Vuoi tu incaricarti di questa piccola missione, giovinotto? fece Pilato sorridendo sardonicamente.
- Volentieri.
- Dirai a Ida che il ritardo non proviene da colpa mia. Deve proprio contar le ore, quella bella figliuola, dopo una separazione di due mesi circa da Crispus, di passare in altre braccia più giovani, e più carezzanti.
C'era in tutte le parole di Pilato un motteggio e un'amarezza, che mi davano i brividi di collera e di sospetto. Gli risposi:
- Noi altri, rozzi ebrei, non siamo esperti nel ripetere di sì squisiti complimenti iberici; lascio quindi cader qui le tue parole, e vi passo sopra.
- Come vuoi. Questo complimento, portato al suo indirizzo e balbettato da te o da uno schiavo, ha per me sempre l'istesso valore. Io parlo in nome di Cajus Crispus.
- Cajus Crispus è, credo, in Antiochia.
- In Samaria.
- Ho letto in un libro egiziano, che le montagne talvolta s'incontrano. Ci credi tu, Pilato?
- Più facilmente che gli uomini, quando l'uno è posto così alto e l'altro così basso.
- Scusa! c'è un tratto di unione in acciajo che avvicina le distanze.
- E' può sopprimerle, piccino mio, non mai ravvicinarle. Del resto Cajus Crispus è maestro in fatto di conoscenze di montagne che camminano, e può darti migliori spiegazioni delle mie.
- Non capisco nulla a tutte codeste chiacchiere, disse Claudia. Io so soltanto che Crispus è stato un uomo indegno ripudiando questa ragazza ebrea, che è, dite voi, oscura, povera e modesta, e conservando la sua moglie di Roma, che è ricca, infame, nella bocca di tutti i giovani effeminati e di tutti i vecchi impuri della via Sacra.
- Lasso! fece Pilato, gli uomini non hanno sempre il coraggio di uccidersi, quando contraggono la lebbra di certi amori, che divengono come la tonaca di Nesso. Ho imparato a perdonare.
- Gli è che hanno dessi nell'anima una lebbra più sordida ancora di quella del cuore, la quale li rende vili, fe' di rimando Claudia, fissando sopra suo marito un tale sguardo di sprezzo, che avrebbe sepolto a cento braccia sotto terra la statua di Giove Capitolino.
Pilato s'accorse che la conversazione prendeva una piega doppiamente pericolosa; ma volle lanciarmi un altra freccia prima di partire. Io non compresi la malignità di questa scena che più tardi, quando seppi che Ida era stata sua ganza. Pilato mi odiava come amante di sua moglie, come colui che gli rubava le ultime memorie di quella ganza, e gongolava nello stesso tempo che la fatalità riparatrice gettasse fra le mie braccia, come moglie, quella che egli aveva posseduto come favorita.
- Giovane, diss'egli, tu hai avuto fretta d'entrare in quel paradiso ove i libri sacri del tuo paese nicchiano il serpente. Se ve lo trovi ancora, se ti morde, ricordati che Ida, la quale conosce così bene il valore del tempo, sa pure che ella conserva, anche dopo il divorzio, quel diritto di cittadina romana che le aveva conferito suo marito, e che v'è a Gerusalemme un procuratore di Roma per renderle giustizia.
Non attese la mia risposta e partì. Io era impaziente d'inviare ad Ida i documenti ed il messaggio che dovevano decidere della mia sorte. Il sagan si condusse lo stesso giorno a Berachah.
Una grande costernazione regnava nella casa, in causa della scomparsa di Moab. Si passava in rivista ogni sorta di congetture, tutte lontane dal vero. Ciò che Moab aveva fatto, era per induzione e per determinazione personale. Ida non ne sapeva nulla.
Il sagan poco poteva apprenderle.
L'arrivo di questo personaggio, il più considerevole dopo Pilato ed il governatore della Siria, accrebbe lo scompiglio. Noah lo introdusse subito nel tablinum, e lo annunziò alla sua padrona.
Ida uscì immediatamente per ricevere Hannah. Come Pilato, come Moab, come io stesso, egli fu colpito al cuore dalla bellezza fatale di quella fanciulla. Appena trovò da biascicare qualche parola, porgendole il pacco di lettere di Pilato. Ella tremò in tutta la persona, a questo nome, e l'aprì precipitosamente.
L'involto conteneva93 un atto di divorzio di Cajus Crispus, ch'egli aveva fatto redigere, ed una lettera ch'egli stesso scriveva ad Ida. La giovinetta vide prima l'atto del divorzio, cui lesse, mostrandosene sorpresa, e non comprendendone nulla. Poi ella lesse la lettera. Io seppi più tardi tutto ciò. Ecco ciò che Pilato le scriveva:
«Ponzio Pilato a Ida, salute!
«Ida, il ritardo di questa lettera è involontario.
«Ne sono causa una ferita che ho ricevuto alla spalla dal tuo messaggero, e la lentezza del corriere che ho inviato al mio amico Cajus Crispus, ritornato soltanto questa mane.
«Ecco la risposta di Crispus.
«Così, tu puoi ora maritarti. Ti avevo detto addio per sempre. Te lo ripeto ancora una volta. Amo mia moglie. Ti lasciai con rammarico il giorno che mi separai da te. Mi parve che il tuo dolore avesse l'aria della disperazione. Mi parve che tu mi amassi ancora. Questo rammarico è ora cessato.
«Il tuo dolore, non ha avuto indomani.
«Il tuo amore, che si era svenuto nelle lagrime, si è risvegliato poche ore dopo nelle braccia di un marito. Hai fatto bene. Grazie. Tu mi guarisci dai rimorsi. Tu alleggerisci le mie memorie del passato dalle preoccupazioni dell'avvenire. Il disinganno al postutto è un grande beneficio: brucia le vecchie piaghe per guarirle. Io non aveva alcun dritto ad una affezione di cui tu sola avevi formato il capitale. Non ho dunque a rivolgerti alcun rimprovero, e, ne avessi anche il diritto, non lo farei. Sii felice, se lo puoi, se la felicità può esistere in codeste affezioni apopletiche che scattan di botto e muoiono all'istante. Però, se un giorno fossi visitata dalla disgrazia, ricordati di me, che non dimenticherò mai di qual balsamo tu hai profumato le ore del mio spaventevole dolore. Addio.»
Ida lesse questa lettera cogli occhi acciecati dalle lagrime, il singhiozzo nella gola, il rantolo nel petto. Alla parola «addio» cadde al suolo svenuta. Il sagan che non sapeva nulla, nè dell'istoria di Pilato, nè del contenuto della lettera, corse a chiamare Noah, che prese fra le braccia la sua padrona, e la trasportò priva di sensi nella sua stanza da letto.
Hannah attese più d'un'ora, solo, nel tablinum, prima d'aver notizie dell'ammalata. Mille pensieri l'assalivano. Fu sul punto di partire per ritornare un altro giorno; ma la curiosità, l'interesse ch'egli prendeva per quella bella creatura, lo trattennero. Attese. Alla fine Noah venne a dirgli che la sua padrona era in istato di riceverlo.
Entrò infatti nel piccolo gabinetto vicino al tablinum, ove trovò Ida, stesa sopra un letto di cuscini, più calma, ma spaventevolmente pallida.
- Perdonami, o principe, diss'ella. Mi sono sentita morire, malgrado gli sforzi che ho fatto per non mancarti di rispetto.
- Sei tu in grado d'ascoltarmi? Ho a farti un grave messaggio. Se sei ancora debole, ritornerò domani.
- Oh! no; parla; io posso udir tutto, adesso. Ho subito la grande prova.
- Allora sarò corto e preciso.
- Occorre rinviare Noah? Ella conosce tutta la mia vita, tutta la mia anima.
- Che resti dunque, disse il sagan. Ecco di che si tratta. Tu hai veduto qui due volte un giovine mio amico, Giuda di Kariot.
- Credo di si.
- Egli ti ama.
- Disgraziato!
- Vengo in suo nome a chiederti in matrimonio.
Ida rimase come attonita.
- In matrimonio?
- Vengo a supplicarti a nome suo di non rifiutarlo.
- Questo scherno è crudele, mormorò Ida, sciogliendosi in lagrime.
- Non è uno scherno, Ida; io non son uomo da prestarmi a simili cose.
- Ma egli non mi conosce punto.
- Egli ti ama. E ti conosce abbastanza per condurti come sua moglie sotto il tetto ove suo padre è morto, ove sua madre dorme, ed ove sua sorella vive.
Ida dette di nuovo in singhiozzi.
- Dio mio! perchè sono io indegna della felicità, che è serbata alle altre fanciulle della mia età!
- Consolati, Ida; tu non sei la prima donna ripudiata, la quale passi dal letto desolato d'un marito che la respinge a quello di un marito che l'attende come una benedizione.
- Io non sono una donna ripudiata, io.
- Che importa se il mondo lo crede, dacchè l'uomo che ti vuole sua dimentica cosa sei!
- Ma io amo, amo ancora, non posso obbliare, io. Io ho l'anima, il cuore, la bocca, gli occhi, tutta la mia esistenza, la notte come il giorno, desta o sognando, pregni di quell'uomo che ha avuto il mio primo bacio, che ha soffiato sulla bianca nuvola della mia infanzia.
- Giuda ti amerà per due.
- Oh! no; ciò è impossibile. Non aggiungiamo il rimorso al dolore. Non aggiungiamo ai ricordi d'un cuore gualcito, la ripugnanza alle carezze che sono sante dinanzi a Dio, e che diverrebbero infamia per me. Io non posso accettare l'offerta di cui mi parli. Mi sprezzereste se lo facessi.
- Se per mio conto io dovessi sprezzarti non sarei venuto a portarti la parola supplichevole del mio amico. Puoi accettare senza timore.
- Ma io non l'amo. Non si può darsi senza amare.
- Credi che sia più difficile il darsi ad un uomo che non si ama, che il prendere una donna che ne ama un altro?
Ida restò silenziosa per un istante.
- È impossibile, obiettò ella di nuovo. Non posso farmi a questa idea. Lasciatemi respirare. Se sapeste sopra quali rovine voi camminate. Un momento fa ho creduto morire. Mi si sospetta; mi si dice: Maritati! si dubita del passato, mi si sprezza forse... Maritati! Ma egli crederebbe tutto questo; riterrebbe certo che io non l'ho mai amato, che non l'amo più: sarei infame ai suoi occhi! No, no. Che m'importa che egli ami sua moglie, e che mi percuota le gote con codesto amore? Cosa sono io per essere orgogliosa? Capisci, principe? Direbbe: ella si marita, eccola lì. Ieri diceva ancora: ritorna! ieri ella sperava ancora, si abbiosciava nella desolazione: oggi sorride al primo giovinotto che le sorride, e lo segue. Ella mentiva. Che importa che codest'uomo si chiami marito o amante? Ella lo segue. Il cuore non conosce nozze. Ebbene, principe, vuoi tu che io sia disonorata agli occhi d'uno d'essi e peccatrice dinanzi gli occhi dell'altro: indegna per entrambi? Ma non senti tu dunque che quest'aria palpita ancora dei baci di un altro?
- Calmati. Tu entrerai in un altro mondo.
- Non ce n'è che uno di possibile per me: quello della tomba. Ovunque, fuori di là, v'è il rimprovero e l'obbrobrio.
- Ascolta, figlia mia, disse il sagan prendendole le mani agghiacciate: prima di vederti e di ascoltarti, nel mio cuore io condannava il mio amico. Io mi diceva: Perchè far violenza ad una donna che ne ama un altro? perchè urtare contro una passione che brucia di fiamme così cupe? Ora io comprendo il mio amico. Non lo biasimo più, lo scuso. Lo compiangerei, al contrario, se il mio messaggio non riescisse. Io peso tutte le tue ragioni; e ti stimo. Ma rifletti d'altra parte, figliuola mia, al tuo avvenire. Dico di più; rifletti all'attuale tua posizione. Chi sei tu? Cosa sei tu? Ogni cosa che ti circonda è una creazione della tua vergogna. Ogni soffio d'aria che respiri è pregno di disprezzo. Tu trovi un uomo il cui possente amore ti attrae in una più pura atmosfera. Non vuoi seguirlo perchè non lo ami, perchè ne ami un altro. Ti ama egli dunque ancora, colui che ti respinge? Comprende egli dunque il tuo sacrifizio? Che cosa ti consiglia egli?
- Mi disprezza, mi deride, mi crede già infedele alla sua memoria. Mi spinge a maritarmi. Mi percuote sempre e poi sempre colla sua confessione, ch'egli ama sua moglie.
- Vedi dunque; tu non sei più una donna per codestui. Tu sei una cui egli ha beneficata, e ti accusa già d'ingratitudine. L'altro invece...
- Ma gli è precisamente perchè io stimo il tuo amico e ne ho compassione, che io indietreggio, o principe. Fuggirò appena sia Moab di ritorno. Non so cosa diverrò, ma non resterò più qui, ove io soffoco in mezzo a tanti testimoni della mia defunta felicità.
- Cessa allora di resistere. L'amore che dimentica il fallo, saprà addolcire il rimorso, consolare il dolore, e perdonare l'indifferenza.
Ida lottò ancora, ripetendo quanto aveva detto, trovando nuove ragioni. Hannah trionfò di tutto. Finalmente ella sclamò:
- Tu lo vuoi, o principe? Egli lo vuole? Sia. Mi abbandono a voi tale quale sono, prendetemi come raccogliereste un cadavere che chiede una tomba ed un ricovero contro gli avoltoj e le jene. Non94 mi appartengo più; dunque non posso più nulla dare in cambio di questo atto generoso. Non mi resta che la riconoscenza.
- Ciò basta, rispose il sagan, tagliando corto al colloquio ed alleviato dal dubbio se avrebbe o no vinta la resistenza di quella nobile creatura.
All'indomani io andai a trovarla. Pianse vedendomi. Evitai la minima allusione al suo passato: stornai sempre la conversazione da questo soggetto, se ella v'entrava. Ella mi ripetè ancora che amava un altro, e che non mi amava. Le risposi che io saprei farmi amare un giorno. La lasciai non più tranquilla, ma più rassegnata.
XXII
Era stato convenuto fra Hannah ed Ida, dopo la mia visita, che avremmo prestato il giuramento del matrimonio, e che io le avrei dato il mohar (regalo di nozze) la sera della festa del Purim. Era stato pure convenuto che l'anno della vergine, che doveva, secondo il rito, scorrere fra questo giuramento e quella sera fortunata in cui io squarcierei il suo velo, la bacerei sulla bocca e la condurrei nella mia casa, che quest'anno, dico, sarebbe accorciato - la qualità di donna divorziata il permetteva, - e che l'ultima cerimonia avrebbe luogo la sera della festa del paschah. Ahimè! come l'uomo, che è fatto, dicono, ad imagine di Dio, è giuoco degli avvenimenti e delle vicende del caso!
La festa di Purim è appo di noi un'orgia celebrata alla più grande gloria di Dio.
Fu istituita a Babilonia onde perpetuare la commemorazione della morte d'Aman, e l'esaltazione di Ester. Ottantacinque anziani si opposero all'adozione di questa festa persiana, quando Mordecai la propose la prima volta; ma fu adottata malgrado ciò. Il popolo ebreo la celebrava dovunque. A Gerusalemme la diveniva un delirio, dopo esser stata il sospiro di tutto l'anno. Io aveva ora l'anima traboccante di gioia, seguii quindi l'esempio degli altri.
All'alba, Bar Abbas batteva alla mia porta. Egli ritornava appositamente per la festa. Più tardi arrivò Justus, e andammo insieme alla sinagoga.
La sinagoga era zeppa. Una folla immensa vi aveva fatto irruzione, uomini, donne, fanciulli, vecchi, ciechi e zoppi, senza eccezione, perfino i sordi. Queglino che non trovavano più posto dentro, passavano la testa dalle finestre, o s'accalcavano alle porte. Un Giudeo si sarebbe creduto disonorato, se non avesse in questo giorno lanciato la sua maledizioncella postuma ad Aman, e data la sua avvinazzata benedizione a Mordecai.
Il paraschà del giorno conteneva la storia che dette origine alla festa. Il sheliach andò al suo posto, e principiò il seguente racconto:
«Allorchè Artaserse Longimano succedette a suo padre Serse, diede una gran festa al suo popolo, sotto delle tende di porpora sostenute da colonne d'argento ed oro. A mezzo il banchetto, riscaldato un tantinello dal vino, il re giurò che non c'era in tutto il regno una donna più bella della regina Vastiti. Un principe tributario del suo regno dimostrò una tal quale incredulità. Il re andò in collera, s'ostinò nella sua idea, e volendo provare al popolo che aveva detto il vero, imaginò di far comparire la regina ignuda dinanzi ai suoi convitati. Vastiti fu chiamata. Avendone appreso il perchè, rifiutò di obbedire. Artaserse la fece chiamare di nuovo, poi di nuovo ancora: in tutto sette volte. La regina rifiutò sempre. Il re si credette offeso da questa disobbedienza. Uno dei grandi della corte, Memunean, dichiarò al re che occorreva un esempio, senza che, incoraggiate dall'impunità della regina, nessuna donna persiana avrebbe più obbedito al suo marito. Il re comprese questa ragione di Stato, e Vastiti fu condannata ad essere espulsa e surrogata da un'altra regina. Ma Artaserse l'amava. E' divenne triste. I suoi amici lo consigliarono di neutralizzare questo amore con un altro amore e di elevare al suo letto la più bella vergine della terra abitata. Il re si rassegnò al rimedio, trovandolo dolce».
- Il povero uomo! esclamò Bar Abbas.
«Una caccia di vergini fu messa in campo, continuò il sheliach. I differenti ufficiali che percorsero l'Asia a quest'oggetto ne riunirono quattrocento.
- Soltanto? chiese Bar Abbas.
- Ahimè! sì, continuò il sheliach.
«Le vergini erano rare e le belle ancora più rare. Fra queste si trovò Esther, la nipote unica d'un Ebreo di Babilonia. Era la più bella di tutte. Quando gli eunuchi ebbero preparato per sei mesi queste vergini con delle abluzioni, delle unzioni, e dei profumi, il re ne prese una tutti i giorni nel suo letto, onde scegliere alla prova, e non sul rapporto d'un eunuco. Allorchè giunse la volta di Esther, il re se ne innamorò e la sposò. Ella non aveva detto a quale nazione appartenesse. Allora Mordecai lasciò Babilonia e venne a Shushan. Una cospirazione d'eunuchi essendo stata ordita contro il re, Mordecai la scoprì ad Esther, e questa salvò il re. Mordecai fu autorizzato a dimorare alla corte. Ora il re aveva un amico, un Amalecita chiamato Aman.
«Maledetto Aman! gridarono tutti da tutti gli angoli.
«Il re aveva ordinato che lo si adorasse come un altro lui stesso. I Persiani, i Medi obbedirono. Mordecai, no.
«Bravo, Mordecai! gridò ancora il popolo, noi andremo a bere alla tua salute.
- Bere e mangiare, se vi piace, interloquì Bar-Abbas, e ancora qualche cos'altro. Non si fa mai abbastanza per un grand'uomo.
«La nostra legge ingiungeva a Mordecai di non adorare che Dio, continuò il sheliach. Aman si credette offeso: tanto più che l'audace refrattario era un Ebreo, un prigioniero, quasi uno schiavo. Egli se ne lagnò al re. Dipinse la nostra nazione come perversa, insocievole, nemica di tutti gli altri popoli e di tutti gli altri culti; e lo persuase di sterminarla per la maggior prosperità dei suoi sudditi. - Ma essi pagano un tributo, osservò il re. - Ebbene, rispose Aman, io pagherò quarantamila talenti a vostra divinità. - Il re rifiutò il denaro, e sacrificò gli uomini. Aman decretò, in nome di Artaserse, sovrano di cento ventisette provincie dall'India all'Etiopia, che al quattordicesimo giorno del dodicesimo mese di quell'anno tutti gli Ebrei del suo Stato, uomini, donne, e fanciulli, fossero distrutti.
«Oh l'infame manigoldo di re! urlò la folla.
- Ohe, disse Bar Abbas, rispetto ai re, dunque! Senza di essi, chi potrebbe strozzarvi un poco, eh?
«Il popolo ebreo, tutto intero, stracciò i suoi abiti, si vestì di sacco, si coprì di cenere, proseguì il sheliach. Mordecai parti dalla corte, e si conformò al dolore dei suoi compatriotti. Esther ne venne a cognizione. Ella ordinò agli Ebrei tre giorni di preghiera. Gli Ebrei, a cui ella diede l'esempio, obbedirono e le inviarono una supplica pel re. Ora Artaserse aveva fatto una legge, che chiunque gli si presentasse senza essere chiamato, sarebbe ucciso. Esther sfidò il pericolo. Si affusolò splendidamente di porpora e di pietre preziose: una schiava sollevava lo strascico della lunga sua veste con la cima delle sue dita, mentre un'altra la sosteneva sulle sue braccia. Abbagliante di vesti e di bellezza, rossa d'emozione, Esther si recò così dinanzi al re95 senza esserne dimandata. Artaserse, seduto sul suo trono, la corona sul capo, lo scettro d'oro nelle mani, tutto ricoperto di giojelli, di tela d'oro e di porpora, la squadrò corrucciato. Esther tremò, e cadde svenuta ai piedi del trono. Il re, vedendola così bella, pieno d'amore scese dal trono, la prese fra le braccia, e la richiamò alla vita coi suoi baci. Le chiese poi cosa desiderasse, promettendole d'esaudirla. Esther lo invitò nei suoi appartamenti, in una al suo amico Aman, ad una cena preparata colle sue stesse mani. Il re ed Aman accettarono il banchetto, si divertirono molto alla festa, e bevettero enormemente. Il re le domandò quale grazia ella chiedesse. - Te lo dirò domani, giacchè io v'invito di nuovo a cena, rispose Esther.
- Oh! il caro briciolo di tosa! sclamò Bar Abbas. Perchè mai non si trovano ogni giorno di gioje simili nelle strade, come si trovano dei cani e dei leviti!
«Aman ritornò allegro alla sua dimora. Sua moglie gli consigliò di far rizzare nella sua corte una forca alta cinquanta cubiti per impiccarvi Mordecai.
- Le donne danno sempre dei buoni consigli, osservò Bar Abbas.
«Il re, esaltato dalla bellezza della regina, non dormì in tutta la notte, ma si fece leggere le cronache del suo regno. Si lesse fino all'alba. Arrivato alla storia della cospirazione scoperta da Mordecai, il gran sire domandò: Che ricompensa gli fu data?
- Che! che! l'è una fiaba codesta, osservò Bar Abbas: i re non si ricordano mai i servigi ricevuti, e meno ancora le ricompense che restano a darsi.
«Non gli si è dato nulla, rispose lo scriba del re. - Sta bene, disse Artaserse. Ecco il giorno. Se v'è qualche amico arrivato nella mia anticamera, fallo entrare. - Aman era di già lì. S'era alzato di buon'ora per ottenere dal re il permesso d'impiccare Mordecai.
- Impiccare? corbezzoli! ciò non si ritarda giammai! sclamò Bar Abbas.
«Arrivi in punto, rispose il re. Consigliami come potrei onorare in maniera degna di me una persona che io amo assai. - Autorizzandolo, Dio mio, a passeggiare a cavallo cogli stessi emblemi della tua Divinità, una catena d'oro al collo, e ordinando a tutto il tuo popolo di onorarlo come tu lo onori.
- Va bene, rispose il re; cerca allora Mordecai, e fa tu stesso quanto mi hai consigliato.
«Benissimo, bravo, viva il re! gridò il popolo.
«Aman che aspettava tale onore per sè stesso, parve confuso, abbattuto. Pure obbedì. Mordecai ritornò alla corte. Aman andò a lagnarsi con sua moglie. Fu chiamato alla cena per ordine della regina. Al banchetto, il re domandò nuovamente ad Esther quale grazia desiderasse. Esther principiò allora ad esporre, piangendo, le miserie del suo popolo, e supplicò che l'ordine della sua distruzione fosse rivocato. - Chi ha cagionato questo dolore alla mia regina? chiese il re. - Aman, rispose Esther. - Artaserse lasciò il banchetto, ed uscì nei giardini molto turbato. Aman cominciò allora ad intercedere la sua grazia presso la regina, e cadde sul suo letto. Il re entrò in quel momento, e vedendolo in quella postura, gridò: - Miserabile creatura, la più vile della terra, osi anche fare violenza alla mia regina? - Un eunuco raccontò allora al re la storia della forca destinata da Aman a Mordecai. Il re ordinò che Aman fosse appeso al patibolo che aveva egli stesso innalzato96.
«Viva il re, viva il re, dannazione ad Aman! vociò il popolo.
- Cara quell'Esther, giojello vero! sclamava Bar Abbas più forte degli altri; ti nomino mia regina a vita.... dopo l'anfora del vino!
«Ed ecco come Dio liberò il suo popolo, come Mordecai scrisse a tutti gli Ebrei di celebrare con una festa perpetua questo giorno della liberazione. Andate dunque, figliuoli miei, e glorificate il Signore.»
- Ah! perchè questo popolo non è stato liberato tutti i giorni dell'anno? osservò Bar Abbas.
Il popolo si precipitò fuori della sinagoga.
Il baccanale nella città principiò.
Gerusalemme era una mischianza d'individui di tutte le nazioni, in cui gli Ebrei erano forse in minoranza. Il popolo di Dio era stato in ogni tempo il focolare di vizii vergognosi e bestiali. Gli stranieri, che l'avevano conquistato successivamente, gliene avevano inoculati d'infami, e di empii. L'innesto s'era fatto con rigoglio. Alle dissolutezze che avevamo apprese dall'Egitto, dalla Siria, dalla Persia e dalla Fenicia, Alessandro aggiunse quelle della Grecia, Pompeo quelle di Roma, Erode quelle del mondo intero. Il giorno del purim era quello in cui tutte codeste dissolutezze sguazzavano in pompa reale.
In quel giorno, si sarebbe creduto trovarsi a Roma nella via Sacra, verso l'ora nona. Nulla mancava. Nulla si mascherava, eccetto la virtù per accatastare le briciole delle delizie del vizio. Gli uomini si travestivano da donne, e le donne da uomini, le ragazze da cortigiane, e queste da matrone. Chi aveva qualche cosa da mostrare, la metteva fuori. Chi non aveva di che affusolarsi, si svestiva. Gerusalemme riboccava tutta nelle strade: neppure le madri oneste, e le fanciulle pure restavano a casa. Il pudore diveniva un'impertinenza, un'offesa a Dio. Il Tempio si dava allo sciopero; poichè preti e leviti, membri del Gran Consiglio e del sanhedrin97, Simeon, Gamaliel, Caifa stessi, lo stesso Hannah, potevano mascherarsi senza infamia da giocolieri, da istrioni, da maghi, da pontefici idolatri, da becchi, o da buoi, a loro talento.
I bagni pubblici, le stufe, le osterie, gli alberghi, le botteghe dei fornaj, dei beccaj, dei rosticciaj, dei barbieri, dei profumieri, residenze ordinarie della prostituzione, issarono, dall'ora nona, l'insegna di orribili Priapi, e misero delle lanterne a forma di mostruosi phallus. Le cortigiane non erano in tal giorno obbligate a mostrarsi in parrucca bionda, in coculla, o con un pezzo di stoffa di oro sul seno - secondo l'editto degli edili romani, portatoci dai procuratori. Potevano, se loro piaceva, adornarsi della stola, delle bende bianche, e degli stivaletti rossi delle matrone romane. Ma non lo facevano neppur per idea.
Le vie formicolavano di cantoniere venute da tutte le parti della Siria, dall'Assiria, dalla Grecia, da Roma, dall'istessa Gallia. Esse si pavoneggiavano. Talune attillate nelle loro tuniche gialle o verdi, con sandali gialli legati al collo del piede da coreggie dorate, mostravano i piedi nudi, bianchi e provocanti, tenevano il capo avvilupato in un piccolo mantello di stoffa di color vivo, i capelli tinti in giallo con dello zafferano, o in rosso col succo della barbabietola, o in celeste con del pastello, o semplicemente spolverati con polvere d'oro, di lapis, di guado, o stropicciati con cenere profumata. Altre, con vesti babiloniche, o in tuniche di seta, trascinavano delle dalmatiche abbottonate sul davanti, fatte di stoffe dipinte, variate di fiori e ricami, ed avevano sul capo una mitra a colori, o una tiara scarlatta, o un nimbo d'oro. Le preziose, le meravigliose, le famose, che ci venivano dal superfluo di Roma, dietro le legioni, erano vestite di quella stoffa di seta chiamata Tiriana cui un poeta latino (Petronio) addimanda vento tessuto, o di quella garza detta indiana, che era trasparente come una nuvola d'estate, e rendeva più provocante la nudità. Le etere greche col loro grazioso camiciotto di lino aperto sotto le braccia e scendente fino alla vita, in coturni dorati, passeggiavano in lettighe aperte, portate da Abissinii. Alcune, coricate sopra cuscini di porpora, tenendo in mano uno specchio d'argento lisciato, delle palle d'ambra o di cristallo, un ventaglio od un parasole, sporgevano un viso leggermente imbellettato, costellato di piccoli nei onde rialzarne la tinta, mentre una bella schiava le rinfrescava daccanto con delle penne di pavone, precedute e seguite da eunuchi, da fanciulli, da suonatori di flauti, e da nani buffoni. Altre ancora, in toga verde, guidavano esse stesse un carro leggiero. Poi questa a cavallo, quell'altra sopra una mula di Spagna condotta a mano da un negro.
Dietro questo corteggio seguiva un'appendice inevitabile: il libertino, il bertone, vestiti di una clamide scarlatta, celeste, o verde; i suonatori d'arpa, di flauto, e di tamburo venuti dalla Siria; l'auletride jonia - cantante che si scritturava per le feste particolari; - le fellatrici di Lesbos; gli effeminati, i delicati della Frigia - giovani schiavi dai capelli lunghi ed ondeggianti, dai grandi orecchini, dalle tuniche a larghe maniche e dagli stivaletti verdi. Poi i bei giovanotti di Sibaris e di Taranto dalla pelle profumata, i membri epilati, il corpo ricoperto di stoffe trasparenti, come le ninfe. Poi i leziosi e le tribadi di Sparta, che pytismate lubricant orbem (Giovenale), e sono rinomate nelle lotte femminili. V'erano ancora i Marsigliesi dalle dita vellutate, e gli emigranti da Capua e da Opicus, che si prestavano ai piaceri mostruosi. Intorno ed in mezzo a questo nuvolo profumato, scintillante d'oro, di pietre preziose, di seta, di colori vivi, svolazzava quella gioventù d'Alcinous di cui io era il capo - assente in quel giorno - adornata, arricciata, profumata, azzimata di chiridata - la tunica siriaca a maniche lunghe e larghe color ciliegia.
In mezzo a questa folla, la quale assorbiva, incantava, abbagliava la gente onesta di tutti i giorni, si distingueva il mio ipocrita amico Justus, mascherato da saga, che vendeva degli istrumenti infami, messi in mostra su delle ceste portate da schiavi. Quel monellaccio offriva ad un grave membro del Collegio un phallus ad uso della famiglia; ad una matrona, un subliaculum, o arnese della maternità, onde non sopraccaricare di troppi bimbi la famiglia; ad una giovane sposa, una serratura di castità; ad una ragazza una fibula; alle vecchie un enorme fascinum (phallus fittizio in cuojo, tela o seta).
Bar Abbas, a cavallo sopra un asino, era imbacuccato d'un immenso priapo in cartone che gli si rizzava sopra come un astuccio. Portava dinanzi a sè una sporta ripiena di quelle ciambelle di frumento a forme impudiche, che i Romani chiamano coliphia o cunni siliginei, e ne offriva alle donne, che le accettavano senza sembrarne offese. Poi dispensava delle gerse di escremento di coccodrillo, di cerussa, o di gesso, delle fiale piene di non so qual ingrediente, ch'egli indicava agli uomini per quel terribile filtro che le venditrici di profumi dicevano venire da Roma, e chiamavano coppe del desiderio, acqua d'amante, satyricon, bulbus, o hippomane.
Ahimè! avevamo mandato a Roma circa due secoli fa (187 anni av. G. C.) con Lucius Montius, il vincitore di Antioco il Grande, tutto questo mondo di danzatrici, di suonatrici di flauto, di cortigiane, d'eunuchi, d'effeminati, di bertoni, e con essi la lebbra, la terribile elefantiasi, il mal di Venere delle nostre donne, ed il morbus indecens sotto tutte le sue orribili forme. Roma aveva innalzato tutto ciò alla sua grandezza, aggiungendovi le infamie spigolate nel resto del mondo, e ce lo rimandava trionfante, orgoglioso e risplendente.
I nostri Ebrei si contentavano di bere: i poveri, i nostri buoni vini della Siria; i ricchi, i vini della Grecia o di Roma, il cecubo, il falerno, il metimnese, con o senza aromi, e di berne fino al punto, sempre maledicendo, di non più sapere se maledicessero Aman o Mordecai.
Alcuni anni avanti, due pii anziani, Rabba e Zira, avevano bevuto insieme, e si erano altercati, cadendo sotto il tavolo, in tal guisa che Rabba aveva ucciso Zira. All'indomani, quando il vino fu digerito, Rabba, disperato d'aver ucciso il suo amico, pregò Iddio di risuscitarlo, e Dio l'aveva compiacentemente esaudito. L'anno dopo, Rabba propose a Zira di bere ancora insieme; ma Zira rifiutò, pel ridicolo pretesto che Dio potrebbe non voler incomodarsi ogni anno a fare un miracolo.
Mentre l'orgia s'impadroniva della città, all'ora nona, i miei amici ed io, ci preparavamo ad andare a Berachah. Avevo invitato a dividere la nostra festa e ad essere testimonii della mia gioja, Hannah che era stato il mio ambasciatore, i suoi figli, Gamaliel, il suo vecchio padre Simeone, direttore del grande collegio, Justus, che si divertiva attendendo l'ora della partenza, Lazzaro, alcuni altri amici, ed il Rabbì di Nazareth, cui io era andato a snidare dal Tempio ove fin dal mattino predicava ed insegnava.
Traversammo la città, nel momento in cui la gioja era nel suo più grande fermento. In ogni via, degli ubbriachi; in ogni piazza, della musica e dei danzatori; in ogni luogo pubblico, la debolezza; le case pavesate di fiori o di rami d'albero; ad ogni finestra degli spettatori; sopra ogni tetto, delle bandiere, dei preparativi per l'illuminazione della sera. Dapertutto lo schiamazzo; canti a tutti gli angoli delle strade; dei motti allegri o lubrici in tutte le bocche; dei desiderii in tutti gli sguardi, ma anche l'elemosina in tutte le mani. C'incontrammo con Bar Abbas, che arringava in mezzo ad una folla immensa.
- Non vi spaventate, ragazze mie; io sono modesto; venite da me, gravi mamme, io sono discreto; avvicinatevi, le mie vecchie, se la vostra borsa è pregna e ha voglia di partorire, io sono un gaio compare; e voi altri, branco di canaglie, vecchi libertini, preti modesti, gravi farisei, dissoluti avariati, baldracche da elefanti, avanzate pure, io non aggrotto le ciglia, sono un buon diavolo; pennone al vento, ma silenzioso e perseverante. Cosa vi occorre? via, adoratemi un po', io sono quegli che crea e quegli che disfà.
Vedendoci passare, Bar Abbas98 interruppe la sua allocuzione che io ho resa più modesta. Gli si gittavano degli aranci, della poma, dei torsoli di cavolo. I ragazzi mettevano dell'esca accesa sotto la coda del suo asino, e lo facevano sgambettare come cinquanta istrioni.
- Figli della prostituzione, continuava, lasciate dunque che mi avvicini a quella compagnia di scapati che va non so dove, a papparsi una festa senza di me. Senza di me! e ci sarebbe una festa a Gerusalemme, senza Bar Abbas? Tò! tò! anche mio nipote? Orsù! mucchio di botoli, lasciatemi passare.
Ma essi s'erano attaccati alle sue gambe, alle orecchie ed alla coda del suo asino.
- Dammi una chicca, barbiere della regina Saba, l'apostrofava una ganza dalla gialla mitra persiana.
- Va a farti impiccare, confettiera di sterco di vacca alla crema; rimbeccava Bar Abbas.
- Lascia dunque che ti abbracci, bardassa leccato dai dromedarii d'Abramo, grugniva una vecchia, civettando e tendendogli le braccia.
- Abbraccia il mio asino sulla sua bocca senza denti, urlava Bar Abbas percuotendola sulle mani col suo scudiscio.
- Se hai dei ninnoli, vieni da me, ciabattino delle volpi di Sansone, mormorava una donzella, passando sul suo cammello.
- Del denaro! bellettatrice di giovani balene, replicò Bar Abbas, m'hai tu preso per un ladro?
- Professore di lingua dell'asina di Balaam, hai tu cenato? gli chiese dalla sua lettiga una preziosa.
- Ceni tu di un mercante di Tiro disossato, o di un prete cotto nel miele, levatrice delle cagne di Jezabele?
- Pfuah! gridò una voce nella folla, ti sputo in faccia, venditore di fanciulle.
- In fede mia, se mi fate dei complimenti, non ci sto più, e che il diavolo vi prenda tutti, replicò Bar Abbas.
Nell'istesso tempo, gettando da parte l'infame astuccio che faceva di lui un mostruoso phallus, si slanciò fuori della folla, nella direzione ove eravamo scomparsi, e principiò a correrci dietro.
Quando arrivammo a Berachah, il giorno cadeva. Il cielo era tigrato di rosse nuvole; un vento lamentoso tormentava i rami degli alberi, e rendeva l'aria pungente. Degli avvoltoi si slanciavano dai crepacci delle roccie al rumore dei nostri passi, e la jena squittiva di lontano. Camminavamo silenziosi e preoccupati: nessuno avrebbe detto che andavamo a nozze. Il più sereno di tutti era il Rabbì Galileo, che non sapeva nulla della fidanzata, avendogli detto semplicemente che stavo per maritarmi e che desideravo averlo fra i miei amici. Il più assorto era il sagan. I servi che portavano i regali per la sposa ci seguivano.
La porta della casa di Berachah era chiusa. Il silenzio più completo regnava in quell'abitazione che si sarebbe detta deserta. Thorix ci aprì, ed i miei servi l'aiutarono a ricoverare sotto la tettoja le nostre bestie. Quella corte così bene ordinata, quella fontana il cui getto risuonava nella vasca di marmo, quei vasi di fiori, rigogliosi come se fossimo stati nel mese di maggio, quei verdi arbusti, tutto contrastava con la casa silenziosa di cui Febea ci apriva la porta. Evidentemente non eravamo aspettati. Si era dimenticata la cerimonia che doveva aver luogo, cerimonia pertanto che fissa un'êra nella vita di una donna.
- C'è qual cosa di nuovo? domandai a Febea.
- Niente, mi rispose la vecchia Galla; Moab non è ancor ritornato.
Di guisa che, l'avvenimento più considerevole per quella casa, era l'assenza misteriosa del custode fedele.
- E Ida? chiesi con ansietà.
- Ah! replicò la vecchia, non so. Credo che pianga.
Entrammo nel tablinum. E siccome la notte avanzava, Febea vi accese i lumi. Noah aveva fatto preparare diverse lampade. Questa giovine, bella e fedele schiava, era la sola che s'interessasse a me, e comprendesse il mio amore. Il tablinum fu dunque vivamente rischiarato. Thorix l'aveva profumato con dei vasi di fiori, pei quali egli faceva nelle sue stanze una temperatura tropicale. Riuniti in quella camera, ravvicinati, la conversazione si animò un poco più. I miei servi deposero sulle tavole i regali che avevo portati alla fidanzata. Erano delle pezze di tela di lino di Egitto, delle stoffe tessute di porpora e d'oro nell'isola di Cos, dei tappeti di Mesopotamia, delle garze dell'India, delle stoffe di seta di Tiro e di Babilonia, delle belle tuniche siriache, due magnifiche insista ornate di porpora, delle stoffe ricamate, bianchi veli rigati d'oro e violetto, stivaletti di pelle rossa adornati con oro, una veste galbanata per le feste, delle clamidi turchine ed oro, alcune amicola di lino sottile come un raggio di sole. Poi dei giojelli, orecchini, collane, braccialetti, spilli, fibulae, scheggiali. Poi profumi squisiti di tutte le qualità; la nicerontina, quell'odore soporifero inventato dall'eunuco Nicerontas; il nardo di Persia preparato dalla saga Folia, detto foliatum; il balsamo di Mendes, gli unguenti di Cipro; il nardo Achaemenium, degli olii di Arabia e di Siria, del malobathrum di Sidone; l'olio arabico pei capelli, e quello di mirabolano pel corpo, l'opobalsamum di Gerico, l'amone dell'Assiria, la mirra di Oronte, il timo di Cipro, il cinnamomo dell'India, le pastiglie diapasmate inventate da Cosmos per profumare e rinfrescare l'alito nelle ore dell'amore, l'unguento reale della Partia.... Infine, tutto ciò che l'arte della profumeria di tutti i climi e di tutti i paesi aveva inventato di più soave e di più inebbriante.
Tutto ciò fu posto in bell'ordine su canestrine che stavano sul tavolo, e risplendeva alla luce, deliziando la vista e l'odorato.
Il sagan ed io entrammo in una stanza laterale ove Noah venne a raggiungerci e dirci che Ida fra qualche istante sarebbe pronta. Infrattanto i miei servi, Thorix e Febea presentavano sopra bacini dei frutti canditi, delle bibite agghiacciate, dei vini d'ogni paese, profumati e puri, dell'idromele, ed una quantità di dolciumi che io aveva inviati alcune ore prima.
Non ebbi il coraggio di veder Ida da sola. Ebbi paura di qualche esplosione di dolore, di un nuovo accesso di pentimento. Lasciai ad aspettarla il sagan, il quale, non avendo io parenti, faceva l'ufficio di padre o di fratello.
Ida aveva pianto tutto il giorno. Venti volte aveva ordinato a Noah, di mandarmi a dire che dovessi rinunziare definitivamente a lei. Dieci volte ella aveva allontanato questa giovine schiava che voleva dar principio all'opera della pettinatura e dell'abbigliamento. Poi s'era rassegnata, affranta della persona e nel cuore.
Noah l'aveva consolata, aveva asciugato le di lei lagrime, rinfrescato le guancie e gli occhi con dell'acqua di rosa; ma la non aveva potuto far sparire il pallore, nè ottenere di correggerlo con qualche cosmetico. Finalmente la teletta s'era terminata come Noah aveva voluto, poichè Ida non aveva consentito a guardarsi una sola volta nello specchio, a dar un consiglio, ad esprimere un'idea od un desiderio, ad ajutarla per nulla. Si lasciava fare come se si fosse vestito il cadavere d'una fanciulla che si conduce alla tomba. Impiegava tutta l'energia del suo animo a contenere le sue lagrime, ed a mantenersi nella risoluzione che le si era strappata. Quando fu pronta, Noah la mise fra le mani di Hannah, il quale doveva introdurla nel tablinum, e le si pose dietro, onde ripeterle incessantemente una parola fantastica, preparata d'accordo prima, e che voleva significare: coraggio! attenzione!
In quel momento si udì nell'atrium la voce di Jesu Bar Abbas.
- Come, come? per le corna di Mosè! ci si marita qui senza informarmene! Ah, ah! l'è proprio squisita questa; si fanno nozze senza di me!
Bar Abbas fece irruzione così nel tablinum, e si trovò di faccia a faccia col Rabbì di Nazareth.
- To', brontolò desso, mio nipote! Oh! grazioso! Ci farai qualche miracoletto come a Cana, non è vero, mio bel nipote? Non potreste mai imaginarvi ciò che questo bell'imbusto di galantuomo seppe far credere ad un branco d'ubbriachi, alla fine d'un pranzo di nozze? Che ei bevevano del vino, nè più nè meno! mentre si riempivano i loro bicchieri con dell'acqua arrossata alla barbabietola! Non andar dunque a far sparire la sposa, almeno, nipote mio! Parola da Cesare! e' sarebbe ben capace di cangiarla in una nuvola come l'angelo che precedeva gli Israeliti, o in una bolla di sapone.
Mentre Bar Abbas snocciolava questo discorso, tenendo il Rabbì per la sua tonaca violetta, questi indietreggiava, lanciandogli a voce bassa la sua terribile parola: Infame! infame! Alla fine, addossato alla porta, sempre spinto dall'impudente Bar Abbas, Gesù gridò ad alta voce: Indietro, infame!
- Capperi! e' sembra che mi riconosca alla fine, sclamò Bar Abbas senza scomporsi.
Nel medesimo tempo, l'uscio del tablinum, a cui era stato dietrospinto il Rabbì, si aperse a due battenti, e comparvero il sagan ed Ida. Il Rabbì di Nazareth si voltò, e tutti si posero in cerchio. M'avanzai, e presi la mano sinistra d'Ida che tremava come una foglia.
Era vestita d'una lunga stola porpora - le vergini sole la portavano bianca in tale circostanza. - Il suo capo era coperto d'un velo bianco ed argento. I capelli, rialzati da un nimbo d'oro, ricadevano in ricci sulle spalle insieme alle bende. Il collo s'intravedeva appena, e la sua bianchezza sorpassava quella del lino.
Un silenzio profondo seguì questa apparizione, di cui le forme del corpo, l'elevazione della taglia, la sveltezza, la molle e soave posa, eccitavano una curiosità ansiosa. Io mi sentiva soffocare. Finalmente, dopo alcune parole di presentazione dette dal sagan, egli mi fece segno che io poteva sollevare il velo della fidanzata, avanti di prestare il nostro reciproco giuramento.
Ahimè! quarant'anni sono scorsi da quel giorno fatale, ed io tremo ancora scrivendo queste linee.
Senza abbandonare la mano di Ida, sollevai il velo con la mia mano sinistra. Due gridi scoppiarono nel medesimo tempo nella sala, di cui l'uno soffocò l'altro.
Un grido di meraviglia, sfuggì da tutte le bocche alla vista di quella bellezza celeste, di cui l'aria infantile raddolciva lo splendore della donna. Quella pelle diafana che sembrava imbevuta dei raggi del giorno; quelle labbra rosse come gli spicchi del melagrano, mezzo aperte per lasciar intravedere dei denti bianchi come il marmo di Paros, per lanciar un soffio pari al respiro della viola; quei grandi occhi azzurri nascosti sotto delle palpebre di latte, sormontati da due archi di sopracciglia castagne; quel naso diritto, fino, dalle narici rosee, che tradivano l'emozione; tutto l'insieme, in una parola, di quell'armonia vivente strappò un'esclamazione di sorpresa e d'ammirazione. Ma nello stesso tempo un altro grido risuonò al disopra di tutte le voci, quello del Rabbì di Nazareth, che indietreggiando come spaventato fino al fondo del tablinum, esclamò:
- Come! noi siamo qui in casa della ganza di Pilato! L'amante di Pilato è la sposa!
Il sagan ed io sapevamo soltanto che Ida era stata l'amante di Cajus Crispus, il quale consentiva finalmente a riconoscerla come moglie per ripudiarla. Nessuno sospettava che Ida fosse qualcosa di peggio: l'amante di Pilato.
S'imagini quindi l'effetto di questo grido del Rabbì, la portata di questa accusa.
Tutti quegli Ebrei, che per la loro posizione dovevano mostrarsi zelanti, si trovavano in una casa considerata come impura, e pel carattere della donna, e per la frequentazione dello straniero. Impuro! era la folgore sul capo dell'Ebreo!
La parola del Nazareno fu in effetto come il fulmine.
Le mani protese nell'attitudine della maledizione, gli occhi spalancali, tutta quella gente principiò ad indietreggiare, rinculando, non potendo staccare lo sguardo da quella magica figura.
Alla voce di Gesù, Ida alzò gli occhi, e riconoscendo il Rabbì, cadde in ginocchio, fissò il suo sguardo divaricato ed ardente su di lui, gli tese le braccia, e mormorò:
- Fratello, fratello, abbi pietà di me.
- Terremoto del Sinai! gridò Bar Abbas, non ci mancava altro; ecco mia nipote! Sono in famiglia alla fine.
La mano d'Ida era caduta dalla mia, ed io mi copriva il viso. L'anatema era sceso sul mio capo.
Dopo un simile scandalo, l'unione con Ida diveniva impossibile. Gamaliel e Simeone mi presero per le braccia e mi trascinarono con loro. Io era istupidito; non mi sentiva più vivere. Noah s'inginocchiò dietro la sua padrona e la ricevette fra le sue braccia.
Il sagan solo restò come pietrificato, impassibile, assorto in un turbine di idee. Noah aveva già trasportato fuori Ida, spezzata in due e svenuta, ed Hannah era ancora al suo posto. In questa sala non ha guari tutta gremita di gente, non restavano più che il sagan e Bar Abbas posti alle due estremità. Hannah corse verso Bar Abbas, che se ne stava egualmente indeciso fra il seguire gli altri o restare per parlare a sua nipote, lo prese pel braccio e lo scosse.
- Ben m'avvisavo, brontolò Bar Abbas, che quel rabbioso di mio nipote ce ne avrebbe fatta una delle sue.
- Hai detto «mia nipote?» susurrò Hannah.
- Sì, mia nipote.
- Quella che vendesti a Cajus Crispus?
- Disgraziatamente non ho avuto che una sola nipote da vendere.
- Devo parlarti.
- Parla.
- Vieni questa sera da me. Qui non posso.
Cinque minuti dopo, Thorix chiudeva la porta della corte, e la casa di Berachah ricadeva nelle lagrime, nella disperazione e nel silenzio.
Chi ha mai detto che il dolore uccide?
Insensato!
E nondimeno la coppa era appena sfiorata.
XXIII
Bar Abbas andò a cenare dal sagan.
- Poichè questo onorevole funzionario, si disse egli, vuol godere della mia conversazione, e poichè la sua non mi diverte gran fatto, e' mi deve un compenso. Mi rassegno ad accettare quello della sua tavola, che non è gran che. Vi servono degli intingoli allo zafferano! se fossero all'aglio almeno! E poi dell'aceto che si dà l'aria di vino, o una bevanda che non vi resta tre minuti nel corpo. Ma, non fa niente, ciò val sempre meglio che i manicaretti equivoci della vecchia Phlogis, la quale principia sempre dal posare i suoi denti sul piatto, per timore d'inghiottirli. Poi si chiacchiera bene quando lo stomaco è convenientemente soppannato. Si può permettersi di sbadigliare piacevolmente se la conversazione vi annoja. L'arguzia sbuccia sola se la cicalata vi garba. Infine, sta sempre bene il premunirsi contro l'incertezza del domani.
Ordinariamente, Hannah faceva pranzare Bar Abbas con i suoi famigliari. Quella sera, l'ammise alla propria tavola; soltanto lo si relegò al posto dei parossiti, che prendevano a volo ciò che restava delle vivande servite agli altri convitati. Bar Abbas, difatti, brontolò durante tutta la cena, altercò col servo che gli versava da bere, perchè non gli riempiva mai interamente la coppa. La cena finita, il sagan gli fece cenno di seguirlo, e lo condusse in una stanza remota, ove egli si ritirava quando aveva bisogno di raccogliersi. Bar Abbas, già malcontento della parte che gli era toccata a tavola, promise a sè stesso di tener sodo e di giocar forte, poichè Hannah aveva bisogno di lui, e di rifarsi. Hannah, dal suo canto, sapendo con qual uomo avesse a fare, non perdette tempo in preliminari. D'altronde sembrava vivamente eccitato.
- Ida, diss'egli, è proprio quella nipote che vendesti un dì a Cajus Crispus, o a Pilato?
- La stessa, appuntino, salvo i cangiamenti causati dall'uso e dal tempo, rispose quel cinico.
- Quanto ti dette Pilato, allorchè gliela consegnasti?
- Anzi tutto, egli la prese, e non fui io che gliela consegnai, perocchè ciò avrebbe aumentato il prezzo. Ma quel furfante non si fece vedere nell'affare, perchè ciò altresì avrebbe rincarito il mercato. Fece comparire un ufficiale di non so qual legione, ciò che mi rese più alla mano. So che quei ribaldacci non sono mai ricchi, neppur dopo un saccheggio.
- Insomma?
- Insomma.... Bisogna dirti proprio la verità, eh!
- Senza dubbio, non siamo mica al mercato qui.
- Nè al Tempio. Ebbene, egli mi diede trenta mila sesterzii. Ed ancora, quel mariuolo di Cneus Crispus, sono sicuro, me ne rubò dieci o quindici mila.
- Te ne do altrettanti: conducimi qui tua nipote.
- Pubblicamente?
- Imbecille!
- Allora, principe mio, non ci siamo mica ancora.
- In che?
- Nel prezzo, per Dio!
- Sei tu che l'hai fatto.
- A quel tempo, sì: ma adesso la cosa è differente. Prima di tutto tu non calcoli i miglioramenti: due anni d'educazione e di esperienza che la tosa ha ricevuto da uno degli eleganti della corte di Tiberio, di cui un poeta cantava: tergo foemina, pube vir est. Ciò si paga. Tu sei un principe. L'altro era un soldataccio. A quell'epoca, Ida dimorava nella mia casa, ora sta nella sua, è libera. Può chiudermi la porta sul viso, se le aggrada.
- Quanto vuoi dunque?
- Ida ora si è sviluppata, ed è più bella che mai. Hai veduto le sue labbra, eh? Se Dio le vedesse, farebbe piovere baci.
- Quanto dunque?
- Da due anni, questo genere è caro sul mercato. Si è obbligati di farne venire dalla Campania, dall'Etruria, dalle Gallie; Sparta dà poco; Atene è esaurita; Tiro spedisce robaccia; Babilonia de' brutti grugni.
- Quanto dunque?
- Poi, se vedesti che piede ha quella piccina; potrebbe ficcarlo nel tuo naso senza farti starnutare. E che vita! fulmine d'un fulmine! passerebbe per l'anello del tuo auricolare. Non parlo del suo se....
- Quanto, quanto?
- Oh! quell'effeminato di Giuda è di buon gusto, va! Aveva fiutato un pezzo da imperatore. Darebbe venticinque anni a Matusalem.
- Quanto, quanto?
- Ma! poichè pranzo spesso da te, voglio andarci alla buona e lavorare a questo affare per quaranta mila sesterzii.
- Canaglia! tu mi spennacchi, eh!
- Ebbene, prova se puoi averla a meno da un altro. Ah! dimenticavo il Rabbì che potrebbe ora ficcare il naso negli affari di sua sorella. Ed è un fiero compare, sai, il Rabbì: te lo giuro! È il solo uomo di cui io mi abbia paura a Gerusalemme. Poi, ho delle spese di viaggio per recarmi fino lì in fondo. Devo dare delle mancie alle persone che la contornano; forse far anco un po' la corte alla sua giovine schiava, ciò che m'imporrebbe la spesa per lo meno di una tunica nuova.... Non importa, è graziosa quella schiava.... vi aggiungerò un mantello....
- L'ultima parola, insomma?
- Lo vedi.... Ah! bisogna poi condurla qui, e di nascosto ancora. Quanta eloquenza mi farà d'uopo per persuaderla; quante bugie dovrò spippolare! Ciò mi umilia! mancarmi di rispetto così! Devo quindi darle a credere.... che cosa? che hai sposato sua madre e suo padre forse! Diavolo! non si vende così facilmente il proprio sangue, quando si ha della coscienza.
- Sia! quaranta mila sesterzi (10,000 lire). Quando me la conduci?
- Ah! ecco ancora una difficoltà! Non piglio nessun impegno prima di averla veduta domani. Fortunatamente che so come si prendono le fortezze: poichè, o sagan, se non sono stato generale, all'esercito, non è colpa mia. M'è d'uopo comperare l'eloquenza di tutte le mezzane, e di tutti i poeti di Gerusalemme.
- Basta così. Vattene, e vieni domani a dirmi cosa avrai fatto.
- Non ti lusingare però di giungere senza forse romper per via il tuo bagattello. Tu vedi che io non ti dimando neppure caparra. Se per altro vuoi darmi....
- Va via, e vieni domani.
All'indomani, il giorno non era ancora chiaro, che Bar Abbas si acculava alla porta di sua nipote, attendendo che si aprisse. Egli comprendeva che era mestieri presentarsi con un convenevole pretesto, e non lo trovava. Non sapeva più a quale corda il cuore sanguinante di Ida risuonasse ancora, in nome di chi parlare, e che speranza far brillare. Egli ci era su a riflettere, allorchè Thorix aprì. Bar Abbas finse di arrivare in quel momento.
- È alzata la tua padrona? diss'egli.
- Non so se la riceva. Chi sei tu?
- Un messaggero del sagan Hannah, e porto gravi notizie.
- Dalla parte di chi?
- Ohe! saresti tu incaricato di udire ciò che si ha a dire alla tua padrona? Se la è così, a rivederci.
- Hai tu un nome in vita tua? Chi devo annunziare? Imperciocchè, all'aria, puoi forse essere un re travestito, ma nulla tradisce il tuo incognito. Sei tu il re di Persia, od uno schiavo del sagan che vuol parlare alla mia padrona, o semplicemente un ladro?
- Tocco di birbo! saresti bene in trappola se io mi fossi un re, poichè ti farei appiccare come un gufo alla soglia della porta. Va, di' alla tua padrona che un amico del sagan deve parlarle a nome del Rabbì di Nazareth.
Bar Abbas aveva trovato il suo eureka. Con questi due nomi, era sicuro sfondare la porta, benchè il vecchio Gallo non ne sembrasse per nulla ammaliato. Fu d'uopo però attendere che Ida, ancora spossata, si levasse.
Quando Noah vide il grugno del messaggiero, la fece una smorfia che diede a riflettere a Bar Abbas.
- I miei quaranta mila sesterzii sono in pericolo, con questa volpe piccina, pensò egli.
Ida lo fece entrare nulla ostante.
Bar Abbas si atteggiò a modi di non dubbia autorità, quasi di parente che ha diritto di occuparsi della sorte del suo parente minore. Ida gettò un grido vedendolo e riconoscendolo. Ordinò quindi a Noah di restare presso di lei.
- Che vieni a far qui? sclamò essa.
- Dopo la scena di ieri, avresti dovuto stupirti piuttosto se io non fossi venuto, io, il marito vedovo ed inconsolabile della sorella di tua madre.
- Non invocare quei nomi, gli ordinò Ida. Tu! tu non sei che l'infame venditore di tua nipote. Vieni forse a vendermi di nuovo?
- Cominci male, figliuola, e non m'incoraggi certo a renderti servigio, ingiuriandomi.
- Tu non hai che un solo servigio a rendermi, ripetè Ida con disprezzo; uscire di qui.
- Potrei stabilirmi qui, fino a che tu ci resti, o condurti con me, fino a che i tuoi fratelli o tua madre ti reclamassero. Ma non voglio contrariarti. Non è per mia volontà che vengo qui, non è nè per me, nè per te.
- Per chi dunque? perchè dunque?
- Gli è per tuo fratello il Rabbì.
- Che Dio gli perdoni, mormorò Ida.
- Egli si lascia sempre andare a delle violenze. Ma questa volta, a quanto pare, corre dei veri pericoli.
- Quali pericoli? Che menzogna vieni a raccontarmi, ora?
- Tu sei bene la degna sorella di quel fratello, va! Sappi dunque che Gesù attacca ora a Gerusalemme tutti i partiti. Egli carica d'ingiurie i Farisei; colma di rimproveri i Sadducei; non risparmia nè gli Esseniani, nè gli Erodiani; pungiglia i ricchi, i preti, gli scribi, i pubblicani.... non so infine chi mai risparmia. Non parlo di me che egli perseguita più degli altri, come se avessi messo fuoco al Tempio, o se gli avessi rubato Dio, suo padre.
- Hai fatto ancora peggio di codesto, osservò Ida con disgusto; hai accettato il prezzo del sangue di tua nipote.
- Sono malinconie codeste! Ricordati il covo sporco, cupo, e freddo ove stavamo. Mosè non si sarebbe data la pena di grattare la terra, per compiere da noi il miracolo dello sprazzo dei pidocchi. Ebbene guardati intorno, ove sei di presente. È forse tuo padre il carpentiere che ti ha somministrato quei cuscini di porpora ove riposi, queste sedie d'avorio, queste tavole di madreperla o di tartaruga, questi vasi d'argento pieni di fiori, queste ricche tonache che ti rendon sì bella? Non sarebbe certo stato un marito artigiano - il solo al quale tu potevi ambire, che ti avrebbe data questa casa, questo giardino, questi servi, questa bella giovane schiava, che avrebbe diritto di esser regina.... Tu non comprendi tutto ciò ora; sei giovane, fantastica, contenta. Il giorno in cui avrai fame, quando coperta di stracci mendicherai99 un pezzo di pane per non importa che, da non importa chi, comprenderai l'amore che ebbe per te tuo zio, che conosce il mondo. Adesso insultami, disprezzami e sospettami. Il genere umano è cattivo.
- Tu parlavi di mio fratello, disse Ida, finisci.
- Egli dunque ha posto fuoco ai quattro canti di Gerusalemme. Ora, ciò non si fa senza provocare una terribile reazione. Egli l'ha provocata; e tutti queglino che furono attaccati, l'attaccano a loro volta. Si sono indirizzati al sagan, il più generoso, il più virtuoso, e l'uomo più elevato della Giudea. Hanno accusato Gesù. Il sagan ha conversato con tuo fratello qui, e si è preso di simpatia per lui. T'ha veduta, fu testimonio della catastrofe a cui tuo fratello ti sospinse, ed ha avuto pietà di te. Sa, che l'ultimo appoggio che ti resti omai, è questo fanatico Rabbì. Vorrebbe stornare dai vostri capi, il fulmine da cui sono minacciati. Ma non può rivolgersi direttamente al Rabbì, dapprima perchè questi forse non l'ascolterebbe, poi perchè il sagan non può urtare la suscettività dei suoi propri partigiani.
- Lasci dunque che la volontà del Signore si compia.
- Gli è precisamente ciò che gli ho detto io, io che preferisco sempre compiere la mia volontà. Conosco il temperamento della famiglia, e trovo la sorella calcata a pelo sul fratello. Ma il sagan non ha voluto credermi. Mi ha anzi maltrattato, dicendomi, che non vi amo, che odio Gesù. Allora mi son sobbarcato a tentare quest'opera di salvezza di nipote maschio e femmina, a cui sentomi così poco attagliato. Non ho voluto però vedere Gesù, che mi manca assolutamente di rispetto. Ho promesso di vederti, ma ad una condizione....
- Quale, di grazia, affettuosissimo zio?
- Che sia egli stesso, il sagan, che ti dica ciò che ha detto a me; poichè tu forse crederai a lui, meglio che a me.
- Difatti, io ho di che non crederti senza garanzia, e ancora...
- E ancora, che cosa?
- Ho ancora ad aggiungere, che in questo momento stesso tu menti, e che questa storia che mi racconti è un nuovo tranello.
- Sei una sciocca figliuola, va, cara nipote. Non t'ho forse detto che sono indifferentissimo alle disgrazie che cadranno sul capo di tuo fratello, cui abbomino? Non t'ho detto che puoi andare tu stessa, quando vorrai, ad informarti dal sagan, il quale è l'uomo il più saggio, il più probo, il più stimato della Siria? Aggiungo di più: il sagan m'ha confidato, che fra qualche giorno avrà luogo, in sua casa, una riunione dei nemici di tuo fratello. Ebbene va a domandargli, se non mi credi, di assistere, nascosta, a quella riunione. Questa domanda sarebbe, te ne avverto, un insulto per l'uomo che ti previene a tempo del pericolo del Rabbì, ond'e' si metta in guardia. Ma puoi dire al sagan, che il suo messaggio pervenendoti da uno spezzaforche come tuo zio, il quale ti ha già fatto delle monellate, non vi ti fidi, e che vuoi vedere ed udire da te stessa. Quell'uomo tanto buono, che non ha rifiutato di andare a domandare in isposa la ganza di Pilato per un suo amico, sarà tocco dalle tue ragioni, e ti soddisferà; avvegnacchè, al postutto, e' non prenda lo scorruccio se tuo fratello rovina nell'abisso cui scava sotto i piedi dei nemici della nazione.
C'era nel discorso di Bar Abbas un tal misto abbominevole di sentimenti di odio, d'indifferenza, di franchezza, di probabilità, di evidenza possibile, di prove, e d'inverosimiglianze, che Ida ne rimase confusa e perplessa. Non era impossibile che il nobile carattere di suo fratello avesse colpito il sagan e ch'egli si fosse interessato alla sua sorte. Il sagan non aveva forse mostrato per lei un affettuoso interesse? Bar Abbas non parlava in suo nome, poichè confessava di abborrire Gesù. Perchè Ida non andrebbe ad interrogare il sagan direttamente? Quale sospetto poteva destare un uomo che era, dopo Pilato, il più grande della Galilea e della Giudea? Che v'era d'impossibile che il sagan si astenesse di agire direttamente in favore di Gesù, il quale l'attaccava, attaccava il suo partito ed il suo genero Caifas? Ida restò quindi silenziosa. Bar Abbas continuò.
- Ho adempita la mia commissione, contro mia voglia, lo confesso; perocchè sarei beato che dessero una piccola lezione di convenienza e di umiltà a tuo fratello. Egli si atteggia nè più nè meno che a figlio di Dio! La tua povera madre è dunque non so cosa, e tu non gli sei niente; ciò che ti ha del resto dimostrato ieri sera colla sua stupida interruzione. Alla fin fine, io non ho nulla a rimproverarmi; poichè tutte le volte che ho voluto farvi del bene - ammettiamo che io mi sia ingannato nei modi, ma infine la mia intenzione era buona... - voi mi avete colmo di calunnie e d'oltraggi. Non voglio più impacciarmene. Alla mia età, vecchio soldato, la è davvero ridicola di essere sempre ingiuriato... anche da te, miccina, non ancora sgusciata di chiocciola. Dunque, riassumo: ecco di che si tratta. Tuo fratello corre un grave pericolo. Il sagan te ne previene. Va a prenderne conto più minuto da lui; va a domandargli, se vuoi, di verificare tu stessa la cospirazione che si ordisce contro il Rabbì; fa quello che vuoi; non stare a credermi; non dir nulla a tuo fratello, al sagan. Per me mi levo d'imbarazzo, e me ne vado.
Ida era scossa. In quel punto arrivò Justus, il quale, secondo il suo solito, cacciava sempre sulle mie peste. Era stato anch'egli colpito dalla bellezza fulminante di Ida; più degli altri forse, fatalmente per lui, come vedremo. Veniva ora, come amico mio, a domandare a quella giovine donna che io aveva dovuto sposare, se avesse d'uopo di un qualche servigio. Justus fu contrariato della presenza di Bar Abbas in quel sito; questi, dall'arrivo di Justus che calcolava inopportuno. Ma con la sua solita prontezza di spirito, volle profittare dell'intrusione di quell'importuno. Gli si rivolse dunque e gli chiese:
- A proposito, Ida non vuol credere che suo fratello ha offeso tutti i partiti a Gerusalemme, e solleva contro di sè una reazione viva e pericolosa.
- È verissimo, Ida, fece Justus, interrogando dello sguardo Bar Abbas, onde comprendere ciò che significasse la domanda che gli dirigeva. È verissimo; ieri ancora, il Rabbì ha fatto uno scandalo al Tempio, ove non ha alcun diritto di levarsi a padrone, ed ha suscitato una gran collera nel capitano.
Ida non conosceva punto quell'intruso. Principiava a credere a Bar Abbas; ma l'attestato che egli chiedeva ad uno sconosciuto le fece l'effetto di una commedia tra compare e ciarlatano. Li sospettò ambedue. Gli era proprio ciò che voleva Bar Abbas onde deciderla a rivolgersi al sagan per sapere la verità. In fatti, Ida gli disse:
- Vi ringrazio dell'interesse che prendete per mio fratello. Io sono una povera donna isolata, e non posso nulla fare per lui. Dio lo proteggerà, se cammina nella sua strada. Addio.
Così dicendo Ida si alzò ed uscì. Noah indicò la porta a Justus ed a Bar Abbas che non se lo fecero ripetere due volte. Però, quando furono sulla strada, Justus si fermò, e guardando fisso negli occhi Bar Abbas gli chiese:
- Per chi lavori tu?
- E tu? rispose Bar Abbas.
- Io? pel meglio del mio amico Giuda.
- Nobile cuore! sclamò Bar Abbas; ed io per tuo zio Hannah.
Justus tacque, e lasciò Bar Abbas ammirare tranquillamente da solo le singolarità del paesaggio durante il cammino.
Ida, dal canto suo, appena rientrata nella sua stanza da letto, raggiunta da Noah, non si fermò a lungo a riflettere. S'avviluppò in ampia stola che la coprì da capo a piedi, e facendo segno a Noah di seguirla, uscì. Ma prima di partire, diede ordine a Thorix di riportarmi i regali che le avevo mandati la vigilia, poi di aspettarla sulla strada, ai piedi del monte degli Ulivi.
Precediamola.
XXIV
Il Rabbì di Nazareth era venuto a Gerusalemme in una disposizione di spirito diametralmente opposta a quella in cui l'avevo lasciato a Cafarnaum. Il rapido giro ch'egli aveva fatto nelle Provincie non ebree, gli aveva aperto gli occhi su quell'orrore pei Romani, di cui io credeva animato il popolo Israelita. La sua missione perdeva dunque la base politica, sulla quale egli non avrebbe sdegnato di appoggiarla.
Egli riconosceva bene l'esistenza del sentimento ebreo che sospirava un liberatore, un messia, il quale lo francasse dallo straniero. Ma egli aveva riconosciuto altresì che questo sentimento non era abbastanza intenso da farsene una leva di sovversione politica, e di elevazione personale. Occorreva dunque rinunziare a quel mezzo di attrarre il popolo dietro a sè. Egli attribuiva la tiepidezza della plebe alla soddisfazione dei Sadducei, alla interessata rassegnazione dei Farisei. In realtà, per gli uni, il dominio romano era la pace; per gli altri, una tregua, durante la quale lavorerebbero a scalzare la supremazia dei loro rivali. Il Rabbì detestava gli uni e gli altri come traditori verso Dio, di cui egli si era proclamato figlio, e traditori verso il popolo di cui egli si faceva sgabello. La sua grande parola pronunciata, la sua missione dichiarata, esposte le sue dottrine, i suoi discepoli inquieti, ma all'erta, - che poteva ormai fare il Rabbì? Il cielo stesso della sua provincia rotolava tuoni contro di lui. Di tutte le mie insinuazioni, non aveva ascoltato che il consiglio, appoggiato dall'evidenza quotidiana, di cangiare il teatro delle sue prediche, e di venire a spiegare la sua attività a Gerusalemme. Colpito il capo, il corpo cadrebbe da sè. Era dunque arrivato a Bethania, la vigilia del Purim, con un piano stabilito di condotta: confondere i suoi nemici, trionfare o soccombere.
Il Rabbì non mi disse verbo pertanto nè del suo cangiamento interno, nè delle sue disposizioni aggressive. Non lo seppi che troppo tardi, ahimè! quando un seguito d'imprudenze aveva reso il male irreparabile, ed il rimedio impossibile. Poi, altre complicazioni vennero a precipitare la catastrofe.
Così, dall'indomani del suo arrivo, il giorno stesso del Purim, mentre Gerusalemme guazzava nelle orgie dei suoi saturnali, il Rabbì di Galilea principiava la sua gran battaglia sotto il portico di Salomone nel Tempio. Quando arrivai per vederlo ed invitarlo alle mie nozze, lo trovai circondato da popolo, da leviti, da scribi, sofisticando con un astuto rabbino che gli aveva chiesto:
- Cosa devo fare per avere una particella nell'eredità della vita eterna?
- Ciò che è scritto nella legge, rispose Gesù; l'hai tu letta?
- È il mio mestiere.
- E cosa vi hai letto?
- Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutto il tuo spirito, ed il tuo prossimo come te stesso.
- Ebbene, replicò il Rabbì, fa tutto ciò e vivrai.
- Facile a dire, e ad ordinare, riprese il rabbino; ma in pratica la cosa s'imbroglia. Chi è il mio prossimo?
- Ascolta, rispose il Rabbì. Un certo uomo, scendendo da Gerusalemme a Gerico, cadde in mezzo a dei ladri, che lo spogliarono di tutti i suoi vestiti, lo ferirono, e partendo, lo lasciarono mezzo morto.
- Ciò avviene sovente, interruppe il rabbino. La colpa è dei nostri padroni, che ci mettono delle taglie pesanti per difenderci, e ci lasciano in balia degli assassini.
- Ciò non mi riguarda, riprese il Rabbì. Ora avvenne che un prete per caso passasse per quella strada.
- Tanto meglio pel ferito, sclamò il rabbino.
- Credi? ebbene, t'inganni. Il prete guardò, vide l'uomo moribondo, e si tirò dall'altra parte della strada.
- Ebbe paura, osservò il rabbino.
- Sia, continuò il Rabbì, ma un levita passò pure per di là alcuni minuti dopo. Si fermò, guardò alla sua volta, si assicurò dello stato del ferito come aveva fatto il prete, poi alzò le spalle e proseguì la sua strada.
- Temette l'istessa sorte, disse il rabbino, o forse anco, d'esser preso per l'assassino.
- Forse fu così. Ma un altro non ebbe le stesse paure, e non si spaventò d'esser confuso con dei ladri. Sai tu, ora, chi era quest'altro?
- Uno scriba, un uomo della legge senza dubbio, esclamò il rabbino.
- T'inganni: un Samaritano, - uno di quegli uomini che voi disprezzate, considerandoli come impuri, e sui quali invocate tutti i malanni e tutte le maledizioni. Sì, un buon Samaritano viaggiava anch'egli da quella parte. Quando arrivò presso il ferito, e lo vide in quello stato, e' scese dal suo asino. Poi, tocco da compassione, s'avvicinò, fasciò le ferite del moribondo, vi versò dell'olio e del vino, lo accomodò sulla sua cavalcatura, lo condusse in un albergo vicino e gli prodigò le sue cure. All'indomani e' partì; ma prima, prese due monete, e dandole all'oste gli disse: Abbi cura di questo disgraziato, e quanto spenderai di più, te lo pagherò, ripassando per qui.
- Un Samaritano! esclamò il rabbino.
- Sì, affermò Gesù, un Samaritano. Io ti chiedo adesso, a te uomo della legge, quale dei tre viaggiatori fu il prossimo della vittima dei ladri.
- Hum, brontolò il rabbino, quello che ne ebbe compassione.
- Allora, osservò il Rabbì, va e fa altrettanto100.
- Come il Samaritano, non come i ladri, gridò una voce fra gli spettatori. Manasse sarebbe capace d'ingannarsi.
Questo ripicco non diminuì punto l'impressione fatta da questa bella parabola, che offendeva mortalmente i signori del tempio.
Abbassare il prete ed il levita al disotto di quello scomunicato, di quel disprezzato Samaritano cui gli Ebrei detestavano peggio dei pagani, al punto di dire che il pane dei Samaritani era come la carne del maiale; glorificare quel lebbroso dell'anima a spese dei ministri di Dio, parve il colmo dell'audacia, dell'impertinenza e dell'insulto: una bestemmia, una violazione della legge. Ma Gesù non si fermò a mezza via; e poichè aveva un così bell'uditorio intorno a sè, sguainò tutta la sua collera contro i Farisei, chiamandoli: razza di vipere, ipocriti, sepolcri imbiancati, mentitori, impuri dell'anima, intelligenze limitate e false, vasi d'immondizia. Un sordo mormorio circolava nella folla, taluni applaudendo, altri corrucciandosi. Allora il Rabbì vide un mendicante cieco che entrava per la porta. Corse a quell'uomo e lo prese per le mani.
- Maestro, dissero allora i suoi discepoli, chi è che ha peccato, quest'uomo o i suoi parenti, perchè egli sia cieco?
- Nè lui, nè gli altri, rispose il Rabbì. Quest'uomo è in quello stato, perchè io possa manifestare il mio potere.
Allora egli sputò per terra e compose una specie di pasta, mescolando la sua saliva alla polvere. Lo vidi in seguito spalancare le palpebre del cieco, con una punta brillante d'acciajo, toccare l'occhio infermo, e cavarne come una pietruzza. L'uomo gettò un grido di dolore, che si cangiò in gioia, poichè esclamò:
- Dio mio, vedo la luce.
Il Rabbì toccò nell'istessa maniera l'altro occhio e ne fece pure spiccare una piccola rena. Il mendicante gittò un secondo grido:
- Dio mio; vedo le cose e gli uomini.
Il Rabbì applicò allora la sua belletta sopra i due occhi, impedendo loro di vedere, e disse al cieco:
- Va. Fra tre giorni o quattro, lavati alle sorgenti di Siloam e credi nell'inviato di Dio101.
Questa guarigione era stata operata dal Rabbì in modo così pronto, abile e rapido, che i suoi discepoli gridarono al miracolo! ed egualmente la plebe. Ma i farisei, gli Scribi, e le altre persone istrutte se ne spassarono come di una gherminella da cerretano.
I più coscienziosi fra loro lo chiamarono pazzo e demonio, e principiarono ad interrogare il mendicante cui sospettavano forte di essere un discepolo addestrato od un compare d'accordo.
Io vidi che la tempesta ingrossava, ed avvicinandomi al Rabbì lo condussi meco.
L'ora della nostra partenza per Berachah s'appressava.
Dopo aver lanciato la terribile apostrofe che abbattè e schiacciò sua sorella, Gesù scappò via da Berachah come da una fornace che l'avesse bruciato.
Passioni e pensieri d'ogni fatta lo turbavano. Gli avvenimenti lo mettevano da ogni parte alla prova; alle angoscie della vita pubblica si aggiungevano gli spasimi del cuore. Quando arrivò a Bethania, la notte era molto avanzata, il freddo intenso, il cielo puro e profondo. Sedette sopra un banco di pietra nella corte e s'immerse nell'abisso dei suoi pensieri. Tutti dormivano sotto quel tetto tranquillo, anche le due sorelle affettuose che vegliavano alla sorte del Rabbì con tale inquietudine di amore che cangiava in grazia la loro bruttezza. Il Rabbì non risvegliò nessuno, s'avvolse nel suo mantello, e spiò il giorno.
Appena spuntò l'alba e' si rimise in via per Gerusalemme, pel Tempio. Ormai ogni esitazione era cessata: il destino lo travolgeva nei suoi fiotti. Adescato dal successo del giorno precedente, più focoso e più incocciato all'opera che mai, entrò di buon'ora nel Tempio, e s'installò sotto il portico di Salomone.
Appena fu visto, gli oziosi che venivano in quel sito per veder gente e spigolar novelle, i devoti che ci venivano pel sacrifizio, le persone del culto, lo circondarono. Nessuno ignorava come l'insegnamento del Rabbì fosse originale, piccante, ed elevato. Quel giorno, il domani della mia catastrofe, il Rabbì si lasciò andare al suo umore mistico, cioè a quella parte della sua dottrina che urtava di più, a causa della sua oscurità, la quale le dava l'impronta dell'assurdo. In fatti il Rabbì assicurò ch'egli era la porta del pecorile, che egli era la buona gregge, il buon pastore, che egli entrava solo da padrone in quel sito, mentre gli altri vi si insinuavano come ladri per uccidere e distruggere. Affermò che «suo Padre lo conosceva, e ch'egli conosceva suo Padre, ed era pronto a dare la vita pel suo gregge, ragione per cui suo Padre l'amava; che egli aveva il potere di dare e di riprendere la sua vita; che egli si era attribuita questa missione ma che suo Padre altresì gliela aveva imposta....» ed altre cose simili.
- È egli pazzo, od è osesso? chiedeva la folla. Ma altri che si annojavano di quel garbuglio di parole, misero la questione in termini chiari, dimandandogli:
- Per quanto tempo ancora ci lascerai brancolare nel dubbio? Se sei il Cristo, dichiaralo senza ambagi.
- Ve l'ho già detto, rispose il Rabbì con voce ferma, e non senza collera; ve l'ho detto e voi non avete voluto credermi. Le opere pertanto che fo io in nome di mio Padre non sono esse sufficienti per attestarvi il mio potere? Ma voi non credete, perchè voi non siete del mio ovile, a cui solo do la vita eterna, perchè mi è stato affidato da mio Padre, e mio Padre ed io non facciamo che uno102.
Un grido d'orrore scoppiò in mezzo alla folla. Alcuni vollero lapidarlo, altri l'accusarono di bestemmia. I Farisei, ingiuriati, fuggirono, verso il Lishcathha Gazith (camera selciata) ove il sanhedrin sedeva fino dal mattino, precisamente per giudicare il Rabbì.
Il Rabbì di Nazareth aveva dichiarato la guerra al dogma ebreo ed a tutti i partiti della Giudea, senza formulare ancora la sua dottrina, o ravvolgendola in una fraseologia che offendeva il gusto e non rischiarava le intelligenze. I Sadducei, i quali, se non potevano migliorare la loro situazione politica, preferivano conservare la pace al conservare le dottrine giudaiche, s'erano mostrati più tolleranti dinanzi gli attacchi del Rabbì. Gli Esseniani, che vedevano nel suo insegnamento un primo passo verso la effettuazione delle loro idee, si rassegnavano alle ferite che il Rabbì portava loro. Ma i Farisei non sapevano restar impassibili sotto quella doccia incessante di motteggi, di rimproveri, di censure, di villanie, di cui si sentivano sempre più caricati. Avrebbero accettato di transigere con lui, se il Rabbì avesse consentito a piantarsi a dirittura come un principe della loro casa reale maccabea, sostegno della polizia separatista, ammiratore della legge rivelata, ristauratore del regolamento indipendente, e dell'indipendenza; in una parola: re degli Ebrei. Il Rabbì me l'aveva fatto sperare. Io aveva portato a Gerusalemme tale speranza. Adesso, egli mi scattava fra le mani, insistendo, con una pertinacia piena di collera, sopra la necessità d'adottare una nuova legge, un nuovo comandamento, una nuova forma di preghiere, una nuova vita religiosa. Egli profanava il sabato. Faceva buon mercato di ciò che i Farisei credevano impuro. Aboliva i loro riti, ed attaccava la loro rettitudine. Il giorno prima aveva tocco il colmo delle sue invettive. I Farisei avevano portato contro di lui, dinanzi al sanhedrin, l'accusa di cui Bar Abbas aveva inteso parlare alla tavola del sagan, e che aveva raccontata ad Ida.
Il sanhedrin si era radunato alla mattina nella sua sala di discussione, detta Lishcath-ha-Gazith, sul grande bastione della parte occidentale, rimpetto Sion, presso l'entrata principale del Tempio, che dava sulla corte degli Israeliti e su quella dei pagani, per permettere l'entrata agli Ebrei ed ai Greci.
Il sanhedrin si componeva di settanta a settantadue membri, scelti a suffragio, fra gli Ebrei più considerevoli, più ricchi e più vecchi, non solo di Gerusalemme, ma anche dell'Egitto, della Grecia e di Babilonia. Prima di Erode, questo consiglio aveva un potere regio, temporale e spirituale, essendo nell'istesso tempo corte d'appello e corte giurisdizionale, civile e criminale, potendo nominare e deporre i re, nominare i consigli provinciali, decidere delle questioni di pace e di guerra, giudicare le tribù, il gran sacerdote, i falsi profeti, metter in movimento gli eserciti. In breve, questo consiglio aveva diritto assoluto sulle fortune, la vita, la morte, la coscienza dei cittadini, eleggeva i suoi membri, pubblicava sentenze di morte, interpretava la legge ed i libri sacri: Dio ed il sanhedrin non facevano che una cosa sola103. Erode condannò a morte tutti i membri di questo corpo - due eccettuati, Hillel e Shammai - e diminuì di molto i poteri del sanhedrin cui riunì intorno a questi due illustri membri. Pilato diminuì ancora i poteri che Erode aveva loro lasciati; ma ciò nondimeno, quelli che loro restavano erano ancora considerevoli. Il governo romano però, si riserbava la legalizzazione dei decreti del sanhedrin avanti la loro esecuzione, eccettuati quelli che riguardavano l'educazione, la liturgia, la fede ed il culto. Dopo gli errori di Gratus, Pilato aveva compreso che questo corpo poteva essere un eccellente alleato, o un nemico terribile.
Il sanhedrin era scelto fra i preti, i leviti e la classe laica degli Ebrei. L'elemento sacerdotale vi dominava. Il gran sacerdote lo presiedeva, o in sua vece, il rettore del gran Collegio, assistito da due segretarii.
Un atto d'accusa contro il Rabbì di Nazareth essendo stato portato il giorno prima, Caifas aveva radunato il sanhedrin, che sedeva in semicerchio intorno a lui. Dopo che l'atto fu letto, siccome occorreva l'unanimità dei membri presenti del consiglio per pronunziare la colpabilità e poi la pena, Caifas domandò se c'era nessuno che volesse presentare delle osservazioni. Nicodemus, un sacerdote della famiglia di Hillel, si alzò e disse:
- Padri della camera del giudizio, la nostra legge ci comanda di non condannare alcuno prima di averlo udito. Ora, ci vien fatta un'accusa contro questo Rabbì, ma le prove mancano. Possiamo noi procedere sopra questo quaderno d'imputazioni soltanto? Possiamo inviare dinanzi al giudice romano una sentenza senza base?
Gli altri membri del sanhedrin, preparati a lanciare un mandato d'arresto contro il Rabbì, tennero conto di questa osservazione, e l'assemblea era per isciogliersi, quando un gran numero di Scribi, leviti, e Farisei irruppero nella sala del consiglio gridando: allo scandalo, alla bestemmia! Raccontarono allora aver udito il Rabbì proclamarsi figlio di Dio, e che egli era lì ancora, sotto il portico di Salomone, per ripeterlo a chi volesse interrogarlo. Questa volta le testimonianze erano concludenti, irrefragabili. Il mandato di arrestare il Rabbì fu spedito all'istante. Gli ufficiali del Tempio ricevettero l'ordine di eseguirlo.
Gesù predicava ancora ed insisteva, colla sua ordinaria tenacità, sopra la sua asserzione.
- Voi dite che io bestemmio perchè ho annunziato che io sono il figlio di Dio? Se io non fo le opere di mio Padre, non mi credete. Ma se le fo, se non volete credere in me, credete in esse; giacchè allora voi potrete conoscere e convincervi che mio Padre è in me, ed io sono in lui104.
A queste parole gli ufficiali del Tempio si avanzarono per impadronirsi di lui; ma nel medesimo momento, Gneus Priscus entrò sotto il portico, e rivolgendosi a Gesù, gli domandò:
- Non sei tu il Rabbì di Nazareth?
- Sì, son io.
- Vieni con me allora; Claudia, la moglie del procuratore, t'invita alla sua presenza.
Gli ufficiali del Tempio si ritirarono, accompagnati da uno sguardo ironico del Rabbì, mentre Gneus Priscus lo afferrava senza troppe cerimonie pel braccio, e lo conduceva seco.
Era l'ora quinta.
Claudia s'era risvegliata all'ora quarta (dieci ore del mattino), il viso simile ad una maschera di creta, a causa della mollica di pane bagnata nel latte d'asina che vi applicava durante la notte onde conservarsi fresca e bianca la pelle, e che disseccava e si screpolava la notte. Battè ad un timballetto d'oro posto sul tavolo dinanzi il suo letto, e Nomas, che stava alla porta, coll'orecchia tesa, si presentò. Claudia ordinò che venissero ad alzarla; e Nomas avendo aperto le finestre, cinque o sei schiave si precipitarono nella stanza, per aiutare la loro padrona a scendere dal letto ed a venire nel vicino gabinetto, ove andava a principiare la grand'opera della teletta105.
Il gabinetto ove Claudia entrava era quello stesso ch'Erode aveva fatto costruire per la regina Mariamne. Era un ottagono abbastanza grande per contenere quell'esercito di giovani e belle schiave, nude fino alla cintura, che dovevano compiere i sapienti misteri della trasformazione, della creazione qualche volta, del culto della bellezza. Dai muri di questo gabinetto pendevano delle stoffe di seta color di giacinto rilevate di porpora106 e ricamate in oro e in perso. Due intermedii di finestre erano coverti di specchi dal su in giù. Il soffitto, di cedro d'Africa scolpito, sembrava un pergolato dalle foglie d'oro, e dai grappoli d'argento e di pietre preziose. Un magnifico tappeto di Smirne ricopriva il mosaico del suolo in lazulite, agate e smeraldi, poichè la stagione era fredda, benchè il sole entrasse a iosa dalle due finestre aperte sui giardini. Alcuni dipinti poco modesti ornavano gli assiti delle finestre, ed alcuni quadri, anche questi poco decenti, pendevano dalle pareti; finalmente alcuni seggi coperti di cuscini ricamati.
La schiava che attendeva alla porta chiese a Claudia, chi doveva lasciar entrare durante la teletta.
- Il Rabbì di Nazareth soltanto, rispose Claudia, se si presenta. L'ho fatto domandare fin da ieri sera.
L'opera delle schiave addimandate cosmetes non durava a lungo con Claudia, la quale non metteva che di rado un po' di rosso sulle labbra. Chi legge ricorderà la funzione ch'ella esercitava a Capri presso di Tiberio. Un poeta aveva cantato di lei, sotto il nome di Tais: Tam casta est rogo Thais? Immo fellat: Perchè mai Tais è così casta? perchè la sua bocca non lo è punto.
Del resto, nè capelli posticci, tagliati ad una fanciulla d'oltre Reno, ed intrecciati da un'artista del Velabro: nè capelli tinti in biondo, dopo essere stati lavati alla calce, colla pomata del Gallo del circo Massimo; e neppure denti falsi, nè false sopracciglia.
Cinzia portò una coppa d'oro colma di latte d'asina munto in quel momento, ed umettò con esso la crosta di mollica di pane della notte in maniera da farla cadere. Poi Cinzia lavò la pelle prima con dell'acqua tepida, poi con della fredda, in cui durante la notte era restato in fusione del nardo d'Etiopia. Cloe si presentò con una conchiglia d'oro, e dopo aver respirato sopra uno specchio, per mostrare alla sua padrona che il suo alito era puro, e convenientemente profumato dalle pastiglie di Cosmos, umettò con della saliva un pizzico di rosso molto allungato cui distese leggermente sulle labbra di lei. Delia aveva già lavati i denti di Claudia, con una dolce spugna di Bretagna.
Licenziata la coorte delle cosmetes, vennero le acconciatrici dei capelli.
Claudia aveva una ricchezza imbarazzante di capelli neri, soffici, lunghi fino alle ginocchia. Questa parte della teletta era la più molesta; e le accadeva sovente, per impazienza, di mordere, di pungere colla sua spilla, di pizzicare i seni delle sue schiave. Neera teneva lo specchio mobile cui presentava alla sua padrona in tutte le posizioni. Questo specchio non era altro che una piastra d'argento levigata, contornata d'un rilievo d'oro riccamente cesellato ed ornato di perle. Fiale sfece la pettinatura notturna, e diede dell'aria a quelle splendide treccie. Ostilia le profumò di pomate preziose. Nape rotolò con un ferro caldo i piccoli ricci delle tempie e della fronte. Cypassis, una bella negra, intrecciò, annodò ed avvolse in forma di torre le treccie di dietro. Galla le traversò di quel terribile spillone di cui Claudia faceva un uso così omicida nella sua ira.
La fioraia egiziana Nemesis entrò di poi, seguita da due fanciulli etiopi con due corbelli ripieni di fiori, e di rami colti nello stufe. Claudia scelse un ramo di verbena ed alcuni narcisi, cui Phlogis le piantò nelle treccie. Claudia, l'ho già detto, non portava mai gioielli.
Acconciata la testa, toccò la volta alle mani.
Fabulla le lavò con del latte tepido. Lilla le sciacquò all'acqua di rose. Vetustilla le asciugò con una pasta di mandorle profumata, poi con un lino d'Egitto fino come una tela di ragno. Sabina, che aveva tolto il famoso anello di Tiberio, lo rimise all'annulare. Polla tagliò le unghie, e le lucidò con un cosmetico oleoso e profumato. In quel momento, mentre Chione, Clio, Calamide ed Eunoe si occupavano dei piedi di Claudia, d'una bianchezza abbagliante, - quei piedi che davano il batticuore alla gioventù d'Alcinous di Roma, quando ella passava per la Via Sacra, - mentre Glicera le calzava degli stivaletti rossi dai talloni dorati, e che Marcella li annodava con dei cordoni di seta ed oro a quelle caviglie ed a quelle gambe tanto cantate dai poeti, due adolescenti Galli, dai capelli castagni arricciati, e dalla schiappa corta e bianca, portarono lo asciolvere di Claudia.
Uno d'essi teneva sopra un bacino una coppa di murrina che aveva il valore d'una provincia, l'altro un vassoio d'oro con dei frutti. Nella coppa fumava quel brodo squisito di succo di selvaggiume, allungato con della crema, del mele e alcune goccie di vecchio Pollio di Siracusa, inventato da Eumolpe, cuoco, o meglio medico di Claudia. Cleopatra le presentò un pezzo di porpora per asciugarsi le mani, ma Claudia preferì tuffarle nei capelli dei due giovani schiavi.
In quell'istante, venne la volta delle ornatrici. Ma nell'istesso tempo Drusilla, la schiava della porta, annunziò Filottete, Curculio, ed il Rabbì di Nazareth.
Claudia rinviò Curculio, lo schiavo che ogni mattina le raccontava gli avvenimenti della città, ed ordinò di lasciar passare il Rabbì e Filottete.
Questi era il filosofo di Claudia, il cui mestiere consisteva nel recitarle dei versi greci e latini - i più liberi erano i meglio accolti. Filottete doveva altresì pigliar cura delle piccole cagne, insegnare a chiacchierare ai papagalli, ritrovare delle nuove pomate, lavare i cagnolini quando avevano caldo, pettinarli ed uccidere i loro insetti. Questo filosofo era calvo. Aveva una barba che gli scendeva fino alla cintura, un mantello spelato e sordido, una tunica di lana rozza che non gli copriva neppure le gambe nude e vellute, e dei sandali grossolani. Era ghiottone a dar dei punti ad una preziosa; e siccome Claudia nutriva le sue cagne in puerperio di fegati d'oca e di cialdelle di sesamo, il filosofo le faceva partorire sovente, troppo sovente, le condannava ad una dieta salutare, e ne divorava egli le leccornie. Filottete veniva a presentare a Claudia la sua favorita Febea, la cagnetta maltese che abbaiava a Pilato più delle altre, e che aveva dato alla luce sei piccoli cui egli recava in un lembo del suo mantello. Claudia accarezzò la cagna, e la rimandò col suo aio. Poi, volgendosi verso Gesù, gli chiese in greco:
- Rabbì, che lingua devo parlarti? io non so l'ebraico; conosci tu il greco od il latino?
- Parla il linguaggio che traduce meglio la voce del tuo cuore, rispose il Rabbì.
Claudia aveva tutto il busto ignudo. La candidezza, la bellezza, l'eleganza di quel corpo davano i brividi. Tiberio l'aveva temuto, e, per gelosia d'imperio, era stato contento di allontanare Claudia di cui temeva l'irresistibile influenza, ch'ella andava prendendo su di lui. Il Rabbì la guardò come se i suoi occhi fossero stati di cristallo. Marcia, la direttrice della guardaroba, venne a chiedere a Claudia che tunica volesse.
- Una tunica a frange azzurre, ordinò Claudia, la damascata.
Mentre Marcia traversava un'infilata di stanze piene di schiave: nella prima quelle che filavano e tessevano le stoffe; nella seconda le sarte; nella terza, le ricamatrici; nelle altre le piegatrici, le stiratrici, quelle che facevano gli ornamenti; mentre Marcia domandava alle schiave la tunica disegnata, Claudia diceva al Rabbì:
- È molto tempo che ho dato l'ordine di farti venire. Non sei dunque stato avvertito del mio desiderio107? Non ti hanno trovato? Pure, se avessi chiesto a Roma che mi si conducesse l'istrione Pilade, l'avrebbero trovato all'istante.
- Sono arrivato a Gerusalemme soltanto avant'ieri sera, rispose Gesù.
Lo sguardo del Rabbì diveniva severo. Egli non sapeva che le dame romane, anche le più austere, non avevano la castità degli occhi. Esse si bagnavano nude nelle Terme miste cogli uomini. Claudia nondimeno osservò il pudore del Nazareno, e come se quello sguardo fisso, acuto come la lama d'un pugnale, la bruciasse o la pungesse, arrossì, e sollecitò Paula a metterle la camicia di cotone a maniche corte. Pyrallis le sostenne il seno, cura inutile, con una cintura.
- Che tempo fa, Rabbì? chiese Claudia per stornarne lo sguardo.
- Quando si vedono i tuoi occhi, o Claudia, rispose il Rabbì con semplicità, non si cura di sapere se il sole brilla, o se si nasconde.
Claudia sorrise. Ella ignorava che quest'uomo, un momento fa così duro, così brutale, così amaro contro i Farisei, si trasfigurava da che scorgeva un fiore, un fanciullo, od una donna. Gesù sprezzava l'uomo. L'uomo feriva la sua squisita sensibilità, il tatto voluttuoso dei suoi nervi. Per contro il fiore lo incantava, il fanciullo lo inteneriva, la donna riempiva la sua anima di ineffabile soavità. Il profeta si cangiava allora in poeta; la voce si mutava in un canto; l'uomo che brancolava sulla terra, navigava per i cieli. Il Rabbì colla forza della sua volontà, aveva infranto la sua ruvida corteccia di Ebreo, e pulendo la sua anima, le aveva dato uno splendore dolce e squisito.
- Sei tu ammogliato, Rabbì?
- No, rispose Gesù. La donna è troppo elevata per me, perchè io possa innalzarmi fino a lei.
- Rabbì, riprese Claudia, non allogarla però così alto che la si trovi relegata nella solitudine.
Marcia arrivò colla tunica e la porse a Polla. Questa prese quel vestito di lana di Mileto, tessuto di cotone, dalle maniche serrate nell'alto, aperte dal gomito ai polsi ove un braccialetto od un cordone di seta le serra, tutta ricamata in azzurro, al collo, al petto e nei lembi.
- Hai mai assistito alla toeletta d'una donna, Rabbì? chiese ridendo Claudia.
- Sovente!
- Sovente?
- Sì: a quella delle tigri nel deserto. E ti assicuro, bella signora, che desse non sono meno lente, meno ricercate, meno difficili, quantunque meno civettuole, che la moglie d'un procuratore della Giudea.
- Hanno esse specchi ed unguenti?
- Altro che! hanno il ruscello e la saliva, e quelle piote terribili come i vostri spilletti, che sono ad un tempo un oggetto di ornamento ed un'arma.
In quel punto Drosa presentava la palla o mantello che finiva l'abbigliamento. Il panneggiamento di questo vestito è la parte più difficile della teletta d'una donna. L'è tutta una scienza, che esige la conoscenza dell'architettura, della pittura, del gioco delle ombre e della luce, che deve arrotondire, armonizzare, rilevare, rivelare tutte le membra della donna, non nascondere alcun movimento del corpo e fonderli tutti dolcemente. Claudia prese la palla dalle mani della schiava, e presentandola al Rabbì, gli disse sorridendo:
- Poichè sei così esperto nella civetteria delle tigri, io, che sono pure civetta, sarei ben lieta vedere come desse t'hanno insegnato ad aggiustare questo arnese.
Il Rabbì, con una condiscendenza squisita e delicata, prese il mantello, lo posò sulla spalla dritta di Claudia, ne fece passare un lembo sotto il braccio sinistro, lasciando nuda la spalla ed il braccio, e mentre le due estremità scendevano fino ai garetti, diede per di dietro un tal giro di pieghe al corpo del mantello, che provocò un grido di sorpresa di Claudia, la quale si guardava negli specchi. La si sarebbe detta nuda, talmente il busto, il basso dei reni, le anche erano soavemente disegnate.
- Affè di Dio! Rabbì, disse Claudia ridendo, mi comprerai una tigre, per aggiustarmi la stola. Sono divenuta difficile.
E fece segno alle sue schiave, che la lasciarono sola col Rabbì.
Allora la scena cangiò. Nè Claudia, nè Gesù, non erano più gli stessi.
XXV
Claudia indicò un seggio al Rabbì e principiò a passeggiare per la stanza d'un passo agitato.
- Sai perchè t'ho fatto chiamare? sclamò ella.
- Quando si domanda del medico, rispose tranquillamente il Rabbì, è segno che si è ammalati.
- Potresti forse aver ragione. Ma dov'è il mio male?
- Dove tutte le donne han male: al cuore.
- Quando c'è un cuore! Sì, tutte le donne sono prese di là, ora perchè non le si amano, ora perchè le si amano poco o troppo, talvolta perchè esse amano. È malattia d'amore la mia? in quale categoria mi poni tu?
- Quando si è bella come sei tu, giovane, ricca, possente come sei tu, di rado una donna si lagna dell'altrui amore. Che la si ami o no, ognuno s'affretta a circondarla d'un'atmosfera d'amore alla temperatura ch'ella desidera. Dunque, Claudia, tu ami.
- Io amo. Che vuoi tu che faccia una donna a ventiquattro anni se non ama?
- Ami, e sei gelosa.
Claudia s'arrestò, e prendendo le mani del Rabbì gridò:
- Sì, sono gelosa, gelosa da morirne.
Il Rabbì afferrò le mani che Claudia gli presentava e le serrò, quantunque ella a quel contatto ardente volesse ritirarle. In pari tempo, il Rabbì inchiodò su di lei le sue larghe, calde, penetranti pupille, simili a due raggi di fiamma, e Claudia accasciandosi sulla persona cadde sopra un seggio. Il Rabbì si avvicinò ancora alla sua fronte e chinandosi su di lei, la guardò con maggiore intensità ancora. Claudia chiuse gli occhi. Dopo un istante, il Rabbì si allontanò. Claudia si rialzò. Questa scena non durò che alcuni minuti.
- Che ho io dunque? disse Claudia, allungando le braccia, - sono affranta, ho creduto di morire.
- L'aria di questa stanza è troppo calda, osservò il Rabbì aprendo la finestra; la tua emozione ti ha dominata.
- Che ti diceva io or ora?... Ah! M'è stato parlato della tua potenza. Ti credono un Messia, e tu ti spacci per figlio di Dio.
- Tu non mi credi?
- Figlio di Dio? perché108 no. Enea lo era, Alessandro, Cesare lo erano; non so quanti altri re, conquistatori, e maghi lo sono stati. Siilo tu pure. L'opera che vuoi compire lo esige. Ti è egli stato detto, che io vi do' aiuto?
- L'opera alla quale io lavoro, o Claudia, mi è stata ordinata da mio Padre.
- Io non mi occupo di colui che ordina, ma di colui che deve obbedire. Tu vieni per rovesciare Roma. In nome di chi vieni tu a tentare un'impresa nella quale Alessandro e Cesare soccomberebbero? Quali sono le tue forze? Con chi e con che vuoi tu surrogarle?
- Claudia, ti hanno male informata sul mio conto. Il mio regno non è di questo mondo. Io non vengo a rovesciar Roma. Io vengo a dare al mondo ed a Roma stessa ciò che alcuni Romani gli rifiutano: l'eguaglianza dinanzi Dio109. Alessandro, Cesare, Augusto, Tiberio fallirebbero in questa impresa, perchè vorrebbero imporla, mentre occorre indicarla, e lasciarla compiersi da sè sola. La mia forza, è la verità; è questo popolo, di cui si è fatto finora una cosa, e di cui io desidero fare un uomo. Io pongo Dio al posto di Roma.
- Se questo è tutto ciò che tu proponi, puoi ritornartene in Galilea: Pilato non ha d'uopo di chiamare nuove legioni. Rabbì, sai che sei qui con una complice?
- Io non conosco complici; conosco dei messaggieri della mia parola, dei credenti nella mia missione.
- Rabbì, tu parli già da padrone. Ciò non basta. Che hai tu fatto, che puoi tu fare? M'è stato detto che hai guarito degli ammalati, e dato del pane a degli affamati. Rabbì, per sollevare il popolo ebreo come una marea spaventevole, e sommergere questo pugno di Romani che lo schiacciano, Esculapio stesso sarebbe impossente. Occorre un Gracco, un Cesare, un Mario, un Silla, od un Dio: perfino un Catilina.
- Donna, non affrettarti a giudicare l'operaio prima di veder l'opera. Tu non hai la fede.
- La fede si prova, Rabbì: giacchè io non conosco nulla di così incredulo, che la credulità. Manifesta il tuo potere, ed allora....
- Allora il figlio di Dio sarà disceso al livello di Simone, il mago di Sichem. Gli è per domandarmi dei miracoli, come la plebe, che m'hai chiamato?
- Non hai detto tu stesso che io era ammalata? Ebbene, tutte le azioni della mia vita non tendono che ad uno scopo. Se io ti domando dei miracoli, è che non ti considero come un mio schiavo, il filosofo Filottete.
- Claudia, tu hai d'uopo di una spiegazione e non d'un miracolo. Tu nascondi un segreto nel fondo della tua anima. Tu ami tuo marito, ma lo disprezzi; e ti fai violenza e ti torturi per non farti indovinare. Tu credi che Pilato t'abbia sposata per ambizione, e non per amore. Non puoi comprendere che egli abbia potuto amarti, conoscendo le tue costumanze alla corte di Tiberio, ma non sapendo che tu ti disonoravi per ottenere la libertà di tua madre.
- Rabbì, Rabbì, gridò Claudia, chi ti ha detto tutto ciò?
- Tu stessa.
- Mai, mai io non te n'ho confidato una parola.
- La parola non apprende nulla a coloro che leggono nel cuore.
- Se tu hai questo potere spaventevole, Rabbì, sei più di Dio.
- Mio Padre, che mi ha inviato, m'illumina. Tu sei dunque gelosa.
- Allora dimmelo, mio marito mi ama egli?
- Hai tu un amante, Claudia?
- No.
- Se tu avessi un amante, ameresti tuo marito?
- Certo che no.
- Ebbene...
- Ebbene?
- Pilato ha una ganza.
- Tu menti, gridò Claudia, balzando come una tigre sul Rabbì, scuotendolo pel braccio.
- Sai tu chi è la sua amante, Claudia?
- Lo saprò, e la ucciderò.
- Io te la denunzio: è mia sorella.
- Che!
- Pilato l'ha comperata da un miserabile parente la fece portar via, e la nascose agli occhi del mondo. Ella lo ha amato.
- Ah! Disgrazia su loro. È essa bella?
- Non so. Ma non vi sono donne belle, ove sei tu.
- Allora ella si è servita d'un filtro. Conosci tu i filtri, Rabbì?
- Ne conosco uno che è irresistibile: il candore.
- Rabbì, disse Claudia con ansietà, tu leggi nella mia anima; tu mi denunzii Pilato; mi denunzii tua sorella: chi sei tu? che cosa vuoi tu?
- Io sono l'inviato di mio Padre, quello che porta la luce. Voglio insegnarti a perdonare. Poichè, se tuo marito ti amasse, cosa farebbe? perdonerebbe le tue colpe. Ove eri tu? che facevi tu, quando tuo marito trovava il suo letto vedovo, e sognava di sua moglie riposante in un talamo adultero?
- È vero.
- Ebbene, ecco ciò che io vengo ad insegnare al mondo. Roma ti dice: Uccidi tuo marito, uccidi la sua amante: io dico: Perdona, come desideri di essere perdonata.
- Io non perdonerò mai.
- Ah! tu mi chiedevi qual'è la forza che sommergerà Roma? Eccola: il rifiuto del perdono. I popoli la misureranno come ella li ha misurati.
- Che importa a me di Roma? Non vieni tu dunque per dire a questo popolo vile: insorgi e schiaccia questi insolenti stranieri che ti schiacciano? Non te li do io forse in mano? Rinunzi tu già al mandato accettato di chiamare alle armi gli ebrei? Io non vedo che una cosa io, e non voglio che una cosa: quella donna. L'uomo, lo tengo.
- Io non rinunzio a nulla, rispose il Rabbì; attendo la mia ora.
- Rabbì, ov'è tua sorella? Voglio vederla.
- Claudia, io non ti ho svelato un delitto: ti ho indicato una sventura. Soffoca la tua sete di sangue. Se uccidi tuo marito, il tuo amore per lui si cangierà in una veste di fuoco che ti consumerà per tutta la vita. Se fai perire la povera vittima, l'amore di tuo marito per lei, diviene immortale. Vuoi tu punirli? Dimentica e perdona.
- Rabbì, sono Romana, io. Mi vendico delle ingiurie che mi vengono fatte. Questa religione del perdono è la religione degli schiavi, i quali non hanno diritto ad avere dell'onore. Rabbì, tu che leggi negli animi, devi leggere nella natura: indicami un filtro. Io voglio che egli mi ami. Fino ad ora, ho sofferto in silenzio, pensando ch'egli pure soffrirebbe del mio disprezzo, della sua solitudine, del vedovaggio al quale io lo condannava. Poichè io sperava, lavoravo a soddisfare la sua ambizione, e vederlo allora ai miei piedi. Tu hai posto un aspide nel mio cuore. Egli ama altrove. Egli si rifà altrove del mio disprezzo. La vittima dunque sono io. La condannata alla solitudine, sono io; egli mi deride forse. Si delizia nella braccia d'un'altra. Impossibile. Bisogna ch'egli m'ami: bisogna che quella donna sparisca dal mondo.
- Ne prenderà un'altra; ne ha di già forse un'altra.
- Taci; vuoi dunque rendermi pazza? Che vuol egli? Vuol essere prefetto della Siria, delle Gallie, della Spagna, imperatore forse, che so io? Ebbene Rabbì, all'opera. Poni fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme; incendia la Giudea; sii re degli Ebrei.... e dammi di che comperargli Cesare, che vende perfino se stesso. Va, predica, tuona, fulmina; l'ora è propizia. Pilato è assente. Io ti do tutto in mano, comando, palazzi, torri, fortezze, legioni; consegnami tua sorella. Tu esiti?
- Ti compiango.
- Rifiuti? allora saprò ben trovarla da me. Cneus Priscus è riescito in cose più difficili di codesto. Indicami almeno un filtro per addormentare il mio cuore. Che Messia sei tu dunque? Canidia, la saga del monte Esquilino, m'avrebbe di già soddisfatta. Vuoi dell'oro?
- Claudia, la pace non è nel delitto, ma nella verità. Hai mai chiesto a tuo marito se egli ti amasse?
- Quel miserabile sarebbe capace di dirmi che mi adora. Non mi ha egli sposata, togliendomi dal bagno di Tiberio? Arrossirei di rivolgergli una domanda simile.
- Gli hai mai detto che lo amavi?
- Vorrei piuttosto mozzarmi la lingua coi denti.
- Come vuoi tu dunque conoscere il vero, se fai a te d'intorno le tenebre?
- Rabbì, va, tu sei un povero allocco! Io ti chiedo un filtro, e tu mi porgi dei consigli; ti domando una malìa, e tu mi dai delle parole; ti dico, solleva il tuo paese! e mi rispondi che attendi la tua ora; domando di veder tua sorella, e mi consigli di assicurarmi se Pilato mi ami.... Donde vieni tu dunque, vaneggiatore? Non basta di aver scoperto, Dio sa come, uno dei miei secreti. Non basta proclamarti figlio di Dio: bisogna provarlo.
- Claudia, Dio non fa i miracoli per soddisfare la curiosità degli oziosi, come il tuo cuoco fa delle leccornie per solleticare il tuo palato, ma per manifestare i suoi eletti, ed indicare ai popoli la giustizia e la verità. Tu mi vorresti complice d'un'atrocità; io vorrei innalzarti alla luce della carità. Tu mi hai chiamato, io sono venuto: ma per consolarti per illuminarti, per ricordarti il tuo dovere di donna che solo può ricondurti il marito, e sottrarti all'infamia. Tu sei sorda, e domandi dei miracoli, e mi spingi alla ribellione. Io non opero pegli uni o pegli altri, Claudia; io mi voto e sacrifico per tutti. Nè il tuo aiuto, nè la tua opposizione, non possono influire sopra i passi del figlio dell'uomo: io sono l'eletto, io sono la volontà di mio Padre. Tu ardi dal desiderio di vedere Gerusalemme nel sangue. Ahimè! la vedrai.
- Rabbì, tu farnetichi. Un'ultima parola ancora, perchè, fin qui, abbiamo divagato. Ecco la situazione. Amo mio marito. Sono gelosa e dubito. Io cospiro contro il mio proprio paese per saziare l'ambizione di Pilato. Ti ho chiamato per conoscerti, dopo che hai accettato di divenire il capo dell'insurrezione della Giudea; per vedere colui che si addimanda figlio di Dio, e fa dei miracoli; per conoscere da te, se i miei dubbii e la mia gelosia sono fondati; per avere da te, uomo dei prodigi, un qualche cosa, onde farmi amare, o cessare di amare. Tu non m'hai soddisfatta in nulla.
- Me ne dispiace.
- Ciò m'importa poco. Sono stata maturata dalla disgrazia, in mezzo alle feste ed ai piaceri, alla corte dell'imperatore del mondo. Non mi pasco di frasi, che il mio lorarium110 farebbe rientrare a colpi di verghe nella gola del mio filosofo, se per caso ei se ne permettesse di simili. Voglio delle risposte categoriche a domande precise. Pilato m'ama egli?
- Non gli ho mai parlato. Nol so.
- Perchè dunque m'hai svelato che tua sorella era la sua amante?
- Perchè, a quest'ora tutta Gerusalemme forse lo sa; perchè iersera, dinanzi un gran numero di persone, ho denunziato ciò; e perchè io non mentisco giammai.
- E perchè in questo caso, rifiuti tu la tua opera per soddisfare il mio amore?
- Perchè io insegno la parola di Dio, e non sono nè un'infame profumiera, nè una saga, nè un giuocoliere.
- Perchè mi nascondi tua sorella, poichè tutti la conoscono?
- Perchè uccideresti una vittima e non una colpevole, e perchè mio Padre mi ha ordinato di stigmatizzare il peccato e perdonare al peccatore.
- Sta bene. Ed ora, accetti tu la parte di messia che ti fu offerta?
- Io non accetto una parte come un istrione; io compio la volontà di mio Padre. Se gli altri cooperano meco, tanto meglio; io non sono strumento di alcun partito. Io sono ciò che voglio, ed ignoro ciò che altri vogliano.
- Basta così, replicò Claudia dopo alcuni istanti di silenzio. Io saprò ciò che ora tu mi taci. Tu poi saprai ciò che si vuole da te, e tu dirai ciò che io voglio. Ma rifletti bene a questo: in cima di tutto ciò havvi un abisso.
- L'ho compreso fin dal primo momento.
- Tu sai dunque che ti sei cacciato in una trama le cui braccia t'hanno serrato, le cui ruote t'hanno afferrato. Bisogna ora andar avanti, o essere stritolato. Tu sai troppe cose. Hai promesso. Hai principiato. Una parte della strada ti fu appianata; non t'appartieni più: sei nostro, o devi perire. Lascia lì codesto Padre la di cui missione affermi di compire, e la cui voce dici di ascoltare. La voce che tu devi ascoltare è la nostra: è la mia. Tu sei un porta-voce e non una voce. Hai principiato a spacciarti per messia, e per figlio di Dio, per tuo proprio conto; devi finire pel conto nostro. Se dei miracoli sono necessarii, te ne appresteremo dei belli e pronti, e tu li farai. Se si crede conveniente di dichiararti figlio di Davide o di Giove, troverai la tua genealogia tutta in ordine. Hannah ti farà discendere dal cielo sopra un carro di fulmini, se gli pare opportuno. Non inquietarti di nulla. Se hai del Messia, del tuo, usane; se no, te ne daremo del nostro. Ma sta in guardia contro le velleità intempestive. Resistere, gli è perire. Addio.
- Claudia, mio Padre ti perdonerà poichè tu non sai ciò che tu dici, nè ciò che insulti. Ma tu hai parlato di tutto, tranne del tuo secreto.
- Quale?
- Eccolo; tu tradisci i traditori.
- Cosa intendi tu di dire?
- Tu spingi alla rivolta, per ischiacciarla. Hai tutto preparato a questo scopo; e quando la sarà domata dirai a Cesare: Pilato ti ha salvato una grande provincia dell'impero, merita una ricompensa; dagli il governo della Siria. Sejano ti ha dato questo consiglio in prezzo di ciò ch'io non voglio dire, la vigilia della tua partenza da Roma.
- Tu sai tutto ciò? gridò Claudia impallidendo.
- Di più ancora, continuò il Rabbì. Tu desideri i tesori del Tempio e della tomba di Davide, di cui la sommossa t'offre l'occasione d'impadronirti, onde comperare l'assenso di Tiberio se egli resiste; corrompere le legioni, se lo puoi, e in qualità di nipote d'Augusto, rovesciare l'infame di Capri.
- Rabbì, disse freddamente Claudia dopo aver riflettuto, tu ne sai troppo, troppo. Ne sono però contenta; poichè tu devi comprendere, che chi ha penetrati misteri simili, deve per forza o per elezione, esser complice e partecipare ai benefici, o morire. Or ora ti credevo un ciarlatano; adesso ti credo un mago. M'hai tenuta un momento in tuo potere, poco fa, quando m'hai annientata sotto il tuo sguardo. Ho sentito che mi strappavi qualcosa dall'anima111. Sia pure. Se hai osato tanto, gli è che pensavi di servirmi, e che io t'avrei aiutato. Il patto è suggellato: silenzio, e va avanti. Mi dirai dopo il prezzo che esigi: è già accordato. Hai compreso?
- Il mio premio è nel cielo; la terra non ha per me che una croce. Addio.
Così dicendo, Gesù escì.
Prese la via di Bethania.
Una folla di pensieri d'ogni natura lo opprimeva. Si sarebbe potuto crederlo imprudente nella sua conversazione con Claudia. E non pertanto, tutte le parole avevano una ragione ed un intento.
Il Rabbì aveva rimarcato che l'ufficiale di Claudia aveva impedito agli ufficiali del Tempio di arrestarlo. Sapeva che con i preti, i farisei, il sanhedrin, era impossibile ogni riconciliazione, e che per lui non c'era più grazia. Gli restava una sola probabilità di salute e di resistenza: farsi scudo della moglie del procuratore. Lo tentò. Colpì lo spirito di Claudia, strappandole prima, svelandole poi, il suo secreto. Ma egli non domò punto quel carattere temprato negli intrighi della corte di Tiberio. Il Rabbì si trovò più che mai preso nella cospirazione, e più che mai minacciato. Questo sopraccarico di peso lo minacciava. Egli aveva chiuse tutte le porte dietro di sè, e dinanzi a sè: l'abisso lo assorbiva.
Il giorno era molto avanzato quando giunse a Bethania. Egli camminava col dosso curvo, la testa bassa, lo spirito distratto, quando sulla soglia della casa di Lazzaro, sentì le sue ginocchia avvolte fra due braccia, e vide ai suoi piedi una donna che gridava:
- Pietà, fratello! pietà.
Riconobbe Ida.
Questa vista finì di abbatterlo, poichè sapeva il terribile pericolo che minacciava quella giovine disgraziata.
- Cosa vuoi da me? sclamò il Rabbì. Fuggi, sparisci dalla terra, infelice, se la terra ha ancora un angolo da ricoverarti.
Ida s'ingannò sul senso delle parole di suo fratello, che pensava alle minaccie di Claudia.
- Fratello, rispose, io non vengo a chiederti una misericordia che non puoi avere per me. Io vengo a dirti alla mia volta: fuggi, fratello, lascia questa città maledetta ove si cospira la tua morte.
- Lo so e ci resto, replicò il Rabbì. Che vuoi, allora?
- Ciò che io voglio? ma io son dunque meno di una straniera per te? Tu che hai avuto una parola di grazia per la donna adultera, una parola di tenerezza per la donna di Samaria, una parola di perdono per la peccatrice di Magdala, una parola di pietà per la fanciulla pagana di Tiro, non hai dunque nulla per la figlia di tua madre, che peccò perchè amava? Fratello, se sono nell'abisso, a chi il compito di farmene uscire? Fratello, nel mio ritiro, ho seguito tutti i tuoi passi, mi son fatta ripetere tutte le tue parole; io credo in te: salvami. Tutti m'hanno abbandonata.
- Che posso io fare per te, figlia del dolore? L'avvoltoio ha il suo nido, la volpe la sua tana, il sciacallo il suo buco, la tigre la sua caverna; il figlio dell'uomo non ha un sito ove riposare il suo capo. Posso io domandare l'ospitalità nella casa dell'onore, per la figlia della colpa?
- Devo dunque perdermi, od uccidermi?
- Non c'è in tutto il mondo per te, che un solo rifugio: le braccia di tua madre. Ch'ella ti perdoni, ed io t'assolvo. Ma il pericolo è imminente.
- Che venga dunque, che ricada su me; ma tu, salvati, o fratello.
Il Rabbì rialzò sua sorella, sempre alle sue ginocchia, e baciandola in fronte, le disse con voce molto commossa:
- Va, povera fanciulla, va e non peccar più.... Dio conterà le tue lagrime, se piangi; e ti sarà molto perdonato perchè hai molto amato.
Ida gettò le braccia al collo del Rabbì, e gli coprì il viso di lagrime e di baci. Una grossa lagrima navigò negli occhi di quell'uomo severo, cui la disgrazia provava, e, come una perla d'una corona, la lasciò cadere su quella bella giovine testa condannata.
- Nasconditi, figliuola, soggiunse il Rabbì; domani ti cercherò un ricovero, e che Iddio ti dia pace. Fra due settimane tua madre arriva pel paschah.
Ida abbracciò di nuovo suo fratello, e ritornò a Berachac ove io l'attendeva fin dal mattino.
XXVI
Non tenterò di descrivere lo stato del mio animo. Se non divenni pazzo, gli è forse perchè il destino sapeva che la mia ragione doveva ancora essere utile a qualcuno. Dopo che il Rabbì ebbe colpito sua sorella dello stigmata indelebile di ganza di Pilato, Gamalial mi trascinò via da Berachah, ed io seguii gli altri come trasportato da un uragano. Mi ritrovai nella mia dimora, nel mio letto, senza avere coscienza di nulla, e, cosa strana, m'addormentai d'un sonno stupido e pesante, come se fossi stato affranto dalla fatica. Ma all'indomani, i primi raggi dell'alba versarono nella mia stanza tutti gli spasimi che possono straziare un cuore agitato da cento diverse passioni. La vergogna, il rimorso, l'amore, il desiderio, il pentimento, il dispiacere, l'orgoglio, un inferno, il caos, mi mordevano da qualunque parte mi volgessi. Presi, e rigettai venti risoluzioni una dopo l'altra; volevo uccider Ida, uccider me, sfidare la società, sposarla, assassinare Pilato, violare Claudia per vendicarmi del marito, gettarmi ai piedi d'Ida, supplicarla di perdonarmi, di accettar la mia mano. Le perdonavo tutto, e tutto dimenticavo.
Avvolto in questo turbine d'idee, senza volerlo, senza saperlo, mi ritrovai a Berachah. Il mio turbamento aumentò quando Febea mi disse che Ida era uscita con Noah, e che suo marito mi aveva riportato tutti i regali che io le aveva dati. Eravamo passati forse gomito a gomito sulla via, senza che me ne fossi accorto. Mi lasciai cadere sull'orlo della vasca della fontana, nel cortile, ed attesi. Attesi fino alla notte, e tutto questo giorno scorse come un'ora. Febea mi offrì da bere, da mangiare; io non le chiedeva altro che: Ida è ritornata? Ma passò l'ora ottava, passò la nona. Febea stessa cominciò ad essere inquieta. Alla decima, ascese sulla torre. Nessuno sulla strada, nè da vicino, nè da lontano. All'undecima, vi salì ancora. Mi trascinò seco dubitando della serenità della sua vista. Nessuno. Ella ora mi domandava cosa poteva esser avvenuto della sua padrona, di suo marito, di Noah, in questa lunga lunga giornata, dopo la tempesta del dì innanzi. Io era come istupidito. Non so neppure se non sorrisi. Finalmente all'ora dodicesima, quando il sole era già tramontato, Febea mi gridò dall'alto della torre, che arrivavano. Ella li scorgeva appena, lontano, lontano, ma il suo cuore li indovinava. Il mio li sentiva avvicinarsi; perocchè galoppava a soprassalti, come un cavallo vizioso. La notte era scesa, quando Ida entrò nella corte. Noah la seguiva, Febea la precedeva con una lanterna, Thorix chiudeva la porta.
Ida mi passò vicino. La luce della lanterna mi rischiarava pienamente. Mi guardò, impallidì anzi, e tremò, ma non volle vedermi. Restai inchiodato al mio posto. Non un suono si potè articolare nella mia gola. La seguii degli occhi, la vidi sparire nella casa, e restai nelle tenebre. Credetti di sognare. Io mi chiedeva se era una visione che traversava il mio spirito. Potei restare così durante un quarto d'ora. Finalmente, sentii una mano di donna che mi guidava sotto il portico. Era Noah. Nel vestibolo c'era una luce, e vidi nel fondo Ida traversare per passare nella sua stanza da letto.
- Giuda, mi disse Noah, devi comprendere che ti è impossibile riveder Ida. Ognuno dei tuoi passi è ormai per lei un oltraggio. Nulla tu puoi dire ch'ella possa udire; e niente ella può dirti che non sia umiliante per lei.
- È vero ciò che tu dici, osservai io. Ed è singolare che io non l'abbia pensato.
- Ritirati dunque, Giuda, e cessa di pensare ad Ida.
- Eppure, le dissi, io veniva ad annunziarle che ad onta di tutto, io la prendo per isposa.
- Giuda! sclamò Noah, possa tu dir il vero! Ma se ciò è veramente reale, attendi, per apprenderlo ad Ida, di esser ben rimesso dell'uragano d'ieri sera.... Che festa ieri sera! una fidanzata, degli invitati, dei regali degni d'una regina! Ed ora qual silenzio, qual tristezza, che tenebre! Non fa nulla, Giuda, ascoltami: vi sono due vie sicure per arrivare al cuore di Ida. Metto da parte la prima, quella di Pilato.....
- Oh! mi vendicherò di lui!
- Io t'indico la seconda: quella di suo fratello. Che il Rabbì dica a sua sorella: Accetta Giuda, ed ella.... ne sono sicura, Giuda, ella anche ti amerà. Ma Ida corre un pericolo.
- Quale, gridai io?
- Nol so; ma è il Rabbì stesso che glielo ha detto; egli le cerca un ricovero.
- Fino a che io vivrò, Ida non correrà alcun pericolo.
- Dio lo voglia. Infine, Giuda, mi permetti di rivolgermi a te in caso di pericolo? Noi siamo sole. Moab ci ha abbandonate.
- No: quella nobile creatura tentò di uccider Pilato, non so perchè, quantunque mel pensi, e avanti di partire per Sichem, Pilato lo ha condannato a morire.
- Oh! nascondiamo ad Ida questo disastro. Ella è di già troppo abbattuta. Io conto dunque su di te.
- Più ancora che sopra suo fratello; ma io veglierò dalla mia parte.
Io ignorava ciò che era accaduto fra il Rabbì e Claudia. La notte era avanzata. Le porte della città erano state chiuse. Mi diressi verso Bethania per interrogare Gesù, e passare la notte in quel villaggio, fuori di Gerusalemme. Arrivai alla casa di Lazzaro, nel momento istesso che Gionata, il figlio di Hannah, la lasciava. Egli aveva portato al Rabbì un messaggio di suo padre. Lo trovai molto agitato. Il cerchio che lo attorniava si faceva sempre più112 stretto. Egli mi raccontò ciò che era successo al Tempio in quella mattina, poi la scena avvenuta fra lui e Claudia, meno alcuni particolari che mi doveva dire più tardi, e che io ho già raccontati.
Dopo la partenza del Rabbì, Claudia aveva fatto chiamare Hannah, e gli aveva113 ingiunto di affrettare gli avvenimenti. Hannah le aveva fatto conoscere ciò che il Rabbì aveva detto e fatto nel Tempio, e la decisione presa dal sanhedrin. Gli affigliati alla cospirazione non s'erano opposti all'ordine d'arresto; perchè desideravano, anzi, di avere il Rabbì sotto il loro assoluto potere per renderlo più dolce, piegarlo alle loro volontà, deciderlo ad accettare le loro dottrine, ed agire secondo i loro desiderii. Claudia aveva consigliato allora, di avere con lui un colloquio decisivo, di metter bene la questione, dirgli chiaro ciò che si voleva da lui, ciò che gli si chiedeva, ed obbligarlo ad una professione di fede netta e finale. Hannah inviò suo figlio a portare questo invito al Rabbì.
Io conosceva quegli uomini. Sapevo che ciò non poteva condurre che ad una rottura aperta, nella quale il Rabbì sarebbe stato spezzato senza misericordia, e caricato di tutti i torti. Fino a lì, io aveva agito per la cospirazione, non curandomi veramente se un rabbì o due vi sarebbero stati schiacciati. Ora che la sorte del mio amore s'appoggiava sulla testa di Gesù, egli mi diveniva prezioso sotto tutti i punti di vista. Gesù aveva accettato l'invito di Hannah, ma aggiornandolo di una o due settimane.
Egli voleva attendere che i suoi compatriotti della Galilea fossero venuti a Gerusalemme per la festa del paschah, quantunque avesse poco a sperare dalla loro protezione. Ma i provinciali, in una capitale ove sono come forestieri, s'intendono meglio fra loro, che nelle città native. Poi queglino delle altre provincie arriverebbero nel medesimo tempo, ed in quei giorni di festa, i partiti in Gerusalemme si sentivano meno padroni del solito. Non si sarebbero forse permessa una brutalità contro il Rabbì, se ne avevano pure l'intenzione.... Io divisi l'opinione del Rabbì, e per esser più sicuro, lo consigliai a lasciar Gerusalemme la notte istessa, ed a ritirarsi presso uno dei miei amici ad Efraim, grosso villaggio dalla parte del deserto della Giudea, poche ore (otto o nove miglia) al nord di Gerusalemme, presso Salem, alla sorgente ove egli si era separato dal Battista. Gli promisi di cercare di saper tutto, di scandagliare gli animi, apprendere od indovinare i progetti, e di andare a trovarlo.
Il Rabbì accettò il mio consiglio. Cenammo molto bene, grazie alle buone sorelle di Lazzaro, ed a Lazzaro stesso, quantunque infermiccio, avendo avuto il giorno prima un accesso dell'implacabile sua malattia: il mal caduco. Due ore innanzi giorno, il Rabbì lasciò Bethania, ed io l'accompagnai fino al momento in cui l'alba principiò ad imbianchire il cielo. Allora lo lasciai e ritornai a Gerusalemme. Ero appena coricato, quando uno schiavo di Claudia venne a dirmi che la sua padrona mi chiamava, all'istante stesso, al palazzo d'Erode.
Sospettai della causa di questa chiamata così pressante e così mattutina. Non mi affrettai dunque troppo. In guisa che, quando arrivai, alla ora quarta, la trovai già vestita, e vidi nella corte una lettiga per lei, portata da otto giganti della Cappadocia, ed un cavallo tenuto in pronto per me.
- Giuda, mi disse ella, vado a trovare la tua fidanzata; tu m'accompagnerai, o meglio, mi precederai per annunziarle la mia visita.
Queste parole, dette col sorriso sulle labbra, l'aria tranquilla e graziosa mi gettarono in una costernazione spaventevole. Il Rabbì mi aveva prevenuto. Che fare? Claudia certamente mi vide impallidire. Ricomposi però il mio viso ad un sorriso riconoscente ed intravedendo, con un colpo d'occhio, il pericolo delle varie risoluzioni che potevo prendere, mi decisi ad accompagnarla, o meglio a condurla a Berachah. Ero deciso, nella peggiore ipotesi, ad ucciderla, se avesse tentato qualsiasi violenza contro di Ida. Poi, a dir il vero, ero contento nel fondo, che Claudia conoscesse l'infamia di suo marito, e ch'egli la tradiva.
Pilato aveva raggiunto Pomponius Flaccus a Sichem; poichè il governatore della Siria, avendo appreso dal suo procuratore della Giudea che gli Ebrei si preparavano ad un movimento, aveva preso delle misure per schiacciarli immediatamente. Dopo aver inviato a Pilato alcuni rinforzi ne conduceva seco ancora. Ei voleva consultare il procuratore su l'essenza e l'estensione della cospirazione. Pilato aveva quindi lasciato Gerusalemme due giorni prima, avvegnachè ferito. E fu fortuna per lui, perchè se si fosse trovato a Gerusalemme, Claudia l'avrebbe ucciso nel primo impeto. Non avendo sotto la sua mano questa vittima, Claudia pensava disfarsi dell'altra cui Cneus Priscus aveva scoperta, e col raffinamento o meglio col delirio della vendetta, desiderava avermi seco. Partimmo.
Una mezza coorte di cavalieri ci seguiva.
Un'ora dopo, eravamo a Berachah.
La nostra presenza destò nella casa un profondo spavento. Ciò si comprende. Cosa veniva a fare la moglie di Pilato dalla amante di Pilato? Il nome di Claudia, in oltre, era circondato da quelle voci misteriose e terribili che pesavano sopra l'infame ritiro di Capri.
Claudia andò dritto al tablinum, come se fosse entrata nella sua casa. Potevo appena seguirla, tanto ella camminava presto. Non una parola era stata scambiata fra noi durante la strada. Il suo sguardo stillava l'odio.
Quando Noah andò a prevenir di questa visita la sua padrona, Ida tremò da capo a piedi. Forse, se fosse stata nella casa propria, ella avrebbe dimostrato un po' più di sicurezza. Ma nella casa di Pilato, ella si sentiva sotto il peso d'un'accusa che la schiacciava. Laonde, ella si fermò alla porta del fondo del tablinum, e le mancò la forza di avanzare. Ida restava lì, immobile, senza respirare, il cuore che le trasaliva, il viso bianco come l'alabastro, allorchè Claudia, entrando dalla porta dell'atrium la vide. Quelle due donne scambiarono uno sguardo, pronto come il lampo, prodigioso, luminoso, possente come lui. Ida portò le sue mani sugli occhi, poi le unì sul suo petto, sclamando involontariamente, vinta, trascinata da un impulso irresistibile:
- Dio mio! com'è bella!
Claudia udì questo grido e rallentò il passo. Si avvicinò tuttavia, e considerò Ida dappresso.
Il contrasto fra le due donne era assoluto. Claudia trascinava i sensi come un uragano, e passava: Ida penetrava nell'anima come un raggio di luce, e vi si cristallizzava. L'una era la bellezza che vi strappa i baci dal fondo della vita; l'altra era la bellezza che v'inizia in una vita nuova piena di inebbriamenti ignoti: l'amore dal cervello. Quando Claudia ebbe esaminato Ida con quella terribile curiosità, in cima alla quale sta una questione di vita o di morte, ella le chiese con voce lenta e sorda:
- Confessa ciò che hai fatto per farti amare da Pilato.
Non so che risposta attendeva questa Romana, che era stata mischiata a tutte le opere tenebrose delle saghe, delle maghe, dei bertoni, delle cortigiane, che mettevano l'amore nella potenza infernale dei filtri e dei veleni. Ida che non conosceva punto di quelle infamie, rispose ingenuamente:
- Ho amato; ma non sono stata amata.
- Come! non sei stata amata? sclamò Claudia.
- Ahimè! no. Io non sono stata per lui che il cuore ove veniva a riposarsi dei suoi cordogli, e non il cuore a cui veniva a cercare la consolazione e la gioia.
Claudia lasciò sfuggirsi dal petto un sospiro che risuonò in tutta la sala. La tigre era disarmata e rientrava gli artigli.
- Non menti, fanciulla?
- Oh! vorrei ben mentire! replicò Ida. Se mentissi, tu non saresti là, ed io non morirei di dolore.
Claudia sedette, e attirando Ida presso di sè, continuò:
- Dimmi chi sei. Raccontami come l'hai conosciuto, e ciò che è avvenuto fra voi. Dimmi perchè ti ha lasciata: dimmi tutto, tutto, i più minuti ragguagli, le più semplici parole, tutto ciò che ti concerne, tutto ciò che lo riguarda.
- Ho poche cose a dirti, rispose Ida. Nol so, ma quando si ama, la vita è così variata, così tempestosa e così semplice nel tempo stesso...
- Donde vieni?
- Sono nata in un villaggio della mia bella Galilea, a cui penso sempre. Vi sei stata? Dei fiori da per tutto, la vigna dai grappoli violetti, l'arancio dai frutti d'oro, il fico, il melagrano, la palma, l'ulivo, e all'intorno le montagne azzurre, il cielo risplendente, la terra che sorride. Dio mio! che mi sia permesso di rivedere quell'angolo della terra della mia infanzia e di morirvi.
- Morirvi?
- Oh sì! morirvi. Io mi chiamo Mirjam; Ida è il mio nome di dolore. I parenti di mia madre, poveri discendenti della razza di Davide, avevano emigrato, come tanti altri, al tempo della carestia, dalla misera Betlemme alla ricca Galilea, ove i Greci ed i Romani fanno vivere il popolo, dandogli da lavorare. Mia madre aveva una sorella maritata, colla quale doveva dividere la meschina eredità che lasciava suo padre. Non aveva che sedici anni quando si unì, secondo le nostre leggi, a suo zio più vecchio, più povero di lei, e che non amava. Nostro padre ci nudriva del suo lavoro di carpentiere. La nascita di mio fratello maggiore, conosciuto ora col nome di Rabbì della Galilea, diede causa a delle querimonie di gelosia, e a dei sospetti ingiuriosi fra mio padre e mia madre114; e fu perciò che i miei altri fratelli non amarono mai Gesù, il quale invece amò più mio padre che mia madre.
- Comprendo, disse Claudia.
- Io, continuò Ida, venni per l'ultima, più amata di tutti, la sola che Gesù amasse. Mio padre, costretto dal suo lavoro, si assentava sovente dal villaggio, e correva i borghi e le cascine dei contorni, ed anche più lungi, a Seforis, sul lago di Genesareth. Ma egli lavorava molto e guadagnava poco. E la famiglia era numerosa, perchè mia madre, molto bella, gli aveva dato parecchi figliuoli. Egli sperava di esser aiutato dal suo primogenito, cui inviò a Seforis onde imparare il mestiere, di cui egli non faceva che la parte più grossolana. Fu ingannato nella sua aspettativa. Gesù non amò l'arte sua. Restava delle ore intiere sotto gli alberi, dinanzi il suo banco alla porta della casa nel nostro giardinetto, le braccia incrociate, gli occhi rivolti al cielo; e quando il padre rientrava la sera non trovava nè tavole piallate, nè casse o panche costrutte. Allora accadevano delle scene fra i miei fratelli che lavoravano molto, e mio padre che non sapeva rimproverare Gesù, e mia madre che voleva framettersi. La conclusione di quelle risse era che all'indomani Gesù spariva dalla casa, e restava assente delle settimane, dei mesi, un anno intiero. L'ultima volta, otto anni fa, non si vide per tre anni.
- Ma dove andava egli? domandai io.
- Chi lo sa? Dappertutto, poichè ho inteso dire da mia madre che era stato in Babilonia, a Roma, in Grecia, nelle Indie, a Menfi, in ogni sito. Ma quando ritornava non portava che alcuni rotoli di carta, i quali sparivano essi pure dalla casa all'indomani. Questi viaggi, la frequentazione continua dei partigiani di Giuda di Gamala, il messia galileo, lo allontanarono sempre più dal suo mestiere di carpentiere, aumentarono la discordia nella famiglia, quando egli era a Nazareth. Però Gesù, sia solo, sia con mio padre, correva coi suoi utensili per le valli di Zebulon, Issachar e Neftali, per cercarvi lavoro; mentre io conduceva sulla collina a pascere le capre e le pecore, e che mia madre, alzandosi col sole, andava a comperare i legumi ed i frutti al mercato, preparava i nostri alimenti - una zuppa di lenti, o un pezzo di carne - filava, o tesseva per vestirci, cantava il suo salmo all'ora nona, veniva alla fontana colle altre donne del villaggio, coll'urna sulla spalla, e ritornava per ispazzare la piccola corte, stender per terra i nostri materassi, e attenderci per cenare.
- E perchè hai tu abbandonato questa vita così semplice e così dolce di cui tua madre ti dava l'esempio? domandò Claudia.
- Tel dirò. Cinque anni fa, mio padre morì. Io aveva allora tredici anni. Gesù era assente da alcuni mesi. I miei fratelli mi detestavano e mi battevano, appunto perchè Gesù mi amava. Mia madre non riusciva a proteggermi; mia sorella mi maltrattava ancor più dei fratelli, chiamandomi scioperata, infingarda. Eppure io non poteva filare e cucire in casa, e custodire fuori la greggia, nel medesimo tempo. Trovavano che mangiavo più pane che non ne guadagnassi. Finalmente, Gesù riapparve una sera nella casa paterna, più cupo, più silenzioso, più strano che mai. La morte di mio padre lo alzava al grado di capo della famiglia. Egli non si curò di questo diritto. Restò alcuni mesi a Nazareth. Ma venne il paschah e mia madre manifestò il desiderio di andare a Gerusalemme, tanto più che sua sorella che era maritata in quella città con un legionario, l'aspettava. I miei fratelli e la sorella l'accompagnarono. Restai sola a casa con Gesù. Egli mi aveva insegnato a leggere ed a comprendere il greco, che tutti parlavano intorno a noi. Mi accompagnava sovente alla montagna, dietro le nostre capre e le nostre pecore. Ai campi, e' non era più lo stesso uomo. Comprendeva il linguaggio dei fiori, comprendeva ciò che si dicevano gli uccelli, ciò che il cielo e le stelle cantavano. Mi attirava allora sulle sue ginocchia, passava le sue mani nei miei capelli, sentivo circolare nelle mie vene una fiamma, e poi mi addormentavo sul suo seno.
- Ah! sclamò Claudia che forse si risovveniva.
- Quando mi risvegliavo, continuò Ida, trovavo il suo sguardo vellutato e materno che avviluppava il mio viso come di uno strato di nuvole; ma io mi trovava così affaticata come se avessi fatto lunga strada e se avessi lavorato a lungo. Una affezione profonda mi attaccava a mio fratello. Non avevo altra volontà che la sua. Egli mi leggeva nell'animo. Io comprendeva i suoi pensieri. Apprendevo tutto ciò ch'egli voleva. Mi pareva identificarmi sempre più in lui. Avevo quattordici anni. L'anima mia era pura come le nostre notti di primavera. Però io principiava a risentire dei brividi incogniti. Mi sentivo attirata da Gesù come lo è la foglia secca dalla fiamma. Gli raccontai la strana sensazione che mi turbava: lo confessai anche a mia madre. All'indomani Gesù non era più a Nazareth.
- Tu amavi dunque tuo fratello? sclamò Claudia.
- Sì, e no. Ho amato di poi. Il sentimento che il Rabbì m'ispirava era diverso: era più che l'amore che si risente per la propria madre, e meno violento di quello con cui c'incendia un amante. Questi vi mette il fuoco nelle vene: allora io vi sentiva scorrere i raggi dell'aurora. Ma ciò finì bentosto. Mia zia mi chiamò a Gerusalemme, e mia madre fu ben contenta di allontanarmi. Mi congiunsi alla carovana che andava a Gerusalemme pel paschah. Quel movimento tutto nuovo per me mi colmò di gioia. Le vecchie ed i vecchi sopra gli asini ed i cammelli; i giovani camminando loro vicino; i ragazzini correndo di gruppo in gruppo, giuocando coi cani, cogliendo le bacche e le corolle selvatiche, querelandosi, prendendo qua un buffetto, e là una ciambella. Per non passare per l'impura Samaria, paese di pagani, prendemmo la via del basso Giordano all'est, a traverso il Gilead e l'Ammo, fermandoci presso un pozzo al tramonto del sole, accendendo un fuoco di rami per cuocere una cenetta di legumi bolliti, frumento arrostito e fritto in un po' d'olio, e qualche fette di poponi e di cocomeri. Ripassammo il Giordano a Bathabara ove il Battista battezzava, sotto Gerico, camminammo dal piano alla città sotto i verdi datteri, e di là arrampicandoci da una collina ad un'altra, alla vetta superiore dopo l'inferiore, traversando passaggi rocciosi del deserto, e le nude montagne, arrivammo a Sion, avendo nelle mani i rami di mirto e di ulivo, e alla bocca il canto del schemah.
- Felici ricordi, sclamai io.
- Presso Bethania, continuò Ida, la compagnia si divise. Quelli che avevano degli amici a Gerusalemme, discesero il monte degli Ulivi e passarono il Cedron, gli altri si ricoverarono nei casolari dei dintorni, sotto le tende nelle capanne di foglie chiamate succoth, come Giacobbe nel paese di Canaan, coprendo così l'Oliveto, il Mizpeh, il Gibeon, il Rephaim, mescolati, tutti in una, asini, capre, cammelli, pecore, uomini, donne e fanciulli, correndo dalla mattina alla sera alle fontane di Siloam e di En-rogel. I Galilei, come al solito, si fermarono al monte degli Olivi. È là che un messo di mia zia venne a cercarmi. Ella era ammalata.
- Che età avevi allora? le chiese Claudia.
- Te l'ho già detto, quattordici anni. Non ti parlo della vita passata con mia zia, donna stizzosa, inquieta, piena di bile, sempre malcontenta. Dopo diciotto mesi, ella morì, e sei mesi dopo avvenne la mia catastrofe.
- In che maniera? sclamò Claudia. Non nascondermi nulla.
- Perchè lo nasconderei? Andavo ogni giorno ad attingere l'acqua alla fontana del Dragone, l'urna sulle spalle come le altre figliuole. Sembra che Ponzio m'avesse incontrata tre o quattro volte, ed infatti mi ricordo che un Romano a cavallo mi aveva seguita talvolta dalla fontana alla casa di mia zia. Ma ci sono tanti Romani che vanno e che vengono a Gerusalemme, che me n'ero appena accorta. Una notte io dormiva d'un sonno profondo, sognando delle montagne di Nazareth, quando mi sentii ravvolgere in una coperta, al punto quasi di soffocarmi. Fui rapita così, e posta in una lettiga che partì al passo di corsa. Mi dibattei, gridai. Mi sentiva morire: l'aria mi mancava. Finalmente udii aprire e poi chiudere una porta della città. Allora la coperta che mi avviluppava fu aperta e mi trovai nelle braccia di Noah. Un'ora dopo, ci depositavano qui, a Berachah.
- Pilato ti attendeva? domandò Claudia.
- Oh! no. Non venne per la prima volta che quattro o cinque giorni dopo. Io non comprendeva nulla di quanto m'era accaduto. Credevo sognare, vedendomi circondata di tanto lusso, e di tanta ricchezza. Noah si asteneva affatto dal darmi alcuna spiegazione. Cosa si vuole da me? io domandava, chi è l'incantatore che mi culla in questi splendori? Una sera il mago si fece vedere.
Claudia trasalì, e divenne scialba. Ida continuò senza accorgersene; imperciocchè, assorta nella sua vita passata, ella raccontava o meglio dipingeva, dimenticando quasi che noi fossimo lì ad ascoltarla.
- Questa stanza era stata illuminata vivamente. Noah mi aveva quasi a forza indossato dei vestiti ricchissimi che io sdegnava, come immodesti. Mi aveva acconciati i capelli con dei fiori. Io non riconosceva più me stessa e vergognavo. Ero dunque qui, ammirando i bei fiori posti in questi vasi, allorchè la porta s'aprì, e vidi entrare uno sconosciuto, che mi disse chiamarsi Cajus.
- Era Ponzio?
- Sì. Era molto triste. Credo che non mi guardò neppure. Mi chiese se trovassi questa dimora convenevole abbastanza per me, se avevo a lagnarmi di qualche cosa o di qualcuno. Gli raccontai il mio rapimento e gli chiesi d'esser ricondotta ai miei parenti. Perocchè, lo ripeto ancora, io non comprendeva per qual ragione ero stata gettata in mezzo a quelle ricchezze. Non mi rispose, e mi lasciò. Ritornò due o tre giorni dopo.
- Anche la sera?
- Sì, anzi io non l'ho mai veduto che di sera. Arrivava la notte, e partiva avanti il giorno. Qualche volta solamente è partito verso l'ora sesta. Questa volta pure ei sembrava molto oppresso. Si sarebbe detto che si rimproverasse ciò che aveva fatto, e che avesse rimorso di ciò che aveva intenzione di fare. Il nostro colloquio non fu lungo. Noah era lì. Io mi chiedeva: Chi è egli! che cosa vuole? In breve, questo sistema di silenzio e di riserbo non si alterò punto durante due mesi, ma le parti stavano per cangiare. Io principiava a provare un interesse inquieto, una simpatia insinuante, una compassione che mi turbava, per quest'uomo che mi sembrava così buono e così infelice. Mi rassegnavo ad una sorte che non comprendevo ancora, ma mi proponevo di conoscere il dolore misterioso che torturava questo sventurato e di alleviarlo.
- E l'hai penetrato codesto misterioso dolore?
- Mai. Egli ha rinculato innanzi a qualunque spiegazione; ed anzi, quando gli facevo delle domande su tale soggetto, egli accorciava la sua visita, e restava più lungo tempo senza venire. Ora non vi è nulla di più traditore per una donna, che la compassione. Essa cova, si trasforma, scava, rode; poi un bel giorno, scatta e trovasi amore. Gli è ciò che mi avvenne. A capo di sei mesi, io era pazza di passione.
- E lui?
- Sempre lo stesso: triste, freddo, pensieroso, qualche volta irritato, altre tenero per cortesia; ma il suo aspetto calmo, la faccia cupa, l'aria triste, lo scoraggiamento della vita, il suo abbattimento sinistro e tenebroso, riprendevano sempre il disopra. In uno di quegli accessi di passione, terribili e sconosciuti, che aveano tutte le forme, dalla disperazione fastidiosa allo stordimento dell'ebbrezza, io soccombetti.
Claudia balzò in piedi e si slanciò sopra Ida. Io la presi per le mani e la feci di nuovo sedere. Ida si levò anch'ella ed indietreggiò.
- Continua, continua, balbettò Claudia passando le sue mani sul proprio viso pallido, al punto che pareva non avesse più goccia di sangue nelle vene.
- Ponzio....
- Chiamalo Cajus, gridò la romana.
- Restò otto giorni senza vedermi. Ma....
- Ma?
- Era divenuto mio amante.
- E ti amava?
- Non mi ha mai amata, te l'ho già detto. Si sarebbe creduto, alla collera ch'ei vi poneva, che ognuno dei suoi baci, fosse una vendetta contro qualcuno. Per conto mio, l'adoravo. Avrei dato la vita per vederlo sorridere. I suoi trasporti amorosi andarono così a salti per un anno. Passava da una frenesia di passione ad una frenesia di pentimento e di malinconia. Sovente apriva le braccia per abbracciarmi, poi mi respingeva, mi calpestava sotto i suoi piedi, mi batteva. Finalmente, o si scioglieva in lagrime, o in baci, oppure fuggiva vergognoso, disprezzandomi e disprezzandosi, odiando il cielo ed il mondo.
- Claudia, dissi io, non comprendi tu dunque questi parossismi di follia di tuo marito.
- Glieli spiego adesso, replicò Ida interrompendomi. Dacchè sei arrivata qui, o Claudia, non ho veduto tuo marito che sole tre volte. La prima, la sera stessa del tuo arrivo a Gerusalemme, egli ha pianto sul mio seno, da commuovere le pietre, e si è contorto su questo pavimento di marmo come un serpente ferito. La seconda volta, mi ha divorata in una esplosione frenetica di lascivia; ma io sentivo che quelle strette, quelle morsure, quei baci, quelle carezze, si abbattevano su di me e s'inspiravano altrove. L'ultima volta egli venne a dirmi: Addio, Ida. Io ti lascio: io amo mia moglie.
- Che? gridò Claudia stringendo Ida nelle sue braccia. Egli te l'ha detto?
- Cento volte in quella triste sera: amo mia moglie! Mi ha lasciata svenuta, morente nella mia stanza, e non l'ho più riveduto.
- Mai più?
- Mai più. Non ho ricevuto sue notizie che per questa lettera che mi portò Giuda. Vedila.
Ida prese da un armadio la lettera di cui ho già parlato e la diede a Claudia. Questa la divorò degli occhi; poi stringendosela al petto, sclamò;
- Ti perdono tutto. Ma odimi, figliuola: guai a te se tu lo rivedi giammai. Maritati, fuggi, nasconditi. Se vuoi del denaro, ti arricchirò; se vuoi traversare il mare, ti darò una trireme; ma ricordati bene questo: guai a te, guai a te, se lo rivedi ancora.
E ciò dicendo, Claudia partì fuggendo di Berachah senza punto curarsi di me. Arrivata al palazzo d'Erode fece montare a cavallo una coorte, balzò ella stessa sopra un cavallo, ed immediatamente partì al galoppo per Sebaste, andando incontro a Pilato.
Riguardai Ida. Sembrava pietrificata dall'esplosione della Romana, si trovava annientata nel cuore donde sentiva schiantar quell'amore che si sforzava di tenervi rinchiuso. Non osai dirle nulla. Presi la sua mano ardente dalla febbre, e vi lasciai cadere una lagrima. Poi partii alla mia volta per andar a raggiungere il Rabbì di Nazareth.
XXVII
Io aveva accompagnato Gesù fino alla fontana di En-Shemesh, in quel vallone selvaggio che è a poche ore da Bethania. Egli aveva continuato la sua strada per Gerico, strada tante altre volte percorsa da lui in condizioni più sorridenti di spirito. Aveva dormito nell'albergo che si trova a mezza strada, di cui ho già parlato (che si chiama oggi Khan Hudjar) e all'indomani di buon'ora, traversando la città delle Palme, aveva continuato la sua strada, passato il guado del Giordano a Bathabara e cercato un relativo ricovero nella Perea, Stato di Antipas.
Il Giordano, nel suo corso inferiore, divide la provincia romana della Giudea, dalla provincia semi-indipendente della Perea, come nel suo corso superiore separa la Galilea dalla Traconitide. Erodiade non amava il Rabbì di Nazareth meglio che il Battista; ma Antipas conservava rancore contro Pilato, a causa della carneficina di Galilei da costui fatta al tempo della sommossa per l'offerta, considerando la propria autorità conculcata dal supplizio dei suoi sudditi. Il Rabbì, perseguitato in una provincia romana, poteva dunque sperare una tal quale protezione nei dominii di questo principe a causa di questo risentimento. Gesù per altro non si fermò nella Perea, e fece una rapida corsa a traverso la Galilea e la Samaria.
Mano mano che gli avvenimenti precipitavano, e divenivano più cupi, il Rabbì voleva formarsi un'idea sempre più chiara della sua posizione. Aveva gettato il suo scudo, come il reziario davanti il mirmillone. E' si sapeva ora designato, condannato, messo a caccia. La sola probabilità di salute che gli restava era la protezione del popolo di queste provincie; popolo il quale, odiando i Romani e l'aristocrazia di Gerusalemme, poteva prendere una attitudine tale da consigliare ai suoi nemici la sommissione od una tregua. Nel viaggio intrapreso dal Rabbì, avanti la festa del Purim, per lo stesso scopo di esplorazione, egli non aveva scorto alcun sintomo che potesse incoraggiarlo, o dargli qualche speranza. Volle ciò malgrado visitar nuovamente quei paesi, poichè l'ora di giuocare la sua ultima posta gli pareva arrivata.
Aveva sete di speranze e d'incoraggiamenti.
Quando io venni a raggiungerlo a Bathabara, ei non era ancora di ritorno; ma i suoi discepoli lo aspettavano sotto le capanne del fiume. Io lo attesi altresì, ma a Gerico, andando ogni mattina ad informarmi se fosse arrivato.
Una mattina finalmente lo incontrai. Mi parve profondamente abbattuto. Pure non manifestò nissuna idea di indietreggiare, o di cangiar proposito. Lo scongiurai ancora una volta di lasciar per il momento la parte di moralista e di umanitario da lui scelta, e di seguire l'istinto della nazione che domandava un capo politico. Egli mi rispose che i messia che l'avevano preceduto «erano dei ladri e dei briganti,» e che egli non conosceva altra salvezza, ed altra possibilità di riescita, che nell'assorbimento del popolo in Dio.
Vedendolo allontanarsi da Gerusalemme, onde evitare la spiegazione alla quale era stato invitato, la gente del Tempio ed i Farisei non lo tennero per sdebitato malgrado la sua fuga. Lo fecero cacciare dai loro segugi, che lo snicchiarono al guado del Giordano, a cavallo fra i due Stati, potendo in pochi minuti cercare un asilo dall'una o dall'altra parte del fiume. Essi lo tenevano dalla parte del paese romano. Bisognava dunque comprometterlo nella Tetrarchia. Antipas, o meglio Erodiade, non aveva che una sola corda sensibile - quella che il poco abile Battista aveva toccata, e ne era stato colpito di morte.
Gli agenti del tempio domandarono quindi al Rabbì, se un uomo poteva scacciare sua moglie per qualsiasi cagione.
Le scuole di Hillel e di Shammai avevano già posata tale questione; ma il Tetrarca della Galilea l'aveva risolta, e guai a chi si fosse avvisato contraddirlo.
Il Rabbì fiutò la trappola, e con quell'ammirabile tatto ch'egli aveva per istornare un'importuna interpellanza, colla squisita finezza che sapeva mettere nelle sue risposte, quando non rispondeva bruscamente, o motteggiando, egli disse:
- Il marito e la moglie non formano che una sola carne.
Una circostanza venne allora ad accelerare la catastrofe.
L'amico del Rabbì, Lazzaro di Bethania, giaceva nel suo letto gravemente infermo e le sorelle di lui lo mandavano a chiamare per venirlo a rilevare. Lazzaro era epilettico. Ma questa volta la malattia si era complicata di segni pericolosi; imperciocchè, dopo che l'accesso era passato, Lazzaro era restato rigido e freddo come una barra di ferro. (L'accesso epilettico era stato seguito dalla catalessia). Questi sintomi avevano allarmato le due donne. Quando il loro messo raccontò al Rabbì lo stato dell'ammalato, egli non se ne mostrò inquieto. Vide in quel fatto un'occasione felice, al contrario, per la sua glorificazione.
- Non è mortale la malattia di Lazzaro, osservò egli; ma per la gloria di Dio, il figlio di Dio vi potrà attingere altresì la sua gloria.
Il messaggero riportò questa risposta.
Ora il Rabbì, che nella sua posizione pericolosa si afferrava ad ogni bricciolo di speranza, riflettè sulla stranezza della malattia del suo amico. Un'idea gli passò per la mente. Perocchè due giorni dopo la partenza del corriere, egli annunziò ai suoi discepoli che andava «a svegliare il suo amico che dormiva!»
Il Rabbì aveva un'influenza imperiosa sopra la complessione accasciata e nervosa del suo ammalato. Bastava accarezzarlo della sua mano amica, o semplicemente avvilupparlo del suo sguardo profondo e gioioso, per far sì che Lazzaro sentisse un sollievo alle sue sofferenze e si addormentasse nella calma. Laonde, il Rabbì era onnipotente in quella casa di Bethania. Allorchè il messaggiero delle due sorelle fu di ritorno con la sua risposta di consolazione, Lazzaro peggiorava. Poi, il giorno stesso che noi lasciavamo il Giordano per risalire a Gerusalemme, egli ebbe una crisi fulminante, dopo la quale le sue membra s'irrigidirono, la respirazione cessò, la sua pelle s'agghiadò ed i suoi occhi divennero vitrei.
Le due sorelle lo credettero morto.
L'ebreo è il solo popolo del mondo forse che non abbia il culto della morte. La morte per l'ebreo è una contaminazione. Abramo, che doveva a Sara delle compiacenze le quali rasentavano l'infamia, appena la vide morta, gridò: Seppellite la mia morta lungi dai miei sguardi. Giacobbe si diede appena il tempo di mettere una pietra sulla tomba di Rachele e continuò il suo viaggio colle sue gregge. Tiberiade è una città impura per gli Ebrei, perchè è costrutta in parte sopra i sepolcri di generazioni sparite dalla memoria degli uomini. L'ebreo scaccia il morto dalla dimora dei viventi, lontano, nei sinistri burroni, in preda allo strazio delle iene e dei cani. Nè fiori, nè alberi, nè ricchi monumenti, come appo i Romani. Un buco nella roccia è la tomba d'un re. Il Rabbì chiamava i suoi nemici dei sepolcri.
Le due sorelle di Lazzaro, trovandosi dunque sole con quel cadavere, elleno che erano forse di già noiate di quel vivente collerico, inquieto, rabbioso, irritabile, egoista come tutti gli ammalati, si affrettarono a sbarazzarne la casa.
Lazzaro aveva vicino alla sua dimora una grotta, la quale poteva servire al bisogno da cantina, da stalla, o da sepolcro, protetta contro le intraprese dei cani e delle bestie feroci da una pietra appoggiata alla sua entrata. Marta e Maria avvilupparono il loro fratello in un sudario, l'attorniarono di coperte e lo deposero in quello speco.
- Se Lazzaro è morto definitivamente, dissero a sè stesse, e' resterà nella sua tomba; se non è che semplicemente caduto in letargia, come cento altre volte, non avrà che a respingere la pietra della chiusura ed uscire.
L'operazione del sequestro del corpo di Lazzaro compiuta, i vicini, gli amici, principiarono a venir a visitare le due sorelle per consolarle. Maria, la vaneggiante, conversava con loro, mentre Marta, la massaia, prendeva cura nel giardino dinanzi l'uscio, dei cani, delle pecore, dei colombi, e dei polli.
Verso la sera del secondo giorno da che avevamo lasciato Bathabara, Marta era occupata nel giardino in queste faccende, quando ci scorse da lungi e riconobbe il Rabbì.
Si precipitò al suo incontro, e gli raccontò tutti gli incidenti della morte del fratello. Il Rabbì si turbò e sospirò. Marta lo lasciò e andò ad annunziare secretamente il di lui arrivo alla sorella. Maria non seppe nascondere la sua gioia. Diede in un grido ed accompagnata dai vicini che le facevano visita, si avanzò verso il Rabbì che mi parve terribilmente preoccupato. Maria gli raccontò allora altri particolari della malattia, altri sintomi della morte. Gesù volle vedere, e si diresse verso la grotta. Egli intravedeva in questa avventura - l'ho già detto, ed egli stesso l'aveva detto - un'occasione di attestarsi in maniera strepitosa come figlio di Dio «a causa del popolo che lo circondava, e che poteva crederlo inviato da Dio115.» La pietra della porta tirata da banda, vedemmo Lazzaro coricato, la testa verso l'apertura. Il Rabbì allungò la mano sopra di lui, la tenne lungamente su quella testa e su quel petto, poi pregò, gli occhi rivolti al cielo. Infine, sclamò:
- Grazie, Padre! tu m'hai ascoltato.
Allora, indirizzandosi a Lazzaro, gli gridò con voce possente:
- Lazzaro, alzati e vieni fuori.
Lazzaro si alzò come dal suo letto, senza dare alcun segno di stupore nè di riconoscenza, e rientrò tranquillamente in casa. I suoi amici, che lo avevano creduto morto, portarono a Gerusalemme la notizia che il Rabbì di Nazareth l'aveva risuscitato.
Questa notizia non poteva a meno di giungere alle orecchie di Hannah e di Caifa. Essi seppero così che il Rabbì era di ritorno a Gerusalemme, e che veniva coll'intenzione la più determinata di provocarli. Hannah pensò che il Rabbì venisse altresì per avere con noi quella conferenza cui non ha guari aveva evitato partendo precipitosamente. All'indomani, benchè giorno di sabbato, Gionata figlio di Hannah ascese a Bethania per ricordare a Gesù l'impegno preso di incontrarsi coi delegati dei partiti.
Lazzaro, avendo ancora d'uopo di riposo, Gesù aveva accettato a desinare da Simone il lebbroso, invitandovi i suoi discepoli. Questi, sempre poltroni, non avrebbero voluto lasciar partire il Rabbì dalla Perea, dicendogli: Essi ti lapideranno. Ma uno di loro, ed io stesso, avendoli fatti vergognare di tanta vigliaccheria, essi avevano accompagnato il maestro, anticipando così di una settimana il loro arrivo per la festa. Seguirono dunque il Rabbì dal lebbroso.
Questa audacia lambiva la demenza nella sfida che il Nazareno portava ai Farisei
La lebbra era appo gli Ebrei ed in tutta la Siria una malattia orribile, prodotta sovente da vizii infami. E considerata quindi come un castigo di Dio. Essa era però più frequentemente occasionata dalla mancanza di cure, dal sucidume, e dalla stranezza di un clima ardente e secco. Si riteneva dunque un lebbroso come un uomo colpito dalla collera di Dio; ed i libri sacri e la legge orale erano stati relativamente indulgenti classificandoli come morti: morti dinanzi la legge, i diritti civili e le consolazioni del Tempio. Un lebbroso non poteva entrare nè in una sinagoga, nè da un amico, nè in un pubblico uffizio, in nessun sito insomma ove altri uomini si riunissero. Era obbligato di portar nudo il capo, i vestiti fatti in certa maniera particolare, e di color giallo come le prostitute, e di gridare, quando passava per le vie: «Fate attenzione, un impuro!» Come un cadavere, egli non poteva restare una sola notte dentro le mura di Gerusalemme. Lo si scacciava fuori dalle porte della città nell'Hinnon e Giosafatte, nella valle della Gehenna e dei cadaveri, riducendolo a disputare un buco ai cani ed alle bestie feroci. Ecco perchè il ricco Simone aveva la sua abitazione nel borgo di Bethania.
Ora, un lebbroso non era soltanto una persona maledetta, ma la sua vista faceva orrore.
Il Rabbì accettò da pranzo presso questo contaminato: prima, perchè egli non ne sentiva per nulla la ripugnanza, poi perchè sfidava la legge di Mosè, e non ne divideva le viste sul capitolo delle impurità. I discepoli accompagnarono il loro maestro, perchè e' non avevano volontà propria, perchè avevano l'abitudine di sedersi a qualunque tavola che lor offrisse da mangiare ad ufo, e perchè il pranzo di quel ricco disgraziato prometteva d'esser sontuoso: buona fortuna che loro accadeva raramente.
Il Rabbì, per conto suo, non sapeva mai ciò che mangiasse. Per lui una radice d'erba ed uno storione avevano il medesimo valore. Ma i suoi discepoli gustavano il lauto vivere, sopra tutti il piccolo Giovanni, che era addimandato il figlio della folgore, e che avrebbe dovuto esser chiamato il figlio della pentola. Il Rabbì ignorava il valore del danaro e la distinzione della proprietà. Non era avaro di ciò che possedeva, ma non faceva complimenti neppure per imporsi altrui con un'ospitalità sovente incomoda e costosa. Ci trascinò quindi con lui alla tavola di Simone.
Quando vidi quest'uomo, indietreggiai spaventato. Credetti trovarmi con un leone reso deforme. Il suo viso era lucido come uno specchio. Il suo alito infettava l'atmosfera. Il corpo coperto da tubercoli scagliosi e grossi screpolava ad intagli come la pelle di un elefante. La grossezza delle vene rendeva la pelle116 callosa. Nessun pelo sul viso. I rari capelli che sbucciavano sul suo capo erano divenuti bianchi. La pelle del capo si divideva essa pure in tagli molteplici e irrigiditi. La faccia era coperta da escrescenze dure, appuntite, bianche alla cima, verdastre alla base. Quando respirava mostrava una lingua irta di tubercoli come grani d'orzo. Delle volatiche coprivano le dita, i ginocchi, ed il mento. Le pomette delle guancie rosse e gonfie; gli occhi di un colore di rame, oscurati, velati sotto le profonde rughe cagionate dalle sopracciglia contratte; le labbra tumide; il naso carico di sarcosi nerastre; i denti neri, le orecchie floscie, allungate come quelle dell'elefante; in tutto il corpo, delle ulcere che davano un umore nero e fetido, le nuove rodendo le vecchie... tale era Simone.
Quando vidi quel mostro spaventevole, protestai di non aver fame, d'esser ammalato, d'aver bisogno d'aria, e restai nel giardino. Io vi passeggiava quando entrarono, uno dopo l'altra, Maria di Magdala e Gionata.
Maria non potendo più a lungo tollerare l'assenza prolungata del Rabbì, aveva preso una singolare risoluzione, seguendo del resto il precetto di costui.
Aveva venduto la sua piccola casa di Magdala. Del prezzo che ne aveva ricevuto, aveva comperato da un profumiere di Tiberiade una fialetta di essenza di nardo, e precedendo la compagnia dei Galilei, si recava al paschah. Maria sapeva ove il Rabbì alloggiava, ed era venuta a raggiungerlo. Sia che l'orribile puzza del sito le avesse ispirato tale idea, o che avesse un progetto preparato, vedendo il Rabbì addossato al lebbroso, ella si avvicinò a lui e gli versò sui capelli i profumi del suo vaso.
Il Rabbì se ne andava in broda di giuggiole a questi atti di deferenza e di delicatezza. Amava anche gli odori e i profumi, e molto i fiori; ma sopratutto si mostrava tenero delle profusioni che si usavano per la cura della sua persona. Ciò aveva un non so che d'aria regale; ed egli si spacciava per figlio di Davide. L'atto fastoso di Maria lo inebbriò. Tanto più ch'ella si mise ad asciugargli i piedi con la sua splendida capigliatura, dopo averglieli profumati alla foggia romana. Ora questa prodigalità di profumi non ebbe lo stesso successo appo i discepoli, che appo il loro maestro. Simone, che conosceva il valore del denaro e sapeva che da una settimana io riempiva una borsa che m'era stata confidata vuota, brontolò senza ritegno; poichè quel villano era franco nella sua rustichezza. Le osservazioni sopra questo spreco di odori continuavano, allorchè si avanzò Gionata. Egli aveva assistito col sorriso sulle labbra alla scena di Maria; ed il Rabbì lo aveva osservato.
Gionata espose il messaggio di suo padre. I discepoli del Rabbì parvero contenti di questo atto del sagan, perchè lo presero per un ossequio di deferenza, forse di sommissione, e si videro quasi collocati sui gradini di quel trono nelle tribù d'Israele cui il Rabbì aveva promesso a ciascuno di essi. Se la madre di Giacomo e di Giovanni, quella piccola e petulante mestatrice seccante che aveva chiesto al Rabbì un posto più considerevole pei suoi figli, fosse stata lì, avrebbe pianto di gioia. Gesù invece si turbò; io impallidii. Noi indovinammo quale sarebbe stata la conclusione della conferenza. Ma l'aria offesa che mostrò Gionata del trovarsi in un simile luogo, quantunque si fosse fermato sulla soglia della corte interna, il contegno pressante manifestato dai discepoli, il mancare di buone ragioni per evitare questa esposizione dei suoi principii, cui si aveva diritto di chiedergli poichè egli insegnava nel tempio, impedirono a Gesù di rifiutare o protrarre il convegno. Accettò dunque, e la riunione fu fissata pell'indomani in casa del sagan, all'ora ottava.
L'ora era avanzata, e temendo di trovar chiuse le porte della città, io discesi con Gionata a Gerusalemme117.
All'indomani di buon mattino, Gesù si presentò al Tempio. Bar Abbas si recò da Ida.
Il Rabbì, da alcuni anni, insegnava sotto i portici di Salomone; e mai la polizia del Tempio, od i dottori del gran Consiglio, non gli avevano opposta la più piccola difficoltà; benchè, in ogni tempo, i suoi precetti fossero stati contrari alle leggi di Mosè, ed all'insegnamento dei successori di Hillel. Il sanhedrin era il solo giudice delle dottrine che si professavano, e solo aveva il diritto d'accordare il permesso di predicarle. Questa volta, siccome la lotta fra i partiti ed il Rabbì aveva cominciato, taluni degli anziani avendolo trovato a parlare in pubblico, gli chiesero, in virtù di quale autorizzazione egli esponesse i suoi principii.
Una lunga esperienza non li aveva corretti dall'interrogare il Rabbì, il quale aveva l'abilità suprema di confonderli con una buona ragione, o di sfuggir loro con un motteggio o con un'altra interrogazione. Come sempre, il Rabbì si burlò di essi. Egli chiese loro:
- Cosa pensate voi di Johanan, il Battista? Era desso un uomo od un inviato del cielo?
Un gran numero dei discepoli del Battista circondavano in quel momento Gesù. A quella domanda gli anziani tacquero sulle prime, poi, incalzati dal Rabbì, risposero che non ne sapevano nulla. Essi avevano indovinato l'agguato. Se avessero risposto che il Battista era un uomo, i suoi discepoli, lì presenti, potevano maltrattarli e gettar loro delle pietre; se rispondevano che veniva dal cielo, il Rabbì avrebbe sclamato: Allora perchè non l'avete ricevuto?
Con un così fino casuista, la discussione diveniva terribile. Ciò malgrado, i Sadducei vennero a molestarlo colla dottrina della risurrezione, a cui non credevano, non trovandola nei libri di Mosè. I Sadducei gli chiesero dunque, celiandolo:
- Una donna ha avuto sette mariti; a quale di costoro apparterrà essa nel giorno della resurrezione?
Il Rabbì rispose scaltramente:
- Nel giorno della risurrezione, non vi saranno più nè mariti, nè mogli, ma sarete tutti degli angeli di Dio nel cielo.
I Sadducei, come gli anziani, se ne andarono indispettiti, e odiandolo più che mai.
I Zeloti, o a meglio dire i discepoli di Giuda di Gamala, vollero scandagliarlo alla lor volta. La questione che gli proposero era capitale.
L'ebreo paga due sorte di tributi: la tassa di Dio e la tassa di Cesare. La tassa del Tempio - mezzo siclo - era stata per molti anni discussa fra i Sadducei ed i separatisti. Questi ultimi avevano finalmente fatto decidere dal sanhedrin che la era forzosa, e che la si doveva pagare al primo del mese di nizan. Questo fondo serviva a comperare le legna da brucio, l'incenso, il pane azzimo, ed a pagare i familiari del Tempio. Il popolo aveva vinto in questo sopra l'aristocrazia che vi era renitente. La tassa di Cesare invece era acconsentita dai Sadducei, e contestata dai separatisti. L'aristocrazia sapeva che il governo costa; che se il popolo non paga, le classi ricche sono responsabili dinanzi alla legge. Il gran sacerdote Ioazar, secondato da Hillel e dai Farisei moderati, aveva persuaso il popolo di pagare questo denaro per ogni testa (ottanta centesimi), ed il popolo aveva pagato - tranne i Galilei che consideravano quella tassa come un segno di schiavitù, e come un'offesa a Dio, mettendo Dio e Cesare all'istesso livello.
Da questo punto di vista, i Zeloti proponevano al Rabbì una questione capziosa, chiedendogli se si doveva pagare la tassa di Cesare. Rispondeva di no? avrebbe avuto a fare con Pilato. Rispondeva di sì? abbassava Dio al livello di Tiberio.
Il Rabbì, quantunque in apparenza semplice e ingenuo, scoprì la perfidia. Egli si fece mostrare una moneta ove stava l'effigie di Cesare, e rispose senza rispondere:
- Rendete a Cesare ciò che è di Cesare.
E lasciò il Tempio.
In quell'istesso momento Bar Abbas si presentava da Ida.
- Ah! ah! sclamò egli entrando nel tablinum, sono io, il tuo caro barba, io Gesù Bar Abbas, ex-legionario romano, fulmini ed allegria! Devi esser stata bene in allarme della mia lunga assenza, fanciulla mia. Ma cosa vuoi? io mi sono ingolfato nella vita pubblica che mi assorbe, mi divora, mi consuma: io mi voto alla patria. Gerusalemme non ha che due cose necessarie e due meraviglie: il Tempio e me. Consolati dunque, cara Miriam, eccomi qui.
- Ero già bella e consolata, rispose Ida.
- Ne sono incantato, abbagliato, sorpreso. Non abbiamo più quelle ubbie per il capo, eh! Abbiamo fatto un bel bucato di tutte quelle grandi passioni, quelle nostre disperazioni? Tanto meglio, bambina mia, tanto meglio. Io ne perdeva la pace, il sonno e l'appetito.
- To'! ed io che volevo offrirti da mangiare.
- Mangiare! l'è questo il più bel verbo che esista in tutte le lingue umane. Offrimi dunque; te lo permetto. Mangiare gli è sempre a proposito, sia che arrivi come compenso del passato, sia che lo si prenda come previdenza per l'avvenire, sia che lo si presenti come una gentilezza del momento; e tanto più, carina mia, che io non mi ricordo troppo bene se ieri ho coniugato quel verbo al tempo presente. Mi dispiace solo di non poterti ricompensare con delle buone notizie.
- Che c'è dunque? sclamò Ida, non troppo spaventata però perchè conosceva bene suo zio.
- Ma! gli è lui. Ho forse io altri soggetti di angustie in questo mondo? è tuo fratello. Quel giovane è il mio verme roditore. Finirà coll'uccidermi dal dispiacere.
- Che ha fatto dunque? Corre forse nuovi pericoli? è ritornato a Gerusalemme?
- Per bacco, ieri; e ne ha già fatto una delle sue solite. Figurati che se n'è andato a pranzare da un lebbroso di villaggio, accompagnato da quei mascalzoni che lo seguono ovunque, con un'aggiunta di donne equivoche.
- Non è vero.
- Sta attenta, che non è poi tutto. Del resto, il proprio figlio del sagan, e Giuda da Kariot che erano lì, che l'hanno veduto, mi hanno raccontato la cosa. Prima di tutto, siccome quei villanzoni hanno soppresso l'uso di lavarsi le mani avanti pranzo, per dar lo gnorri ai Farisei, puoi immaginarti che fondo di gamella doveva restare, d'un lebbroso e quindici provinciali che tuffavan le mani nell'istesso piatto! Erano lì tutti a sguazzar nella broda, ed il Rabbì succhiava un'ala d'oca con lenti al burro pimentato - intingolo squisito, sai, Mirjam! Te ne farò mangiare la prima volta che m'inviterai a pranzo. Il Rabbì succhiava dunque tranquillamente la sua ala, pensando al regno dei cieli, allorchè una certa pettegola di mia particolare conoscenza, irruppe nella sala. Arrivava dritto dritto dal suo paese - da Magdala, sai - portando la sua casa ed il suo giardino in una fiala d'alabastro, con dentrovi non so quale malvagìa di sugna. Non disse nè buon giorno, nè buona sera. Cavò fuori il suo vaso da sotto la tonica e crac! lo ruppe sul capo del Rabbì. Ah! belloccia mia, non puoi immaginarti di che odore delizioso - cosa dirti? di costoletta arrostita, di minestra all'aglio, di rosmarino, che so io! - si riempì la casa. Ed eccoti il Rabbì inondato da quell'untume che gli scorre da per tutto.... Guarda, ne aveva tanto colato perfino ai piedi che Maria - la si chiama così - principia ad asciugarli coi suoi capelli che sono magnifici.
- Tu menti, sclamò Ida; il Rabbì non l'avrebbe permesso.
- Gli è precisamente quello che si dicevano fra loro quei furfanti dei suoi discepoli. Imperciocchè e' avrebbero preferito vendere quell'odore prezioso, e mangiarlo in un bel desinare al paschah. Il Rabbì udì i loro brontolamenti, e disse loro: Tacete, branco d'infingardi! C'è stato dei paschah fino ad oggi e ce ne sarà anche per l'avvenire, lo avete fatto e lo farete, fino a che non sarete impiccati; per me questo è l'ultimo.... Stropiccia, Maria, stropiccia, figliuola mia! I tuoi capelli sono dolci come il più fino lino dell'Egitto, ed io ne basisco di diletto.
- Tu menti: mio fratello non avrebbe mai detto questo.
- Questo o qualcosa di simile. Io divido le opinioni degli scienziati riguardo alle traduzioni libere. Il fatto sta che il figlio del sagan venne via scandalizzato da Bethania, e che jeri sera ebbe luogo da Hannah una riunione onde chiamare Gesù a render conto della sua condotta. Tu comprendi che io difesi la libertà dei desinari, dei lebbrosi, delle mani sporche, degli odori e delle profumatrici; ma fui nella minoranza. Fu adottata la decisione, malgrado la mia ben nutrita eloquenza - la sola cosa che io mi abbia sempre ben nutrito, - di mandare una intimazione al Rabbì. Ciò è stato fatto, ed oggi egli comparirà davanti i delegati dei partiti riuniti in casa del sagan.
- Vogliono dunque perderlo ad ogni costo?
- Ad ogni costo? Di' pure per niente, poichè e' non ci spendono nulla per perderlo. Egli si perde da sè solo, quell'indiavolato. Questa mattina infatti si è presentato al Tempio, ed ha ricominciato.... Io l'ho incontrato sui gradini del Moriah. Me gli sono avvicinato pulitamente, perchè ho appreso le belle maniere a corte, nelle legioni, e nel contatto quotidiano dei grandi personaggi. Ma egli, che arriva sempre dalla sua provincia, mi ha accolto coi soliti complimenti: di infame, canaglia, miserabile e che so io! Ha una lingua fiorita, mio nipote. I Farisei e gli Scribi ne sanno qualche cosa, perocchè i nomi più teneri che loro dà, sono quelli di «briganti, ladri, razza corrotta, razza adultera, razza di vipere, sepolcri imbiancati, ciechi, conduttori di ciechi, ignoranti ipocriti, figli del demonio, insensati, pazzi....118» Ma io non m'imbestio; lavoro, anzi, a migliorare la sua educazione. Gli rispondo: ascoltami, nipote; rifletti, Rabbì; fa attenzione, profeta; ma guarda, messia; degnati di ascoltarmi, figlio di Dio; te ne supplico, Dio d'Israele.... A questo e' diventa più pieghevole, ed allora parliamo di te.
- Di me?
- E di chi vuoi tu dunque che parlassimo? Io non chiedo certo un posto nel regno di tuo fratello. È troppo alto nel cielo. Peste! deve farci troppo caldo o troppo freddo; non so troppo che. Allora egli mi dice: Uomo...... Sì, uomo: del resto egli chiama donna tua madre. Mi dice dunque: Uomo, va da Mirjam ed annunziale che ho bisogno di parlarle. So che il convegno d'oggi deciderà della mia sorte. Ho talune cose a comunicare a mia madre, cui Mirjam sola può riportarle. Che la venga in casa di Hannah; la vedrò avanti e dopo il mio incontro coi principi del Tempio.
- Tutto ciò non è vero, osservò Ida.
- Sciocca! Credi che se fosse vero te lo ripeterei? son proprio pagato per questo! Parlo dunque per guadagnare un po' d'appetito, e tu puoi andare o restare, venire con me o presentarti sola, credermi o no.... Ti avrò sempre distratta dai tuoi cupi pensieri. Hai mille ragioni per non credermi più. Mangiamo dunque.
Però Ida si ricordava che l'ultima volta Bar Abbas le aveva annunziato che il Rabbì correva grandi pericoli, e che questi le aveva confermato esser vero. Si ricordava che il Rabbì le aveva detto, l'ultima volta che lo aveva visto, che ella non poteva ritrovare il perdono che sul seno di sua madre! E se il Rabbì la chiamava veramente per confidarle qualcosa per questa madre! Che interesse poteva avere Bar Abbas per farla andare da Hannah, grande personaggio che godeva d'una eccellente riputazione119?
- Non è un nuovo agguato che mi tendi? gli diss'ella. Ciò che mi riporti sarebbe la verità?
- La verità? ohibò! Non mi prendono più a queste bazzecole. Una volta sola in vita mia ho voluto dir la verità e ne zoppico ancora. Avevo veduto, veduto coi miei proprii occhi, fuggire il tribuno della mia legione. Ne lo rimprovero: mi scocca un calcio col suo zoccolo ferrato e mi spezza una tibia. E da questo viene, che secondo voi altri insolenti della famiglia, io zoppico, mentre tutto il mondo dice che io cammino con molta grazia. Dopo di allora, mai più verità. Quindi, non stare ad andare. Non tengo poi mica tanto a render servizio al Rabbì.
- Gli è impossibile: mio fratello non avrebbe dato una simile missione a te.
- Hai proprio ragione: la sorella del re del cielo! Peste! Scusami, principessa. Chi sono io? Un vecchio legionario, un compagno d'armi di Tiberio, un allegro compare che tutti i guerrieri ed i cinedi di Gerusalemme piangeranno, quando sarò morto, coprendosi di ceneri - se hanno di che far fuoco; - che tutti i delicati della città sospireranno, quando avrò finito di divertirli, lacerandosi gli abiti - se saranno nudi. Bah! tutto ciò non basta per recare un messaggio alla figlia del carpentiere di Nazareth. Non parliamone più, e grazie. Credo che m'avevi offerto da mangiare, se non m'inganno anche in questo.
- Avrai tutto quello che vorrai, se Noah ha per di là qualche cosa, ma dimmi se veramente mio fratello mi chiama.
- Egli ti chiama, ma la non è mica una ragione perchè tu vada. Il sagan ha potuto venire da te senza pericolo, ma tu non puoi andare da lui. Come dunque? in un palazzo di principe, in mezzo alla città, in pien giorno, tu, ragazza pura ed innocente, andresti ad esporti ad un agguato di tuo zio, quel brigante che ti ha già venduta una volta! No, piccola mia, resta, resta, tuo fratello è un vaneggiatore, avrà bene abbastanza da pensare a sè stesso, stanne sicura. Io sarò nel consiglio, e lo difenderò, perchè io sono un vile senza dignità. Dunque fa conto che non ti abbia parlato di nulla, e mangiamo.
- Potrò almeno condur meco Noah?
- Conduci teco Noè, l'arca, e tutte le sue bestie - compresi Thorix e Febea che sono più vecchi delle piramidi. Ti prevengo però che costoro resteranno nella corte; imperciocchè un uomo come il sagan non ha l'abitudine di trovarsi con degli schiavi. Vieni dunque con me, o vacci sola colle tue schiave ed io vi aspetterò alla porta; oppure non andare affatto e credi che io voglio ingannarti; insomma fa ciò che vuoi. Io non vedo e curo al mondo che una cosa: la mia nobile persona.
- A che ora il Rabbì si recherà in casa di Hannah?
- Alla settima, credo.
- Ebbene vi andrò. Tu m'aspetterai alla grande porta. Vi hanno delle situazioni che assorbono come l'abisso.
- Che famiglia tragica è la mia, ed io, che lo sono così poco! L'utilizzo come posso, in fede mia! Ma gli è mestieri che mi metta in picca di eloquenza, a far sudare un rabbì del Gran Collegio.
- Ma dov'è Gesù? Perchè non lo vedrei io nel Tempio?
- Perchè egli non è nel Tempio, ove gli ufficiali lo arresterebbero, ma in casa il sagan, il quale gli dà un asilo fino al momento che si sarà spiegato.
- Chi devo domandare alla porta del palazzo?
- Poichè t'aspetto io?
- Ma se volessi andarci sola?
- Allora chiedi del re Salomone, o del profeta Elijah, e che la peste ti stermini.
All'ora sesta, Bar Abbas se ne stava alla porta d'Hannah almanaccando sui suoi quarantamila sesterzii.
XXVIII
Uscendo dal Tempio, il Rabbì della Galilea si recò da me e pranzò. Avemmo ancora un lungo colloquio insieme ed io mi sforzai di tracciargli il quadro il più vero, il più vivente della situazione, di ciò che i partiti esigevano, di ciò che la nazione aspettava, e di ciò che noi, promotori della rivolta, speravamo. Egli mi rispose per monosillabi vaghi; mostrandosi perfino incredulo che fossimo stati noi che gli avevamo reso favorevole il popolo, l'avevamo messo in evidenza, fatto risaltare le sue parole ed i suoi atti. Rientrò in sè stesso, si ravvolse nel silenzio e nella tristezza, e prese a riflettere. Egli sentiva che andava incontro ad un duello, nel quale avrebbe trovata la morte; giacchè Gamaliele, il figlio del rettore del Gran Collegio, il suo rivale, a cui era stato dato l'incarico d'interrogarlo e di rispondergli, non era uomo da scompigliare con una parabola o da abbagliare con un tratto di spirito. Io non turbai il Rabbì nel suo raccoglimento fino all'ora settima. A quel momento solo uscimmo insieme per recarci dal sagan.
Incontrammo Hannah alla sua porta. Usciva. Claudia l'aveva fatto chiamare, scongiurandolo di accorrere da lei immediatamente, avendo a fargli delle grandi comunicazioni. Ella e Pilato erano ritornati in quella stessa mattina dal loro viaggio. Hannah ci pregò di entrare, poichè eravamo attesi, ed egli aveva permesso di principiare la conferenza senza di lui.
Nell'assenza del sagan, Caifas, il grande sacrificatore, presiedeva la riunione. Non era molto numerosa. Oltre Caifas, c'era il vecchio Simeone, Gamaliel, Menahem arrivato la vigilia, Eliseo governatore del palazzo d'Antipas, il vecchio Jeù per gli Esseniani, Gionata il figlio di Hannah, Polus il terapeuta, un membro della sinagoga di Alessandria, inviato da Filone al gran collegio, ed io. Di maniera che tutti i partiti erano rappresentati.
Hannah ci aveva riuniti nel suo grande gabinetto di studio, nella parte più remota del palazzo ove egli si ritirava per meditare, o per spogliarsi della gravità delle sue funzioni. Un andito separava questo gabinetto da un piccolo appartamento addimandato uccidi-pensieri, mobigliato come quello d'un re assiro, ed ove egli celebrava dei misteri ben diversi da quelli del sancta sanctorum. All'estremità di quell'andito s'apriva una porta sporgente all'angolo più appartato del giardino, nel cui muro un altro uscio dava sopra una delle vie più deserte di Gerusalemme. Lo si chiamava l'uscio degli intrighi, dal quale un servo muto lasciava uscire, ma non lasciava entrar chicchessia, se non presentando una tessera convenuta. All'altra cima dell'andito trovavasi un piccolo gabinetto scuro, a tre uscite, l'una che immetteva nel piccolo appartamento, l'altra al gabinetto delle meditazioni, e la terza comunicava coll'andito, di rimpetto la porta donde si usciva nel giardino.
Il Rabbì non condusse seco veruno dei suoi discepoli, onde essere più franco nell'esposizione delle sue idee. Quegli uomini non lo comprendevano giammai120.
Finchè era restato in mia casa, il Rabbì mi era sembrato estremamente inquieto, a causa di questa intimazione di spiegarsi. Ma entrando nel gabinetto del comitato, egli ritrovò la più completa serenità di spirito, e la sua figura così pronunziata, il suo sguardo così potentemente mobile, presero un'aria di dolcezza infinita.
- Mi avete chiamato a questo convegno a porte chiuse, diss'egli, non so con quale scopo. Io ho parlato nelle vie, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio per degli anni, qui, ed in tutta la Palestina. Dovreste dunque sapere ciò che voglio, e chi sono.
- Sì, rispose Gamaliele, noi ti abbiamo lasciato per lungo tempo la libertà più completa d'insegnare e di agire, benchè avessimo il diritto ed il dovere di chiuderti la bocca fino dalla prima ora, benchè tu ci avessi colmati d'ingiurie e condannate le nostre dottrine. Ciò deve provarti che noi non abbiamo nessun risentimento contro di te; che professiamo la tolleranza di tutte le opinioni. Ma ogni cosa ha un limite: quello che la forza maggiore impone alla volontà. «Posti fra l'impazienza dei nostri connazionali e la vigilanza del demonio straniero, fra le seduzioni del paganesimo e ciò che noi crediamo si debba soltanto all'Eterno, noi siamo addossati al dovere di esigere delle dichiarazioni formali da ogni qualunque pretendente al titolo di messia. Noi siamo obbligati a dedicarci alla sua missione superiore, se porta agli occhi nostri le condizioni volute di successo; nel caso contrario, a prodigargli le rimostranze e gli avvertimenti; e dopo ciò, si dia pure codesto pretendente per capo, per profeta, per figlio di Dio, o per Dio stesso, se resiste alla legge e alla nostra autorità, sovrana ancora, siamo obbligati a punirlo121.» Ecco lo scopo della spiegazione alla quale t'invitiamo.
- Potrei declinare la competenza morale, e forse politica - io sono suddito di Antipas - della vostra giurisdizione d'esame; ma non lo fo e mi vi sottometto senza resistenza. Soltanto vi chiedo perchè, dopo una longanimità così prolungata, mi chiamate voi a quest'ora onde rendervi conto delle mie parole, dei miei errori, della mia missione? Cosa volete voi, voi stessi, Sadducei, Farisei, Terapeuti, Esseniani, Erodiani, partigiani di Giuda di Gamala, Antiochiani? Vi siete voi posti d'accordo sopra una dottrina comune per erigervi a giudici di una dissidenza? Io non rifiuto di spiegarmi: al contrario; ma desidero avere alla mia volta delle spiegazioni.
- Noi siamo qui per chiederne, e non per darne. Abbiamo i nostri titoli per interrogare; quali sono i tuoi per intimarci di dirti ciò che vogliamo? Non abbiamo soffocata la tua voce fin dalla prima ora, è vero; gli è questo un delitto? Sino a tanto che tu ti sei spacciato per figlio di una vergine, della razza di Davide, messia; noi non abbiamo detto nulla. Hai voluto importi come un Osiride, un Adone, un Budha, un Ormuzd, un Mythra o non so qual'altra divinità dell'India, della Fenicia, e dell'Egitto. Noi non abbiamo temuto questa importazione di idoli nel nostro paese. Spetta ai figli di Erode ed ai Romani lo inquietarsi di codesti discendenti di Davide. Anche noi attendiamo il liberatore del nostro paese. Hai fatto dei miracoli. Atalide figlio di Mercurio, Esculapio, Ercole, Gabienus, Policrate, Anfione, Eres, Orfeo, le figlie del grande sacerdote Anius, le sacerdotesse di Diana, di Feronia, d'Irpicus, Simone di Samaria, Apollonio di Thiane, Augusto, tutti i medici, tutti i ciarlatani, tutti i sacerdoti delle religioni straniere, il cavallo Pegaso, il pesce Oannes che predicava sulle rive dell'Eufrate, tutti costoro ne hanno fatto, ne fanno altrettanti e così miracolosi come i tuoi122. Noi ti abbiamo lasciato continuare i tuoi prodigi.
- Li avete calunniati.
- Ne abbiamo riso. Hai predicato la risurrezione, che non si trova nei libri di Mosè; ma ti sei attribuita la massima d'Hillel: «Fa agli altri ciò che vorresti si facesse a te stesso;» hai abbracciato la dottrina dell'eguaglianza stabilita da Platone, e prima di lui, da Gesù figlio di Sirach, da Aristobulo, e da Pitagora; hai anche accettato «la legge orale trasmessa da Mosè a Giosuè, e da questi agli anziani che la comunicarono ai profeti, e da questi ai dottori delle grandi sinagoghe, come pure le tre sentenze emanate da questi ultimi: Siate lenti nel giudicare; moltiplicate i discepoli; e fatevi bastione della legge.» Allora, se tu hai stimatizzato il ridicolo dei nostri bigotti e dei nostri zelanti, se hai trasgredito diverse delle nostre pratiche, se, nell'interesse del tuo proselitismo, ci hai calunniati, abbiamo chiusi gli occhi, perchè tu rispettavi il fondo della legge.
- L'ho poi violata forse?
- L'hai straziata; hai bestemmiato. Ci hai domandato un giorno: per quale delle tue buone opere noi ti minacciavamo? Non è per nessuna buona opera, nè per alcun precetto di buona giustizia e di buona morale; ma perchè, essendo uomo, osi farti Dio123. Ora, la nostra legge è precisa. Il signore ha detto: «Io sono Iehovah, l'eletto, l'eterno, il primo e l'ultimo; io non trasmetto a nessuno nè il mio nome, nè la mia gloria.... Non c'è stato alcun Dio avanti di me.... Non ce ne sarà dopo di me.... Non ne esiste alcuno con me.... Io sono l'eletto che crea la luce e le tenebre, che dà a volta a volta la pace o l'avversità.... Gli è a me solo che appartiene la vita eterna; io solo sono il Dio forte, il Dio giusto, il Dio liberatore, redentore, salvatore....»124. Non è questa la legge?
- È la legge.
- Ora, la legge soggiunge: «Se dunque sorge in mezzo a noi un profeta o un sognatore che faccia qualche segno o miracolo, e che il segno o miracolo di cui egli avrà parlato si compie; s'egli vi propone nel tempo stesso d'introdurre qualche altro dio, che voi non conosceste mai, e di servirlo; voi non ascolterete le parole di codesto profeta o sognatore. Iehova, il vostro Dio, colui che vi ha levati dalla casa della schiavitù, vi mette alla prova per vedere se lo amate con tutto il vostro cuore, con tutte le vostre forze.... Ma cotesto profeta o sognatore morrà, e la mano del popolo tutto si porterà su di lui125. È questa la legge?
- È questa.
- Ebbene, tu non ti sei proclamato Dio soltanto nella Galilea, nelle sinagoghe, sotto i portici, e nelle corti del tempio, tu sei venuto perfino a predicarcelo nelle sale del tesoro pubblico126. È ciò vero?
- Sì. Ma cosa avete voi detto quando il re Erode alzò dei templi ad Augusto, quando Antipas Erode alzò dei templi a Tiberio; quando alla sua volta furono alzati dei templi ad Erode stesso, e quando furono tutti ammessi come Dii?
- Le città ove sono stati commessi questi sacrilegi, sono greche, o romane: tu ti sei proclamato Dio nel tempio stesso di Iehovah. Come Ebrei, come fedeli alle leggi di Mosè, come dottori della legge, come sacerdoti del tempio, come anziani, come membri del sanhedrin, possiamo noi permettere simili profanazioni? Ora tu ci chiedi ciò che noi vogliamo e se siamo d'accordo per condannare la tua dottrina.
- Ve lo chiedo ancora.
- Io ti rispondo. Siamo credenti e cittadini. Come credenti, i principî che ci separano sono rari, quantunque non fossimo d'accordo sopra diversi particolari della dottrina. Ma queste sono piccole varianti di zelo; sono pratiche del culto; interpretazioni della legge; è il progresso stesso di questa legge nei suoi rapporti col tempo, ed i cangiamenti che vi hanno apportato le nostre disgrazie, ed i nostri successi; è l'importazione di alcuni principii che i nostri fratelli di Babilonia, d'Egitto, della Grecia hanno richiesto onde far concordare la legge e la scienza; è il rigore degli Esseniani, o la troppa tolleranza dei Sadducei.... Ma tutto ciò non cangia punto il carattere del nostro patto, e le leggi organiche della nostra fede. Tu sei esseniano nel fondo; ma fossi tu sadduceo come Hannah, o fariseo come me, noi vivremmo sempre in pace nella stessa città, pregheremmo allo stesso altare, insegneremmo dalla stessa cattedra. Il Tempio e la sinagoga sono abbastanza grandi per abbracciare queste gradazioni, ed abbastanza illuminati per tollerarne le differenze. Noi siamo adunque d'accordo quanto basta per dirti unanimemente: tu bestemmii.
- Lo siete pure come cittadini?
- Meglio ancora.
- Eppure io credeva che il Sadduceo volesse restar attaccato al testo della legge di Mosè ed alla giustizia, ch'egli respingesse le forme esterne del culto, le credenze riportate dall'Oriente, ed importate dall'Egitto e dalla Grecia - gli angeli, lo spirito, la resurrezione; - ch'egli limitasse alla tomba il patto di Dio col suo popolo; mentre il Fariseo ammette la legge orale all'istesso titolo che il Pentateuco, sviluppa secondo i tempi la legge di Mosè e l'adatta alle circostanze, lascia allo spirito una estrema libertà per interpretarla, ordina delle pratiche esterne, onde salvare dal naufragio la nazione e la legge, fa pompa di zelo, si adorna di filacteri, pone ai suoi vestiti una lista rossa più larga degli altri, per distinguersi dai Greci e dagli Arabi, crede alla risurrezione, ed alla giustizia dopo la morte, secondo le opere.
- Sia pure. Ma queste sono sempre dissidenze e non bestemmie.
- La legge che ammette delle dissidenze non è più la legge. Poi, io pensava che il Sadduceo riconoscesse la libertà assoluta dell'uomo, contento della sua parte sulla terra, non domandando nè temendo nulla, al di là; mentre il Fariseo insegna che Dio agisce a traverso l'uomo, e che la libertà umana ha dei limiti naturali. Avevo sempre visto il Sadduceo poco ambizioso, rassegnato al dominio romano, amante delle scienze e delle arti coltivate in Grecia ed in Egitto, quantunque poco premuroso di vederle adottate nel suo paese, senza zelo, disprezzante la folla, amante lo straniero, inclinato ai piaceri, desideroso di esser in buona vista di Dio e di Cesare, conservatore, tollerante, indifferente; mentre il Fariseo usa di tutti i mezzi onde restare partito dominante, attende un messia, si barcamena fra le idee ed i partiti, soddisfa le esigenze straniere, carezza l'opposizione nazionale, fa rispettare la legge, nel tempo stesso che mantien desta nei cuori la speranza di una vicina liberazione, e non soffocando gl'istinti popolari e non si lasciando sommergere dagl'impazienti, prepara i mezzi di resistenza, e previene una catastrofe dall'Occidente, simile a quella che venne dall'Oriente, e che perdette i nostri padri.
- Sì, è vero. E poi?
- Poi? Voi siete dunque d'accordo altresì cogli Antiochiani che lavorano ad effettuare un compromesso fra il culto di Mosè ed il culto greco127; cogli Erodiani che vogliono farsi il tratto di unione fra il Moriah ed il Campidoglio, trovando che il messia è venuto, e che fu Erode, opponendosi all'insurrezione nazionale, e consigliandovi di pagare il tributo a Cesare?
- Ciò non è, ma fosse pure, tutto codesto non è un diniego della legge.
- Chi si scosta dalla legge, la nega. Voi siete dunque d'accordo col terapeuta che adora forse ancora quella regina cæli, che tiene una così grande parte nei misteri dei templi egizii e fenicii128, che si considera un cittadino più del cielo che di questo mondo, che abbandona i suoi beni, che personifica l'opera di Dio e la creazione a mo' degli Ebrei orientali, in un Adamo qualunque, che si affatica ad incarnare in una manifestazione reale i precetti dei libri sacri, che vive nell'isolamento, sobrio come la cicala che si nutre del suo canto monotono, mantenendo il silenzio, il più umile di loro essendo il più stimato; perocchè egli considera la schiavitù come contraria alla legge di natura, ed alla volontà di Dio?
- Ma chi, chi fra noi si chiama figlio di Dio, e Dio? Ecco la questione.
- Lo siete voi dunque? Ecco ancora la questione. Ma dite, dite, Sadducei, Farisei, Erodiani, Antiochiani, siete voi d'accordo con quei risanatori (terapeuti) e con quegli Esseniani, che hanno libri, dottrine, dogmi, misteri, una cabala propria che comunicano ai soli adepti secondo il grado d'iniziativa? Odiate voi pure la guerra e la servitù? adorate voi Dio nell'anima, e non con dei sacrifizii? praticate voi la comunità dei beni, la castità, il ritiro, la cura degli afflitti del corpo e dello spirito, studiando le virtù delle piante, delle terre, dei minerali, delle forze della creazione? istruite voi, vestite voi, nutrite voi dei fanciulli? proclamate voi l'immortalità dell'anima? inviate voi le vostre offerte al Tempio senza andarci voi stessi?
- Tutto ciò è nelle nostre dottrine.
- Sì, so bene che il vostro Hillel ha detto: Amate la pace, amate gli uomini, amate lo studio della legge; ma le vostre dottrine hanno esse come l'essenianismo la triplice base dell'amore di Dio, l'amore dell'uomo, l'amore della virtù? L'uomo è desso anche per voi sotto l'assoluto dominio di Dio? Credete voi la preghiera più necessaria che il sacrifizio, il combattimento ed il giuramento inutili? Ditemi, siete voi dunque tutti d'accordo come credenti e come cittadini? avete voi dunque abbandonato codesti principii che costituivano fino ad ora le vostre dissidenze? formate voi un solo corpo per respingere da voi una dottrina, che non accetta tutte le vostre, e giudicare l'uomo che l'insegna, come si giudicherebbe un traditore verso Dio e verso la natura?
- Rabbì, ancora una volta, non spostare l'accusa che noi portiamo contro te. Tu hai professato, puoi professare ancora le dottrine che meglio ti piacciono; nessuno ti metterà ostacolo. Ma tutto ci ordina di falciare dalla radice la pullulazione di nuovi dii. Le differenze che ci dividono, non colpiscono il cuore della legge. Te l'ho già detto: qualche grado di zelo più o meno nelle pratiche del culto, dei rigori di principii, alcuni cangiamenti di forma, un soffio di vita nuova ispirata qui da Zoroastro, là da Pitagora, altrove da Zenone; una rassegnazione al dominio straniero più o meno paziente, la dottrina della vita oltre la tomba.... tutto ciò non cangia per nulla l'unità del popolo di Dio, la cui missione è sempre stata la ricostituzione dell'unità umana. Tu invece vuoi separarci.
- Sì, lo voglio.
- Lo confessi. Infatti, noi sappiamo che tu hai detto ai tuoi discepoli: «Se alcuno non vi riceve o non ascolta le vostre parole, scuotete la polvere dai vostri piedi, partendo da quella casa o da quella città, ed io vi assicuro che saranno trattate con più severità che gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Poichè, non crediate che io sia venuto a portar la pace sulla terra. Io sono venuto a portar la spada, a metter il fuoco sulla terra: ed il mio desiderio è ch'essa bruci. Io porto la separazione, la divisione tra il figlio ed il padre, tra la figlia e la madre; i servitori d'un uomo saranno i suoi nemici; chiunque ama suo padre o sua madre più di me, suo figlio o sua figlia più di me, chi non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua stessa vita, non sarà mai mio discepolo»129.
- Io ho detto tutto ciò.
- Tu hai predicato queste selvaggie dottrine perchè tu ti sei alzato rimpetto a Iehovah come suo eguale per dare un nuovo patto al suo popolo. Ebbene, in presenza dello sconvolgimento del mondo politico che Roma ora compie, noi vogliamo conservare l'unità del mondo morale, per non essere completamente assorbiti.
- Sì, gridò con forza il Rabbì, io mi proclamo Dio130. Sì, io porto la separazione sulla terra. Sì, io porto un nuovo patto. Se il genere umano si componesse di uomini eletti come voi, la parte di Dio nel mondo, Dio stesso sarebbe superfluo. Ma io miro ai popoli. Ora, qual'è la legge che si è imposta ai popoli e che ha creato delle nazioni, che non abbia avuto l'aria di un'ispirazione di Dio? Mosè non si faceva egli dare le sue tavole da Dio stesso? Numa, che creò Roma, non si faceva egli soffiar le sue leggi da una potenza soprannaturale? Come Mosè e come Numa, io detto una nuova legge. Bisogna che Dio intervenga, e che Dio parli. Io porto una separazione nel mondo, ma gli è il mondo che io separo dalla vostra legge. Mosè vi aveva comandato di riconoscere lo straniero come fratello; voi ne avete fatto un impuro. Il pagano e l'ebreo erano figli dell'istesso Dio per Mosè; voi avete rigettato questo fratello come il delitto e la maledizione. Oggi Rachele, Zipporah, Ruth sarebbero maledette; Giuseppe che aveva sposata la figlia d'un prete egiziano, e Salomone la figlia d'un re d'Egitto, sarebbero espulsi dalle vostre sinagoghe. La vostra legge ha due pesi e due misure. Se il Siriaco perde il suo cammello131 non può reclamarlo all'Ebreo che lo ha trovato; e l'Ebreo può riprendere colla forza il suo, se l'ha perduto. Se l'Ebreo uccide un Greco, può cercare un asilo a Kedesh, a Sechem, a Hebron; se il Greco uccide un Ebreo, è considerato come degno di morte. Una simile legge è iniqua; io me ne separo. Vi porto un nuovo patto....
- Ma tu non hai insegnato un solo precetto che non sia stato ordinato avanti di te dai nostri padri della sapienza. Mosè, Antigone di Soco, Gesù figlio di Syrah, i profeti, Hillel, Schemaya, Abtalion, il Ietzira, il Zohar, il Battista, gli Esseniani, Giuda bar Bethyra, Jonathan bar Uziel... i nostri rabbini di Gerusalemme e di Alessandria, ed altrove Sakya-Muni, Joe, Confucio... tutti hanno proclamato prima di te, le leggi dell'amore e dell'eguaglianza. Qual è codesto nuovo patto che tu porti? Cosa c'insegni di nuovo?
- Niente. Ma gli altri hanno insegnato, io voglio praticare; gli altri hanno detto: Ciò è buono! io dico: ciò è dovere! Gli altri hanno detto: Credete; io dico: Fate.
- Piuttosto che dire: Fate! sarebbe meglio fare. Tu sei stato educato nella tua infanzia alle scuole esseniane che non fanno mostra d'insegnare, ma praticano. Tu hai veduto nella tua infanzia, nel tuo paese di Galilea, altri dottori che non hanno sprecato la loro voce a ripetere delle dottrine, ad ingiuriare altrui, ma che hanno agito: Giuda di Gamala ed i suoi adepti, i quali, per l'amor della patria, sono morti a migliaia a migliaia sul campo di battaglia e sulla croce. Ecco i dottori che noi veneriamo; ecco i messia che noi ammettiamo. Il mondo si rigenera per l'azione. Quando vediamo in Germania cadere Arminio, Sacrovir nelle Gallie, Tacfarinas nell'Africa, Giuda di Gamala in Galilea, tutti per istrappare il loro paese a questo abbominevole Polifemo di Roma che divora e digerisce popoli e nazioni132, noi non abbiamo neppure uno sguardo da gettare ai ribiascicatori di vecchie parabole. Se tu non avessi fatto che questo, non avresti ora l'onore di occupare l'attenzione del gran Consiglio, e dei partiti della Giudea. Ma tu hai un'altra ambizione; noi abbiamo un altro scopo.
- Ma, non mi avete voi mandato a cercare nella Galilea? Non mi avete voi invitato a venir a spiegare la mia opera in Gerusalemme?
- Noi abbiam mandato a chiedere un Giuda di Gamala, e non una melensa parodia di Osiride. Noi avevamo veduto che la bordaglia ti ascoltava, come la ascolta sempre queglino che attaccano l'ordine stabilito dei fatti e delle idee. Noi abbiamo creduto nostro dovere di legalizzare questa forza che commoveva il popolo, e farla convergere alla salvezza della nazione. Ma tu hai tentato d'isolarti; hai sconosciuto i sentimenti, le passioni, i bisogni dei tempi, l'istinto della nazione. Sull'altare che noi avevamo innalzato per un nuovo Giuda Maccabeo, tu hai provato di collocare te stesso sopra un Mosè postumo; e quando ti abbiamo chiesto: chi sei tu? e cosa vuoi? hai risposto con delle ingiurie, con degli equivoci, o con delle inezie che nulla spiegavano.... È d'uopo che ciò finisca. Roma ci spia, e diffida di codesti taumaturghi che si danno come figli di Dio, e figli di Davide, che eccitano le turbe, ed avvolgono i loro progetti nelle nuvole del regno di Dio. Ancora una volta, chi sei tu? cosa vuoi?
Il Rabbì di Nazareth stava per rispondere, allorchè Hannah tutto sconvolto ed esterrefatto entrò nella stanza. Egli si avvicinò a Caifas e gli disse di rientrare nel suo palazzo, poichè egli aveva veduto una grande folla innanzi la sua porta e sospettava che fosse succeduta qualche disgrazia.
Caifas uscì immediatamente. Allora Hannah ci disse che Bar Abbas aveva ucciso Justus, e che egli ignorava la causa di questo delitto.
Questa notizia produsse un istante di diversione alla discussione. Ma Hannah avendo preso il posto di Caifas, l'attenzione si riportò tosto sopra il Rabbì della Galilea, cui Gamaliel costringeva ad una rivelazione definitiva. Infatti il Rabbì, dopo essersi raccolto un istante, rispose:
- Io sono il figlio dell'uomo nel senso dei vostri profeti. Sono Ebreo. Il mio padre terrestre, carico di figliuoli e povero, mi confidò dall'infanzia alla sollecitudine degli Esseniani133. All'età di cinque anni, io apparteneva come ogni ebreo, alla legge. A dieci, fui iniziato ai regolamenti ed alle ordinanze. A tredici, io compivo i precetti come gli altri figli del popolo di Mosè. Avrei potuto ammogliarmi a diciotto o a vent'anni. Fui circonciso, presentato al Tempio, e ricevuto come figlio della legge. Portai la mia offerta al Tempio; osservai le feste e mangiai l'agnello pasquale come ogni altro individuo della Giudea. Frequentai la sinagoga, ove fui istruito, ove fui rischiarato sopra la legge; e come ogni altro compiuti i tredici anni, presentai i miei dubbi nelle discussioni pubbliche del Kaal (assemblea). Come Daniele, le mie osservazioni, a quell'età, furono rimarcate134. A trenta anni principiai come tutti i miei concittadini ad occuparmi dell'interpretazione della legge, della tradizione, e della cabala135. Nella mia infanzia ascoltai la voce dei miei maestri e di Menahem, che diceva: Amate; e la voce di Giuda il Golonite che diceva: Non più padroni; distruggete lo straniero. E vidi migliaia di questi figli della Galilea appesi alla croce dei Romani. Quando all'età prescritta dalla legge, io principiai l'insegnamento, il popolo che udì la mia parola, quelli che videro le mie opere, mi chiamarono figlio di Davide, messia, profeta, figlio di Dio, figlio unico di Dio... Essi l'avevano detto!
- E tu lo ripeti e lo confermi? disse Gamaliele.
- Il fatto rivela l'uomo, rispose il Rabbì. Voi trovate che la mia dottrina è stata insegnata prima di me? La verità è eterna: gli agenti di Dio possono dunque averla intravista. Ma questa parola dei miei predecessori è stata come la pioggia caduta sopra la pietra: è restata infeconda. Io sono in mezzo a voi come la pietra di paragone. Il cielo mi separa dai Sadducei; la terra dagli Esseniani; la nozione della patria, dai Goloniti; l'intelligenza della legge, dai Farisei. Voi tutti, giudicate l'atto; io, interrogo136 l'anima. Il vostro Dio non è il mio. Il vostro Iehovah è collerico, geloso, severo, e lungo nei suoi castighi; egli cammina nella tempesta; si manifesta con dei terremoti; scaccia Adamo; annega un mondo intero; distrugge popoli e città. Il mio è un padre; là ove il vostro punisce, egli perdona.
- Rabbì, Dio è lo stesso ovunque, o non è più Dio.
- Voi ve lo fabbricate a vostra similitudine. Mosè è il vostro legislatore. Egli è stato legislatore degli atti: io sono il legislatore delle anime. Voi proibite l'assassinio; io proibisco di più: la collera, e l'odio. Voi proibite l'adulterio: io proibisco più di ciò, il desiderio impuro. Voi proibite lo spergiuro: io proibisco l'istesso giuramento. Voi ponete come base del dritto il taglione; io pongo il perdono. Io vengo ad ordinarvi la carità, la riabilitazione del caduto, la mansuetudine. Voi avete degli schiavi; io vengo a ridirvi: gli uomini sono fratelli. Io predico la solidarietà umana; la glorificazione del debole e dell'abbietto: la supremazia dell'interno sull'esterno; la ricompensa dell'opera dopo la vita. Io ordino la communanza dei beni per mezzo della carità. Io vengo ad appianare la via del cielo che voi avete seminata di bronchi e sbarrata di abissi. Io riconosco la perfettibilità della legge, che voi avete cristallizzata nella durezza. Se Dio vede il cuore, a che le pratiche esterne del culto? Dio assorbe l'uomo. Voi arrestate il progresso crescente dell'opera e della dottrina di Mosè; io gli do l'impulsione della vita coll'amore e la libertà del cuore e dell'anima. Io aggiungo la fede al precetto; la passione alla sua propagazione. Io porto la libertà morale.
- V'è bisogno d'un Dio per ciò?
- Sì; Dio solo può ciò. Dio purificato dalla sua paternità, si allarga, si stende, penetra ovunque. Io sono la coscienza di Dio, e ve lo rivelo. Io predico il regno di Dio, il regno dell'amore, della paternità di Dio, che aspira il mondo nel suo alito di benedizione, di bontà, di perdono. Non più intermediarii fra l'uomo e Dio. Il mio culto è quello della purezza del cuore, della fraternità, della reciprocità umana, della dolcezza. Io porto la calma interna. Voi vi preoccupate dell'eccezione: io guardo l'universalità. Voi appoggiate la piramide dell'umanità sulla punta; io la pianto sulla base. Voi considerate le classi: io innalzo il popolo. Ed ora, se la legge nuova che io proclamo, non per gli Ebrei soltanto, ma per il mondo, è un delitto, io sono colpevole.
Queste parole del Rabbì furono seguite da un profondo silenzio. Esse avevano colpito la commissione. Gamaliele però, che sembrava il più pensieroso, rispose:
- Rabbì, bisognerebbe anzi tutto metterti d'accordo con te stesso e fissare la tua dottrina. Un giorno tu dici che sei la spada, il fuoco, che porti la divisione nel mondo; all'indomani ti proclami il servo il più umile, l'agnello, l'apportatore del ramo d'ulivo, ed assicuri che il tuo giogo è soave. Un giorno tu chiami i Gentili ed i Samaritani cani e porci, un altro spalanchi per loro le porte del regno dei cieli, e degni fare per loro dei grossi miracoli. Un giorno accarezzi lo straniero come Mosè; all'indomani lo respingi come noi; lo fuggi. Tu eviti le sue città, dopo aver bevuto l'acqua alla giarra delle sue donne. Cosa vuoi dunque? Questa dottrina di circostanza, non ce ne impone. Israele non manca di dottori. Ma gli è questo forse ciò che ci occorre? Come! tu hai udito l'ardente parola di Giuda di Gamala, hai veduto i suoi compagni attaccati alla croce lungo le vie, vedi la guarnigione romana alla porta del Tempio del tuo Dio, che dico? di tuo Padre! e tu vieni a spacciarti come il Messia delle anime, il Cristo del perdono, ed unisci nell'istesso abbraccio, la vittima ed il carnefice? Come! quando un popolo intero attende col fremito dell'impazienza l'uomo che in nome di Dio lo chiami alla libertà ed alla indipendenza, tu osi dirgli: Hai torto, rendi a Cesare ciò che è di Cesare, obbedisci, taci; tu poni in ridicolo i Farisei, e tu condanni i Zeloti? E storni la corrente delle anime dalla patria, per sparpagliarle nel cielo? Come! quando questi Esseniani i cui principii sono contrarii alla guerra; quando questi Sadducei i cui interessi li invitano alla pace; quando questi Erodiani da cui la riconoscenza e la propria salvezza esigono la continuazione del dominio straniero sopra il suolo nazionale; quando tutti i partiti infine si sollevano, cingono una spada, proclamano giunta l'ora della risurrezione, tu vieni, chiamato da noi, tu vieni a dirci: Io sono Dio, e vi ordino di amare i Romani? Davvero, Rabbì, tu hai ragione: tu non sei di questo mondo, non sei di questo tempo, non sei di queste contrade! E noi dovremmo autorizzare il tuo apostolato della codardia, e permettere l'assassinio di questo popolo? Sì, il nostro Dio è il Dio di Mosè, il vendicatore, fino a che non avremo una famiglia. Egli sarà il padre, quando potremo chiamarci fratelli. Pilato, gli è dunque tuo fratello, o Rabbì? Rimetti nel fodero codeste tue dottrine, che sono quelle dei popoli liberi ed indipendenti. Esse non possono essere per noi: noi siamo gli schiavi dello straniero. Tu predichi l'uomo; noi cerchiamo dei cittadini. Tu ti atteggi a Cristo; noi cerchiamo un generale. Tu ti proclami Dio; noi abbiamo d'uopo di un tribuno che gridi al popolo: Sollevati, Dio lo vuole!
- Io non sono nulla di tutto ciò, gridò il Rabbì.
- Allora sei condannato, rispose Gamaliele.
- Voi volete dunque la guerra.
- Noi vogliamo che tu sii l'eco della nostra voce, il braccio della nostra volontà, la parola della nostra bocca: un uomo-strumento, e non un uomo-Dio.
- Eppure io sono l'uomo-Dio.
- Non spingerci ad esser severi, Rabbì.
- Mio Padre ordina, io obbedisco. Il mio sangue ricadrà sul vostro capo.
- Sia.
Un grido e uno strepito di lotta si fecero in questo momento udire dietro la porta del gabinetto che serviva di comunicazione fra questa stanza e l'appartamento segreto di Hannah. Questi si precipitò per vedere cosa accadesse, mentre noi restammo uniti, fortemente scossi dalle ultime parole del Rabbì.
Ma che avveniva dunque, dietro quel gabinetto?
Ida, accompagnata da Noah, si era recata alla pretesa chiamata di suo fratello, comunicatale da Bar Abbas. Le due giovani donne avevano trovato Bar Abbas alla porta. Egli aveva lasciato Noah nella corte, e condotta Ida nell'appartamento uccidi-pensieri, ove Hannah li attendeva, divorato d'ansietà. Alcuni minuti dopo, Justus venendo alla riunione, nel traversare la corte aveva scorta e riconosciuta Noah. Corse a lei. Noah gli raccontò come Gesù aveva chiamato sua sorella, e come Bar Abbas l'aveva condotta negli appartamenti del sagan, ove il Rabbì doveva incontrarla.
Justus sapeva già che il sagan ardeva di una passione frenetica per la giovine, e che Bar Abbas gliel'aveva venduta. Ora, egli l'amava non meno ardentemente del sagan, ed aveva vent'anni. Un lampo gli rischiarò lo spirito. Il sagan aveva appena indirizzato alcune parole alla giovinetta che Justus, il quale sapeva ove trovarlo, si presentò tutto trafelato, ed annunziò ad Hannah che Claudia lo richiedeva all'istante.
Se la bella e terribile Romana gli avesse domandato una libbra della sua carne, Hannah gliel'avrebbe forse accordata con meno rammarico, che quest'ora cui egli scorciava dalla sua vita per lei. Era impossibile però di rifiutarsi, od indugiare. Claudia non sapeva attendere. Era arrivata nella mattina, e d'altronde poteva avere a fargli qualche grave comunicazione, utile a conoscersi avanti di prendere una determinazione sul Rabbì di Nazareth. D'altra parte, Ida era ora in casa sua, in suo potere; valeva meglio trovarsi da solo a solo con lei, di notte, sbarazzato da ogni altra preoccupazione, e da quegli uomini che a due passi di distanza, decidevano del destino del loro paese.
Egli sospirò, e si decise ad obbedire.
Justus entrò dalla porta del gabinetto oscuro nella sala di riunione. Hannah pregò Ida di attendere il suo ritorno ed il momento di vedere suo fratello. Egli uscì dalla porta del giardino. Bar Abbas, che aveva consegnata sua nipote, ne aspettava il prezzo, nella stanza vicina - vestibolo che conduceva alla scala secreta.
Un quarto d'ora era appena passato dalla partenza di Hannah, quando Bar Abbas udì nella camera da letto del sagan, la voce di sua nipote, ed uno strepito di lotta, e di mobiglie rovesciate. Credendosi giuntato da Hannah, egli aprì la porta, ed entrò per impedire la deteriorazione della sua mercanzia, prima di averne palpato il prezzo. Restò stupidito. Invece di Hannah, vide Justus che stava compiendo la più odiosa violenza sopra la fanciulla, che si dibatteva eroicamente. Preso pel collo da Bar Abbas, Justus gli diede un colpo di pugnale. Ma vedendo alla sua volta luccicare sul suo capo il coltello di Bar Abbas, fuggì. Bar Abbas, colpito soltanto nel mantello, lo inseguì a traverso il vestibolo, lungo la scala secreta, nella corte, fuori della porta, e raggiuntolo nella strada lo freddò di botto con un colpo di coltello, che entrando dalla spalla, gli traversò il polmone. Justus cadde, senza profferir parola: ma dei soldati romani che passavano, arrestarono Bar Abbas e lo tradussero al pretorio.
Ida, restata sola, spaventata, lacerata, vergognosa, non sospettando punto dei progetti del sagan, nel quale non scorgeva anzi che un protettore, temendo di restare in quella stanza, perdendo il capo, stravolta, aprì la porta del gabinetto. In quel momento la voce di suo fratello dalla stanza vicina la colpì. Ogni suo sospetto si dissipò. Si rannicchiò nel gabinetto oscuro, ed ascoltò, aspettando la fine.
Nel frattempo, Hannah si presentava a Claudia. Ella non l'aveva fatto chiamare, ma mostrò piacere di vederlo. Il sagan le raccontò ciò ch'era avvenuto dopo la partenza di lei, e le disse che doveva lasciarla per assistere all'interrogatorio di Gesù.
- Vengo teco, sclamò Claudia.
- È impossibile, rispose il sagan; le nostre leggi proibiscono che una donna, una straniera, assista alle deliberazioni del consiglio delegato dal sanhedrin.
- Da quando in qua, sagan, objettò Claudia, le leggi sono state un ostacolo alla curiosità di una donna? Io voglio vedere, ascoltare, sapere, e decidere da me stessa. Volevo appunto provocare codesta deliberazione, e dare le mie disposizioni. Sono contenta che ciò si trovi fatto più presto che io non pensava.
Tutte le scuse, tutti i dubbi, tutte le difficoltà del sagan non riescirono che ad infiammare il desiderio di Claudia, ed a svegliare i suoi sospetti. Bisognò cedere. Soltanto ella acconsentì ad ascoltare senza vedere, ed Hannah la condusse per la porta segreta del giardino e pel piccolo andito, al gabinetto oscuro ove stava Ida.
Per via egli aveva appreso la sorte di Justus.
Ida, udendo la voce del sagan nell'andito, ebbe vergogna di lasciarsi sorprendere, origliando alle porte. Uscì dunque immediatamente dal gabinetto, ove Claudia s'installava e passando pel quale Hannah entrava nella sala ove noi eravamo col Rabbì e Gamaliel, chiudendo la porta. Il sagan non aveva traversato il suo piccolo appartamento per non svelare a Claudia la presenza d'Ida. Questa aspettò un momento, restò un istante alle scolte, e non udendo più nulla cedette all'invincibile interesse che le ispiravano le mortali lotte di suo fratello col gran Consiglio, e s'insinuò di nuovo nel gabinetto. Claudia vide entrare in quella oscurità un'altra persona e non si mosse. Ma quando il Rabbì ebbe detta la sua ultima parola, quando Gamaliele rivelò la cospirazione contro i Romani, che covava in tutta la Palestina, Claudia pensò che quella persona misteriosa, sopraggiunta lì, a fianco di lei, ne sapeva di già troppo. All'ultima frase del Rabbì, un grido soffocato, o piuttosto un sospiro prolungato sfuggì dal petto della fanciulla. Claudia allora l'afferrò pel braccio e le dimandò:
- Chi sei tu?
- Ah! mi fai male, gridò la sorella di Gesù.
Claudia si ricordò quella voce, e aprendo la porta dell'andito, trascinò seco Ida, e la riconobbe.
- Sei ancora tu? ruggì la terribile romana. Per chi sei tu qui? perchè tremi tu?
Ida perdette la testa. Vedendo quel viso pallido dall'emozione, quelle labbra tremanti, quegli occhi fiammeggianti ribaditi su lei, la Galilea si sentì svenire. Poi senza sapere ciò che dicesse, credendo addolcire la collera di quella donna la cui mano le bruciava la midolla delle ossa, rispose:
- Per Pilato.
- Muori allora, gridò Claudia, cavando dalle sue treccie il suo terribile spillone.
Hannah fermò il braccio omicida. Ida si sottrasse alla stretta di Claudia, e vedendo aperta la porta del giardino fuggì. Una spiegazione corta, netta, cruda, irrevocabile, ebbe luogo all'istante fra Claudia ed il sagan.
- Spezzatemi codest'uomo, gridò Claudia, parlando di Gesù.
- Ma noi l'abbiamo chiamato, gli abbiamo preparato la strada, l'abbiamo alzato nell'anima della folla...
- Ne avevamo bisogno allora; ora è inutile.
- Occorrono però dei riguardi....
- Nessuno.
- Il consiglio non l'ha ancora giudicato, esso non ha ancora deciso....
- Ho giudicato e deciso io. Schiacciatelo.
- Bisogna ucciderlo allora.
- Che lo si uccida.
- Ma il movimento che abbiamo provocato?
- Esso m'è inutile oggimai: soffocatelo, o Pilato lo soffocherà nel sangue.
- Bisogna dunque spegnere quest'anima del popolo che avevamo risvegliata?
- Sull'istante, se si può.
- È irrevocabile?
- Inesorabile.
- Tu rinunzi dunque a tutte le visioni così dolcemente carezzate?
- Ne carezzo una più dolce ancora: Ponzio mi ama ed io l'amo.
- Era dunque per questo che...
- Che? credevi forse ch'e' fosse per te e per i tuoi Ebrei?
Hannah vedeva chiaro alla fine. Entrò precipitosamente nella sala ove noi eravamo, esitanti su ciò che dovessimo fare, sulla condotta che avevamo a tenere verso il Rabbì. Hannah ci ascoltò appena, poscia sclamò:
- «Una parte considerevole del popolo crede senza esitare a tutti coloro che gli promettono la liberazione, e che si autorizzano di pretesi segni o miracoli. Che il Consiglio si mostri dunque attento e risoluto, imperciocchè, se noi lasciamo fare, i Romani che guatano l'occasione, che sono preparati, verranno e distruggeranno la città, il Tempio, la nazione intera. Per quanto rigorosa sia tale necessità, vale meglio che un capo ribelle, che un uomo solo perisca, anzi che il popolo d'Israele tutto intero137».
XXIX
Lasciando la casa di Hannah, il Rabbì di Nazareth erasi recato da me. Un sentimento di delicatezza lo allontanava ormai da Bethania. Lazzaro, spaventato delle conseguenze di un interrogatorio al quale gli agenti del sanhedrin l'invitavano, per ispiegare la sua singolare guarigione, era sparito, consigliato forse dalle sue sorelle, le quali temevano lo scandalo a proposito del seppellimento precipitoso del loro fratello. Si affaticavano esse a dare una tinta miracolosa alla scena di Lazzaro. Il sanhedrin usava del suo diritto andando al fondo delle cose.
Io aveva avuto un colloquio con Hannah, dopo che tutti erano partiti, ed egli mi aveva raccontato ciò che fra lui e Claudia era intervenuto. Avevamo quindi fisso il piano di condotta definitiva che le circostanze c'imponevano.
Claudia, con una parola, distruggeva i nostri progetti, o piuttosto li aggiornava. Essa cangiava in un intrigo di palazzo il movimento di rigenerazione, che noi avevamo lentamente elaborato, preparato, maturato e condotto alla vigilia di manifestarsi alla luce del sole.
Il Rabbì, che doveva essere una forza impulsiva, diveniva inevitabilmente una vittima, sia che indietreggiasse, sia che avanzasse.
Rinnovai in quella sera i miei sforzi appo di lui, onde deciderlo ad abbandonar la partita per il momento e ad allontanarsi da Gerusalemme. Gli dissi tutto quello che l'amicizia mi consigliava. Gli dichiarai francamente ciò che il mio dovere di cittadino mi imponeva. Non gli nascosi che le truppe romane ci circondavano e riempivano le fortezze Antonia, Mariamne, Phasaelus e David; che nuove legioni accampavano a poca distanza dalla città; che Pilato sapeva tutto, e spiava il momento per schiacciarci; che Pomponius Flaccus desiderava una rivoluzione nella Palestina, onde estirparne gli ebrei agitatori, e ridur tutti alla mendicità. Gli dissi che Hannah andava a dar contrordine ai cittadini di Sion, i quali dovevano principiare il movimento nel giorno del paschah, che Jehu andava ad imporre la calma agli Esseniani; che Menahem annunziava di già ai suoi, che l'affare era rimesso ad138 altra epoca; che io stesso doveva recarmi da Antipas, all'indomani al suo arrivo, e consigliargli di far restare nel fodero le spade dei suoi Galilei... Non gli nascosi nulla; gli parlai da fratello, come parla un uomo che conosce il mondo ad un uomo che lo conosce male, un uomo calmo ad un esaltato. Non riescii a nulla.
Avverso sempre alla parte di Messia bellicoso, l'unica che in quel tempo potesse avere un senso ed una probabilità di successo, il Rabbì s'inebbriava di fede nella sua parte di rigeneratore della legge. Ci opponeva sempre il suo delirio dell'annientamento, dell'assorbimento del popolo in un delegato o vicario di Dio - a noi, classi nobili, classi ricche, classi sacre, che volevamo una repubblica oligarchica! Carezzava la visione d'essere una specie di Faraone sacro sotto l'immanenza di Dio. Voleva abbattere la gerarchia del Tempio e degli ordini sociali. Noi, invece, volevamo innalzar tutto ciò a potere supremo - autorità nell'alto, libertà nel basso, e non più Romani; mentre il Rabbì non sdegnava di dare al suo Dio umanizzato la guardia di Cesare. Gesù mi ascoltò attentamente. Ma, o non mi credette, o gli sembrò opportuno di emanciparsi completamente da noi. Forse egli confidò nelle sue proprie forze, o gli parve che fosse troppo tardi per dare addietro, o contò sopra un concorso imprevisto, incognito a noi. Comunque sia, la sera egli diè ordine ai suoi discepoli di sobillare le masse, ed intrattenere nelle idee della rivolta i Galilei ed i provinciali che venivano alla festa. Egli poi partì la stessa notte, solo per andar incontro alle carovane della Galilea e della Perea che si recavano a Gerusalemme per la via del Giordano. I suoi discepoli che si consideravano già come assisi su quei dodici troni delle tribù d'Israello cui Gesù aveva loro promesso, lo incoraggiarono nella sua ostinazione. Il mio buon senso sembrava loro una viltà. Esaurii il resto di ragioni che la conoscenza degli uomini e delle cose mi suggeriva, poi li abbandonai al loro destino, preoccupandomi soltanto ormai di attenuare la loro caduta, senza venir meno ai miei doveri di cittadino.
Debbo soggiungere che avendo incontrato Noah nella corte di Hannah, ed avendo appreso che Ida era dal sagan, l'avevamo cercata, l'avevamo trovata in una via recondita dietro il giardino, e che l'avevo alla perfine decisa ad accettare un ricovero momentaneo nella casa un dì abitata da Maria, ed ora vuota, onde sottrarla agli attentati ad alle ricerche di Claudia, la quale, vedendosela sfuggire, le aveva gridato dietro:
- Ti ritroverò!
La sera seguente, Antipas e la sua corte arrivarono nel bel palazzo del sobborgo di Bezetha. Egli sembrò incantato di vedermi; imperciocchè con me e' si spogliava della sua maestà e diveniva un allegro compare. E' si affrettò a mostrarmi i suoi pappagalli, le sue scimmie, i suoi nani, le dotte bestie che aveva acquistate dopo la mia ultima visita a Tiberiade, e che conduceva seco, mescolati tutti insieme, querelandosi continuamente e stuzzicandosi reciprocamente.
- Quando avrò annesso la Giudea e la Samaria alla mia tetrarchia, diss'egli, allogherò tutte queste curiosità nella fortezza Antonia, ed i miei sudditi andranno a vederle. Bisogna pur far qualche cosa per il popolo, al postutto.
- Qualche volta, non sempre osservai io: ciò gli darebbe delle cattive abitudini.
- Inoltre, Giuda, continuò egli, sono innamorato pazzo della figlia di mia moglie. Dal giorno che quella piccina alzò il suo piede al livello del mio naso, io ho le traveggole e non ci vedo che stelle. Quella povera Erodiade fa ciò che può e ciò che non può per distrarmi, non mi rifiuta nulla, si presterebbe a tutte le mie fantasie. Ma io le ripeto quel verso d'un poeta latino cui Ifide, il mio nuovo buffone, mi ha recitato: Teque, duos putas, uxor, habere cunnos139?
- Spero che Erodiade non comprenda il latino.
- Le donne sanno per istinto tutte le lingue. Ma vediamo, Giuda, ragazzo mio, parliamo un po' del regno di Davide. Codesto Davide mi umilia. Custodire capre, tirar pietre, far versi, suonar l'arpa, rapire delle donne, poi piangere sui loro baci... non è roba da re, codesta? Io sono il successore di Salomone. Io non fabbricherò un altro tempio al mio popolo; quello che abbiamo c'imbarazza di già mica male. Ma rallegrerò i miei sudditi regalandomi il doppio di mogli e di favorite, che non possedette il re della sapienza. Ti mostrerò che corona mi son fatta preparare e che mantello reale. Io invero, mi vi trovo molto ridicolo. Ma darò ordine al mio popolo di trovarmi sublime; e vedremo. Che diavolo! si ha un popolo alla fin fine per fargli fare ciò che si vuole. Che ne pensi tu?
- Esattamente ciò che ne pensi tu, principe mio.
- Ho anticipato di tre giorni il mio arrivo qui perchè desidero mostrarmi al mio popolo. Ho studiato diverse pose le più favorevoli alla mia persona; ma non sono ancora fisso nella scelta. Il mio damo Teseo vorrebbe che mi mostrassi a tavola. L'idea mi seduce. Vi sto molto bene. Poi ciò indica l'abbondanza, ciò dà pazienza al popolo che ha fame. Bisogna pure aspettare che il suo re abbia pranzato, che abbia digerito... diamine!...
- E contentarsi dei resti, se ne resta. Parli d'oro, o principe.
- Gli è precisamente ciò che mi dice il mio liberto Pallas. Ma, un'idea! Qui, non ci sono che io che mi abbia delle idee. E il tuo Rabbì di Nazareth? Egli non accettò la mia intimazione di venire alla casa Dorata. Codesta gente a parole ha sempre delle fantasie stralunate. Ciò non pertanto, se ha lavorato per me, bisogna bene che lo incoraggi. Che posso fare per lui? Ci pensavo per via. Lo nominerò mio fattore ordinario di miracoli, per cullare allegramente i miei riposi.
- Non hai d'uopo di far nulla, principe. Questo ingrato, questo grullo ha preso la strada falsa. Egli ha rifiutato di servirci.
- Codesti Rabbì sono tutti gli stessi: incorreggibili! Giuda, figliuolo mio, ricordami di proclamare, un di questi giorni, che, nel mio regno, è proibito di pensare. Pensare, è cosa malsana per un popolo. La gente che vaneggia, che si nutrisce male, è intrattabile. Ti devi ricordare di quel Giovanni che si rimpinzava di radici e di grilli. Che ritorni in Galilea il tuo Rabbì, allora: lo farò alloggiare nella gabbia delle scimmie.
- Infrattanto bisogna fare ancor meglio, principe mio: bisogna ordinare ai tuoi sudditi di restar tranquilli, di mangiar sobriamente il loro agnello, e ritornarsene in Galilea. La danza che tu sai è aggiornata all'anno prossimo. Pilato fa suonare una certa ridda ai suoi musici che irrigidisce le gambe. Il Romano sa tutto.
- Malannaggia! Ci saria del pericolo per me qui? Rifletti, Giuda, che al mio ritorno il mio istrione Agesilao deve recitare una nuova tragedia di Eschilo.
- Pilato non oserà intraprendere nulla se non gli si dà l'occasione. Ma bisogna ordinare alle tue genti che venivano preparate per un festino di spade, di rassegnarsi ad aspettare un'ora più propizia. Qualunque cosa accada, che restino impassibili. Credo che il Rabbì di Nazareth li farà provocare....
- Che vi si freghi, che vi si freghi codesto gnocco che ha disdegnato di venire a divertirmi un po' alla Casa Dorata.
- L'è dunque inteso. I nostri progetti sono tutti rimessi all'anno venturo. Pilato ne circonda colle sue legioni, come gli ardiglioni avviluppano l'istrice.
- Eppure! questo ritardo mi secca. Avevo progettato di far danzare Salomè140 dinanzi al sanhedrin. Volevo dare al popolo di Gerusalemme lo spettacolo di una balena meccanica che inghiotte un Giona maschio e rece un Giona femmina, che pappa un Giona femmina e depone un Giona maschio. Que' piccoli mariuoli, che cantavano così bene ora l'inno in mio onore, sono capaci di trovarsi rauchi l'anno venturo. Avevo fatto comperare per la mia entrata in Gerusalemme la corazza autentica che Giulio Cesare portò nel suo trionfo, dopo Farsalia. L'anno venturo avrò preso dell'adipe e non potrò più metterla: di già la mi pigia le costole. Che diavolo farò delle cinquecento volpi che volevo porre in libertà nella corte dei Gentili del Tempio, perchè portassero al deserto la notizia della mia esaltazione al trono di Salomone? Ma poichè la dev'essere così.... Cenerai meco questa sera, Giuda. Voglio la tua opinione sur un pasticcio che il mio cuoco babilonese ha inventato testè. Ho dei dubbi pel capo che questo scienziato mi dia a mangiare i miei nani disossati. Me ne manca sempre qualcuno, e mi dicono che sono le scimmie che l'hanno divorato.
Per non desolare Antipas, cenai con lui guardandomi bene, ad ogni modo, di gustare quel suo pasticcio sì sospetto. Partendo però, mi assicurai che ai suoi impazienti giovanotti, i quali, secondo la promessa, venivano per battersi, avesse dato l'ordine positivo di restar tranquilli per questa volta, e di non cedere ad alcuna seduzione da qualunque parte loro venisse. Hannah, Jehu, Menahem passarono la stessa parola d'ordine, e la fu ventura.
L'arrivo degli stranieri per la festa principiò all'indomani.
Il paschah era stato fondato in commemorazione della partenza degli Ebrei dall'Egitto. La notte in cui l'angelo del Signore doveva fare il giro e macellare in Menfi il primogenito degli uomini e delle bestie, ogni ebreo aveva ricevuto l'avviso di scegliere un capriolo od un agnello, maschio e senza macchia, di ucciderlo e di tingere del suo sangue con l'issopo la soglia della porta; di arrostire la vittima, e sul cader della notte riunirsi tutti, maschi e femmine, gli abiti succinti, i sandali legati, pronti a mettersi in cammino, prendendo in fretta un pezzo della carne arrostita, del pane azzimo e delle erbe amare. Dopo quella fuga dall'Egitto, ogni ebreo, in qualunque punto della terra si trovasse, ha osservato questo anniversario. Chiunque lo poteva, doveva recarsi al Tempio in Gerusalemme, uccidervi un agnello e pagare la decima ai preti.
Gerusalemme traboccava quindi di forastieri e di provinciali dall'8 di Nisan fino al 24.
Non vi si veniva soltanto per compiere un atto di pietà ma altresì per farvi degli affari. La fiera soppannava la festa. Vi si vendevano derrate, si prendeva a prestito denaro, si scambiavano i prodotti, si combinavano matrimonii, si rendeva o si pagava ciò che s'era mutuato o comperato l'anno precedente; e chi non aveva nè devozione da soddisfare, nè mercanzia da trafficare, veniva per divertirsi. La folla attirava d'ogni parte i giuocolieri, le cortigiane, gl'istrioni, i giuocatori, gli oziosi: si offriva e si comperava il piacere, il lusso, il divertimento - musica, ballo e salmi inclusi. Tutte le case di Gerusalemme si riempivano di ospiti o di avventori. Le pubbliche piazze rassomigliavano ad accampamenti. Le alture che circondano Gerusalemme si coprivano di tende e di capanne fatte di rami; uomini, donne, ragazzi, fanciulle, bestie cornute e bestie da soma, si mescolavano e fraternizzavano. Le ombre della notte nascondevano i misteri più strani, più dolci, più inaspettati. I Galilei si riunivano sul monte degli Ulivi. I viaggiatori del piano di Sharon si attendavano sul monte Gihon. I pellegrini di Hebron occupavano la pianura di Rephaim. Altri piacevansi far capannelli in altri punti. Tutto il mondo giudeo si accalcava intorno al Moriah, ed aveva gli occhi rivolti al Tempio - questo cuore della forte razza ebraica, che fu l'ultima cui Roma spezzò.
I pagani, greci o latini, si recavano anch'essi al paschah, ma per godere dello spettacolo di tutti questi viaggiatori - felice diversione alla monotonia abituale delle nostre città, ove le feste ed i divertimenti erano così rari.
I discepoli del Rabbì avevano influenzato i Galilei. Questi provinciali si piacevan bene a tartassare nel loro contado il Rabbì, ma malgrado tutto, essi ringalluzzavano di vederlo brillare a Gerusalemme. Non sembrava lor vero di far mentire il ribobolo: «Cosa può venire di buono dalla Galilea?» Il Rabbì poi era andato incontro alla carovana che, partendo dalla Perea e dalla Traconitide, paese popolato dai discepoli del Battista, e da altri siti, preferiva la via più lunga e meno sicura del Giordano e delle gole di Gerico, a quella della Samaria, paese da pagani, piamente odiato. Il Rabbì s'era mischiato ai suoi compatriotti, accarezzando i fanciulli, dicendo una saggia parola ai vegliardi, una dolce parola alle donne.
I ricchi viaggiavano sui muli, i poveri sugli asini, le donne sui cammelli, l'uomo di guerra e di governo a cavallo. Il Rabbì, a mo' dei più poveri, viaggiava a piedi. Ma bentosto e' si addomesticò con tutti, ed attirò a sè tutte le simpatie. Quando egli arrivò sulla cima del monte degli Ulivi, l'8 di nisan (sabato 28 marzo), i suoi discepoli, che avevano già data l'imbeccata alle loro conoscenze di Gennezareth, gli andarono incontro con vive grida, e gli resero conto del risultato delle loro pratiche. Il Rabbì parve contento e rassicurato. Lo era egli veramente? Ne dubito. Perocchè egli che metteva come idea madre della sua dottrina l'elevazione della plebe, la disprezzava forte, o piuttosto ne aveva una pietà vicina al disdegno. Non contava dunque su lei. E' non rinunziava però ai benefizi dell'imprevisto, della versatilità delle masse, di un caso fortunato. Laonde e' si ostinò più che mai a tentare un colpo di mano, un colpo di stato contro lo statu quo di Gerusalemme141. Si passò la notte a preparare un entusiasmo spontaneo che doveva scoppiare a punto fisso, all'ora determinata, quando i nuovi arrivati si recherebbero al Tempio l'indomani.
L'indomani infatti, due o tre ore dopo il levare del sole, il Rabbì in mezzo ad un gruppo amico di discepoli e di partigiani del Battista, si mise in cammino.
Questa compagnia aveva qualcosa di così solenne, di così specifico, un aspetto così determinato e così misterioso nell'istesso tempo, che colpì tutte le menti. Gli indifferenti le tennero dietro dicendo: Andiamo a vedere. Svoltando la cima del monte degli Ulivi, la città di Gerusalemme si offrì142 ai loro sguardi. Il sole la bagnava interamente. Un cielo puro come una goccia d'acqua della fontana di Siloam la copriva; un aer caldo l'avviluppava. La primavera circolava già nelle viscere della natura. Gli uccelli cantavano e gorgheggiavano. I fiori si aprivano. L'albero si pavesava di un ricco adornamento per la danza dell'amore, di foglie e fiori. La mammola arrischiava la sua umiltà, affacciandosi timidamente fuori del suo cespuglio. Gli insetti svolazzavano nell'aria come gli sprazzi di un arcobaleno polverizzato. Tutto era bello, era soave, era ricco. La vita sbocciava e si schiudeva all'impazzata. Rimpetto, il Sion ed il Moriah sfrangiavano, tagliavano l'azzurro143 del cielo, circondati, trincerati dai burroni dei Gihon, dell'Hinnom, di Giosafatte. Lo strepito confuso della vita come il mormorio d'uno sciame d'api, arrivava fino a loro. Intorno alla città in festa, un accampamento improvvisato, esso pure in festa, agitato da movimento febbrile. Ai loro piedi il letto del Cedron secco, pietroso, trascinantesi sopra uno strato di sabbia bianca e rosea traverso i giardini, le tombe, le nude roccie, gli speroni della montagna, taglianti il deserto fino al mare Asfaltide. Quel filo di acqua non mormorava; la frana era cupa; i fianchi delle roccie erano scarni. A mezza via dal monte degli Ulivi al Cedron, la piccola masseria di Gethsemani. Affatto in giù ove il letto del torrente s'apre e sbadiglia, un tappeto di verdura, la fontana di Siloam sì spopolata e le sue torri cadenti.
Al di là della triste vallata, si rizzava la collina di Moriah, coperta dal Tempio, e dirupata - muro di marmo di cui da lungi si potevano contare i massi di pietra enormi, mossi dalla volontà di Salomone, livellati dal genio Tiriano, rialzati in fretta da Nehemia, colonne di porfido e di serpentino, capitelli di bronzo, il tutto coronato dall'edifizio di Erode il Grande. Di fronte i portici di Salomone sui quali colonne di marmo sopra colonne di marmo, la corte dei Gentili, la corte degli Israeliti, la corte delle donne, la corte dei preti, e, come guglia di queste terrazze a gradini, il Tempio, il Santo dei Santi col suo frontone ed i suoi tetti laminati d'oro.
Alla diritta del Tempio, unita alle sue corti da una colonnata, torreggiava la fortezza Antonia, centro della vita e della forza romana, aggrottando il ciglio, spiando il Tempio, e tenendo mezza città sotto il suo corruccio. Più lungi, alla diritta dell'Antonia, sulla stessa sommità della collina dei santi monumenti, ma separato da un fosso naturale, e da mura non compiute, il bel sobborgo di Bezetha, popolato di giardini, di palazzi, di monumenti, in mezzo ai quali splendeva il palazzo di Antipas.
Ai lembi di questo primo piano della città si abbassava la valle dei mercanti che separa il Moriah da Sion, traversata dal ponte Zystus. Al di qua, il palazzo dei Maccabei; e sopra il Sion, più alto ancora del Tempio cui domina, la città di David colle sue vecchie mura, i suoi palazzi, le sue torri, la grande sinagoga, il palazzo di Erode - ora pretorio, - il palazzo di Caifa e di Hannah, le torri d'Ippicus, di Phasælus, di Mariamne; e più lungi ancora l'alta fronte del monte Gareb - uno spicchio di giardini, di brughiere e di tombe.
Questo panorama incantevole e formidabile schierandosi di un tratto dinanzi la vista del Rabbì, che lo considerava ora con altri occhi, lo agghiadò e lo fece impallidire.
- Tutto ciò, fra pochi minuti, o sarà mio, o mi schiaccerà! pensava egli. Ciò mi attira come il mio abisso, o come il mio cielo.
Affrettando il passo, egli principiò a discendere precedendo tutti. Quella stessa vista esaltava anche i suoi discepoli i quali toccavano già della mano la loro preda. Già alcune grida scoppiettavano qua e là. I desiderii cominciarono a ribollire. I più ardenti tagliavano dei rami d'alberi, ed intuonavano dei canti.
Il gruppo ingrossava: il contatto raddoppia la speranza, e dà coraggio all'arditezza. E si avanzavano sempre. Ma alle falde della montagna, alla porta quasi della città, quando il dramma toccava al suo apogeo, sembrò al Rabbì che egli non potesse presentarsi alla testa di quella turba come se la conducesse egli stesso, simile ad un capo di rivoltosi, o ad un porta-bandiera a piedi di un manipolo di contadini. Rizzato sopra una cavalcatura, l'effetto, il significato, la posizione cangerebbero.
- Andate a cercarmi un cavallo, disse egli ai suoi discepoli.
All'istante, Simone e Giovanni si mossero.
Presso la zona del muro orientale della città vi era un podere ed un giardino che si chiamava Bethfagè, con una casa e dei coltivatori. Ogni benestante in Giudea possiede per lo meno un asino. Simone non trovò un cavallo, ma trovò meglio che un cavallo, un'asina ed il suo piccolo. Dimandò al coltivatore di prestargliela; e questi avendo appreso di che si trattasse, prestò l'asina e seguì il corteggio.
Il Rabbì portava ordinariamente la tunica bianca degli Esseniani, ed un mantello azzurro con le onde dell'Asfaltide. Egli era lindo, accurato, civettuolo ed aveva un gran rispetto della sua persona. I suoi discepoli indossavano i colori amati dai Galilei, la tunica bruna o celeste, il mantello ciliegio, color feccia di vino o di robbia. Giovanni, bel giovane di diciotto a vent'anni, pieno di pretese, ricco, vanitoso, si pavoneggiava in un mantello color di robbia; Simone in un mantello feccia di vino. Tutti due si levarono i loro vestiti, e ne addobbarono l'asina. Gli altri discepoli fecero dei loro mantelli una specie di seggio sul quale intronarono il Rabbì. Maria di Magdala e le altre donne seguivano da lungi. Quando questi apparecchi furono finiti, si varcò la porta delle Acque.
Allora i discepoli principiarono a gridare:
- Osanna al figlio di Davide!
- Benedetto sia colui che viene in nome del Signore!
- Osanna al re d'Israello!144.
Erano già nella città.
Il sole segnava mezzogiorno nel cielo.
Gerusalemme aveva 80,000 abitanti. Era l'ora in cui gli affari finivano, in cui il popolo si riscaldava al sole per le vie, in cui si raccontavano gli avvenimenti del giorno e della vigilia, gli aneddoti del Tempio e del palazzo di Erode. Le strade affollate, le case ripiene, le piazze ingombre: tutto pareva favorevole all'impresa. Chi non avrebbe per sentimento, avrebbe seguito per curiosità; chi non si porrebbe alla finestra per applaudire, lo farebbe per vedere. La folla crea l'opera. Il Rabbì ed i suoi discepoli vi contavano.
Ahimè! il loro disinganno fu terribile.
Eccettuate alcune dozzine di biricchini, la folla restò fredda, ironica, motteggiatrice. Ebbero paura, ricordandosi la mischia per l'offerta? O deridevano l'impresa da campanile di quei provinciali? Od obbedivano alla parola d'ordine ricevuta? Fatto sta che nessuno si mise o restò alle finestre, nessuno si mosse, nessuno gridò, nessuno li seguì, nessuno chiese di che si trattasse - eccetto qualche straniero di Sidonia, di Tiro, degli Egiziani o dei Babilonesi - pagani insomma.
- Cosa è codesto? chiedevano costoro.
- Come! non sapete? sclamavano i discepoli: gli è Gesù, gli è il profeta di Nazareth in Galilea.
E si gridava più forte ancora:
- Osanna al figlio di Davide, osanna al re d'Israello!
Passando sul Zistus, incontrarono taluni di buon senso, i quali, vedendo quella misera dimostrazione, consigliarono:
- Rabbì, falli dunque tacere codesti sussurroni.
- Se essi si tacciono, rispose il Rabbì vivamente indispettito, grideranno le pietre.
Il fatto è che nè le pietre, nè gli uomini gridarono; e che il corteggio assottigliandosi di più in più, a misura che l'indifferenza o il motteggio lo colpivano, arrivò molto ridotto al Tempio. Là il coltivatore riprese la sua asina, i discepoli i loro abiti, i Galilei i loro affari, ed il Rabbì si stabilì sotto il portico di Salomone pronto a principiare un sermone.
Gli uditori non vennero.
Il Rabbì si trovò isolato. I suoi discepoli si sparpagliarono sconcertati, disingannati. Un'immensa tristezza piombò sull'anima del maestro. Egli lasciò il Tempio e si rifugiò sotto una qualche tenda in cima agli Ulivi, mormorando: «Dio mio, salvami da questa ora!»
Un'aspra battaglia si combattè la notte nello spirito del Rabbì. Lo scoraggiamento, l'esitazione, la sfiducia principiarono145, la collera vinse.
Fallito il colpo del dì precedente, all'indomani ne tentò un altro al Tempio.
Il Tempio, durante gli otto giorni che precedevano e seguivano la festa, rassomigliava ad un mercato. Qui, quelli che cambiavano la moneta romana in moneta sacra, agenti dei sacerdoti; là, dei mercanti di tortorelle e di piccioni; più lungi, dei venditori di agnelli e di capretti; altrove, due piccole botteghe di fior di farina e di olio. Tutto questo però limitato alla prima corte, detta dei Gentili, alla quale si scendeva per quattordici gradini. Su quel terreno neutro era permesso comperare e vendere. La corte dei Gentili era separata da quella degli Israeliti da tre file di gradini, ed una balaustrata ad altezza d'uomo, forata da diverse uscite. I mercanti non potevano varcare quella separazione. Accadeva nonpertanto talvolta che, in quei giorni di folla e d'ingombro, i sergenti del Tempio per ordine del gran sacerdote e del capitano lasciassero correre.
Nulla ostante il Tempio non appartenendo ai sacerdoti ma alla nazione, ogni Ebreo vi aveva diritto di polizia, e poteva far rispettare la legge ed i regolamenti.
Qualche poveri venditori di tortore, ed alcuni cambisti, spinti dalla folla cui lo spazio non poteva capire, avevano invaso un poco la corte degli Israeliti. Arrivando la mattina nel Tempio, con lo spirito esaltato ed il cuore esacerbato, il Rabbì osservò questi profanatori. Corse a loro e respingendoli bruscamente, li rigettò al di là della balaustrata, gridando:
- Toglietemi via codesto, e non fate un mercato della casa di mio Padre.
Quella povera gente, che non sapeva se egli avesse o no l'autorità di agire così, o che, sapendolo, riconosceva il suo torto, si ritirò. Ma dalla parte dei sacerdoti che soli si credevano padroni del sito, la sorpresa fu grande. Accorsero. Forse non sarebbero stati dispiacenti di vedere il popolo resistere e rispondere alla violenza con la collera. L'attitudine rassegnata di quei mercanti li sorprese più dell'atto del Rabbì. Allora il capitano del Tempio si limitò ad objettare tranquillamente:
- Con qual diritto agisci tu così? Sei forse Hannah? Sei Caifa? Sei Simeone? Chi sei tu? Chi ti ha data codesta missione?
- Mio Padre, rispose il Rabbì sempre più irritato. Questa è la casa di mio padre, e non la vostra. Distruggete questo Tempio fatto da mani umane, ed io lo riedifico entro tre giorni.
Uno scoppio di risa da un lato, un grido di furore dall'altro, accolsero questo gricciolo di Gesù.
Il capitano si contentò di rispondere freddamente ed in tuono di scherno:
- Si son messi quarantasei anni a costruire questo Tempio. Quanto tempo perduto, poichè tu l'avresti alzato in tre giorni.
Ora, il Rabbì aveva commesso il più impolitico atto della sua vita.
Fino allora, egli aveva offeso i partiti, i sacerdoti, la società ricca e potente. E' feriva adesso il popolo, nei poveri venditori di mercanzie sacre. Egli meditava di confondere i sacerdoti come gente che tirava partito da quella profanazione del Tempio. Il popolo prese l'insulto per proprio conto, e non perdonò mai più all'audace Rabbì. Egli aveva compiuto un fatto, e detto una parola, che avevano colmata la misura.
All'indomani, il sanhedrin si riunì da Caifa per prendere una risoluzione definitiva.
Malgrado ciò, mentre il gran consiglio lo giudicava senza appello, il Rabbì ritornava nel Tempio per continuare la sua polemica contro i Farisei.
Certo, i nostri profeti sono inesauribili in ricchezza di imagini, in parole insultanti, in ingiurie; ma il Rabbì raggiunse l'ideale nelle sue prediche del 10, 11 e 12 nisan. Egli ebbe però un bel fulminare, denigrare, deridere, la folla non lo circondava più. Il popolo non si accalcava più intorno a lui. Il soffitto scolpito dei portici di Salomone assorbiva le sue parole e non ne ripercoteva più l'eco.
Il sanhedrin aveva già emanato un altro ordine d'arresto contro di lui. S'indugiò non pertanto ancora ad eseguirlo, per sottoporre la sua condotta ad un nuovo esame.
Vi erano ormai due fatti capitali che gridavano contro di lui: «1.° Non solamente egli non rispettava il Sabato, ma si faceva eguale a Dio146; 2.° al suo entrare in Gerusalemme egli si era proclamato re dei Giudei, figlio di Davide147.».
Egli era dunque empio e ribelle, aveva offeso Dio e Cesare.
Il gran consiglio era responsabile davanti Dio della legge di Mosè, davanti Pilato dell'ordine pubblico.
Ora, giammai colpevole non si era presentato con due delitti così grandi, e con delitti così recisamente definiti e provati. La sentenza d'arresto fu pronunziata. Ma come la conseguenza del giudizio conduceva inesorabilmente ad una condanna capitale; come il primo articolo del simbolo fariseo suonava: Siate lenti nel giudicare (estote moram trahentes in judicio); come si pronunziavano sempre a malincuore quelle sentenze che obbligavano il senato a ricorrere all'autorità romana per farle eseguire: e' si metteva sempre un intervallo di ventiquattro ore fra la promulgazione della sentenza e la sua conferma che la rendeva definitiva. Il sanhedrin condannò dunque il Rabbì il terzo giorno, 11 nisan (martedì 31 marzo): ma esso si riunì di nuovo all'indomani, 12, onde dichiarare esecutorio il mandato. Nonostante il consiglio diede ordine di non precipitar nulla, prima perchè quegli uomini erano gente istruita e tollerante, poi perchè si voleva evitare l'occasione di un tumulto, arrestando un Rabbì abbastanza popolare, al momento in cui i suo compatriotti occupavano la città in sì gran numero.
Io ricevetti comunicazione della sentenza dal sagan, e mi recai dal Rabbì onde istruirlo del fatto, e scongiurarlo ancora una volta di allontanarsi. Egli era ancor libero di ritornare in Galilea o in Perea, di andare dovunque e' volesse.
La mia proposizione fu accolta freddamente, sdegnosamente.
Il Rabbì mi riteneva l'autore principale dello scacco del suo ingresso a Gerusalemme. Io non lo era. Ma se il mio dovere di cittadino me lo avesse imposto, io lo sarei stato realmente. Per tutta risposta, il Rabbì m'invitò a cena con i suoi, l'indomani sera, 13 nisan (giovedì 2 aprile). Nella giornata, e' non comparve al Tempio e non discese neppure a Gerusalemme. Delle spie del consiglio lo aspettavano a tutte le porte della città. Si era deciso di non impadronirsi di lui durante il giorno, mentre era in mezzo ai Galilei. In tutto quel dì, io non incontrai alcuno dei suoi discepoli. Scorsi soltanto Maria di Magdala, vestita da donzello. Quel nobile cuore spiava gli spioni del sanhedrin148, affinchè il Rabbì si tenesse in guardia.
Andai a vedere Ida, onde avvertirla del supremo pericolo in cui versava suo fratello.
La povera creatura non poteva nulla. Ella non sapeva neppure ove suo fratello si nascondesse. Finalmente giunse la sera.
XXX
La giornata era stata pel Rabbì un altro giorno di combattimento. Memorie e paure, dubbi e speranze lo indebolirono; un amore immenso, e un immenso disprezzo, volta a volta e ad un tempo, commossero le sue viscere. La vita, che da lui si accomiatava, spiegava dinanzi ai suoi sguardi tutte le sue feste, tutti i suoi dolci incanti; la morte, come un punto d'interrogazione dell'infinito, che toccava il cielo e la terra149, si rizzava dinanzi a lui. Ebbe paura; sperò; cercò di fuggire; si abbiosciò; si rialzò; tremò ancora; si contenne; reagì; e la sera quando scese in Gerusalemme era ancora arrovellato dalla febbre. Uscì dalla capanna, ove aveva passato la giornata con sua madre, e con quelle donne equivoche che lo seguivano ovunque, e che provvedevano alle sue spese150.
Il sole si coricava dietro il Moriah. Il sanhedrin aveva posto i suoi agenti sorveglianti alle dodici porte delle quattro parti della città affine di seguirlo in qualunque sito egli andasse, e d'impadronirsene nel suo ricovero notturno. Il Rabbì era molto conosciuto dagli ufficiali del Tempio, e da coloro che lo frequentavano. Quindi lo si vide passare per la porta dorata, e lo si accompagnò fino alla casa di Nahum bar Lotan nel quartiere di Ofel, ove Simone e Giovanni gli avevano preparata la cena. La notte scendeva.
Durante tutta la cena, il Rabbì si mostrò molto agitato (egli fu vivamente turbato nel suo spirito, dice Giovanni, XIII, 21). Divagò nei suoi discorsi, per balzi ora pieni di unzione, ora pieni di asprezza. Non mangiò quasi nulla, ma esaminò con uno sguardo inquieto e scrutatore il contegno dei suoi discepoli. I suoi occhi si fermarono sopratutto su di me, carichi di una tal collera, di un tal odio, che io ne rimasi colpito. Che aveva mai contro di me? Alla fine trascinato dalla foga della sua lotta interna, sclamò:
- Uno di voi mi ha tradito.
Questa parola formidabile ci sembrò quasi insensata. Ci guardammo tutti l'un l'altro, non per sorprendere sul viso del traditore le emozioni del tradimento, ma per domandarci se il Rabbì non delirasse. Gli dimandammo tutti, com'era naturale, l'un dopo l'altro: Sono io, Rabbì?
Arrossì e non rispose. Nondimeno m'accorsi che dei sospetti indegni lo esacerbavano contro di me.
Gli sforzi che io aveva fatto per salvarlo, i consigli salutari che gli avevo dati onde metterlo in avvertenza, ed impegnarlo perfino a lasciar Gerusalemme, erano stati interpretati in modo sinistro. Io mi sentiva profondamente ferito, insultato nel mio onore e nella mia lealtà. Rimisi le ulteriori spiegazioni ad un momento di calma, e da solo a solo; imperciocchè i suoi discepoli non comprendevano nulla della situazione degli uomini e delle cose.
Partiti dalla provincia, colle piccole ambizioni del villaggio e le grandi avidità del basso popolo, quei pescatori e quei pubblicani non avrebbero potuto apprezzare l'attitudine dei partiti in Gerusalemme, il contegno delle alte classi rimpetto ai Romani, l'istinto del popolo ebreo in faccia allo straniero. Il Rabbì non aveva egli detto forse quella parola mostruosa, insultante, crudele anche: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare?».
I patriotti della Gallia e della Germania avevano un altro linguaggio.
Uscii dunque dalla sala, senza nascondere il mio sdegno al Rabbì, e gettandogli uno sguardo di provocazione. Egli lo comprese, ma di traverso ancora, poichè mi gridò dietro:
- Fa presto quello che devi fare.
Sorrisi di sprezzo: ma mi sentii colpito di un altro quadrello al cuore. Varcando la porta della strada, incontrai Maria, sempre vestita da uomo. Erano le due ore di notte. Ella mi mostrò due agenti del Tempio accoccolati dietro una casa, gli sguardi inchiodati sulla porta.
- Essi l'aspettano, mi diss'ella.
- Tanto peggio, risposi, io non posso più nulla. Il Rabbì ha le vertigini.
- Ma tu cos'hai? Tu sei furibondo.
- Il peggiore di tutti i supplizii, ragazza mia, è quello di vederci in mezzo a ciechi, che vi credono cieco come loro.
Maria mi prese le mani, e soffocata dalle lagrime mi disse:
- Giuda, ancora uno sforzo: salviamolo suo malgrado.
Questo accento d'un immenso amore, d'una tenerezza infinita ed ingenua mi commosse, e mi calmò ad un tratto.
- Nessuno, le dissi, può revocare la sentenza del sanhedrin, altri che il sanhedrin stesso. Esso nol farà, non lo potrebbe nemmeno, dopo le considerazioni che l'hanno deciso ad emetterla. Vi sono però due uomini che possono ancora salvarlo, se il Rabbì vuole prestarsi a motivare la loro indulgenza; essi sono Hannah e Pilato. Recati nella tua antica dimora a Bezatha ed annunzia alla sorella del Rabbì che suo fratello è perduto, se ella non piega Pilato alla clemenza. Per mia parte, io me ne vo ad agire sul sagan. Poco spero. Però non voglio avere il rimorso di essere stato negligente.
Io le diceva queste parole, allorchè vedemmo il Rabbì ed i suoi discepoli uscir dalla casa, e nello stesso tempo i due uomini appiattati nell'ombra avanzar fuori e seguirli da lontano. Noi pure li seguimmo fino alla porta della Vallata. Maria s'avvicinò al Rabbì e gli disse che gli agenti del Tempio lo spiavano. Egli non le rispose, e continuò la sua strada. Maria l'accompagnò fino al pressoio del monte degli Olivi; poscia, secondo il nostro accordo, ella si recò prima da Ida, e poi venne ad aspettarmi alla porta del palazzo di Hannah.
Il sagan era desolato della sorte del Rabbì. La nostra partita contro i Romani era aggiornata, ma non abbandonata; non potevamo quindi veder un uomo come il Nazareno, che poteva divenire, malgrado tutto, una forza nazionale, perdersi in un momento di allucinazione. Hannah ed io eravamo convinti che egli avrebbe finito col comprender meglio la situazione, e che avrebbe barattato la sua parte di riformatore morale, per quella di agitatore politico. Noi discutevamo dunque ancora sul mezzo di salvarlo, senza oltraggiare nè la legge, nè il gran consiglio, nè la sentenza pronunziata, nè il sentimento popolare, conversavamo ancora sui sospetti che l'entrata del Rabbì in Gerusalemme e le sue parole imprudenti avevano destati in Pilato, quando un membro del sanhedrin venne a raguagliarci di ciò che era accaduto.
Gli agenti del Tempio avevano accompagnato il Rabbì fino a Gethsemani, e si erano assicurati che egli vi passerebbe la notte; poichè i suoi discepoli si erano coricati nella corte, e aggrovigliati nei loro pastrani russavano pacificamente. Uno di questi agenti ne aveva dato notizia a Caifa, il quale aveva fatto immediatamente partire una o due dozzine di guardie del Tempio, armate dei loro bastoni. Ma arrivati sul sito, l'ufficiale che li conduceva aveva osservato alcuni sintomi inquietanti. Anzitutto taluni di quei discepoli avevano delle armi più serie dei bastoni; poi essi erano tutti là, ed una dozzina di uomini validi, di quella provincia di Galilea così battagliera, così rissosa, non doveva lasciare agguantare il suo Messia, figlio di Dio, e Dio, senza opporre una resistenza accanita; finalmente, Gethsemani era ad una mezz'ora dall'accampamento dei Galilei, e si vedeva al chiaro di un'ammirabile luna piena, che vi regnava ancora un gran movimento, e che gli uomini non vi dormivano ancora. Se dunque s'impegnava una lotta, non accorrerebbero probabilmente i Galilei in ajuto dei loro compatriotti? Non considererebbero essi come una vergogna di lasciar arrestare il profeta del loro paese, il loro concittadino, che gli uomini della città, forse per gelosia, si affrettavano a far disparire? Da queste ed altre considerazioni, l'ufficiale che comandava la brigata del Tempio aveva dedotto la necessità di richiedere l'ajuto della forza militare romana, alla quale nessuno avrebbe osato resistere, perocchè ciò costituiva un delitto di lesa autorità di Cesare, ed era inesorabilmente punito.
Caifa, apprezzando queste ragioni, aveva fatto chiedere al comandante della fortezza Antonia un rinforzo, che gli fu accordato senza esitare, e che stava per mettersi in via immediatamente. Questa notizia fissò i nostri progetti. Hannah mi diede un ordine pel comandante della brigata del Tempio, col quale gl'ingiungeva di condurre da lui direttamente il prigioniero. Poi io doveva arrivare fin presso al Rabbì e prevenirlo segretamente d'opporre una negativa assoluta, a tutte le domande che gli sarebbero state indirizzate dal sagan, nel caso che, al momento del suo arrivo, si trovassero con lui altri membri del sanhedrin.
Io non sperava alcun buon risultato da queste pratiche, conoscendo la cattiva impressione che i miei consigli producevano sul Rabbì. Pure non esitai ad incaricarmene. Maria, che mi aspettava, mi indicò il sito ove il Rabbì dormiva quella notte, e venne insieme con me.
La notte era bella ma fredda, ed io scorgeva quella povera creatura tremare sotto la tunica leggera e frusta che aveva potuto procurarsi. Le porte del Tempio, che si aprivano a mezzanotte la vigilia del paschah, stavano per aprirsi; un gran movimento quindi principiava nelle strade.
In tempo di festa, le porte della città non si chiudevano: però, al di là della cinta, tutto era tranquillo. I rumori misteriosi della notte riempivano l'aria; ogni albero, ogni cespuglio, ogni siepe assumeva una forma ed un'attitudine. Il brulichio della lontana vita risvegliava degli strani echi. Camminavamo lesti. Io udiva i battiti del cuore di Maria soffocare il suo respiro accelerato. Non una nuvola nel cielo, non una stella assente; la luna cantava il suo splendore.
Ad una cinquantina di passi dalla cascina, di cui scorgevamo la siepe, si rizzava un gruppo di olivi vecchi ed asserrati. I rami, curvandosi sul suolo, facevano quasi una vôlta sulla strada che da quel sito conduce al pressoio. Là il chiaro di luna filtrava appena, e la terra rossastra pareva scura. Traversavamo quel punto della strada, allorchè ci sentimmo afferrare pel braccio. Maria, vergognando del suo travestimento, fece uno sforzo, e lasciando nelle mani delle guardie del Tempio dei brani della sua veste, se la svignò. Io restai preso. Condotto dinanzi al capo gli mostrai l'ordine del sagan. L'ufficiale lo lesse, e mi disse: Sta bene!
Ma non mi permise di continuar la mia strada. M'accordò soltanto di accompagnarlo.
In quello stesso momento arrivarono i soldati romani.
Ci avanzammo allora alla porta del pressoio.
Le guardie del Tempio circondarono il sito. I Romani si presentarono all'entrata. Le loro armi avevano fatto dello strepito. La porta della cascina si aprì, o meglio si socchiuse, ed una testa si mostrò per vedere ciò che avveniva al di fuori. Seguì un istante di silenzio. Noi stavamo alla porta. In quel momento degli uomini traversarono la siepe per di dietro e scapparono, ascendendo il sentiero che conduceva all'accampamento dei Galilei. Le guardie li inseguirono per qualche tempo, poi furono richiamate dal suono del corno del loro capo.
Erano i discepoli che abbandonavano lestamente il Rabbì e fuggivano! Gesù, che non dormiva, che aspettava forse i soldati, che avrebbe potuto fuggire come gli altri, restò, ed aperta la porta a due battenti, dimandò:
- Non cercate voi forse il Rabbì di Nazareth?
- Sì.
- Son io: eccomi.
I soldati e le guardie che temevano una certa resistenza, sospettarono a bella prima un agguato. Io mi avvicinai al Rabbì, ed a voce bassa, in vecchio ebreo gli dissi all'orecchio151:
- Il sagan vuole salvarti: nega tutto se non è solo.
Il Rabbì non mi rispose, e rinculando da me, si avvicinò all'ufficiale romano, e soggiunse:
- Son pronto, andiamo. Ma perchè mi trattate come un malfattore, e venite ad arrestarmi di notte, a mano armata, mentre io era con voi ogni giorno nel Tempio, e che vi era così facile l'impadronirvi di me?
Questa tranquillità, questa spontaneità sedussero il centurione romano. E' diede ordine di mettersi in cammino conversando col Rabbì che gli camminava vicino, preceduto dalle guardie del Tempio, e seguito dai Romani. Per nulla sorpreso dell'accoglimento che avevo ricevuto dal Rabbì, lo precedetti dal sagan. Era la mezzanotte. Hannah ci attendeva ed era solo. Potevamo dunque parlare liberamente.
- Rabbì, gli disse il sagan, dopo aver licenziato le guardie all'anticamera, e facendolo sedere, tu sai di che ti accusa il sanhedrin?
- Per nulla.
- Tu hai detto: «Io sono il pane disceso dal cielo; nessuno è asceso al cielo, se non quegli che ne è disceso; quegli che è venuto dall'alto, è al disopra di tutti.... Io sono disceso dal cielo, vengo da Dio, e ritorno da mio Padre; tutto ciò che il Padre fa, il figlio fa pure; come lui, come il Padre, il figlio ha la vita in sè stesso. Mio Padre ed io siamo la medesima cosa; chi vede me vede anche mio Padre152.» Tu dunque ti sei fatto Dio?
- Io mi son fatto Dio.
- Hai detto ad un ammalato a Cafarnaum, continuò Hannah: «I tuoi peccati ti sono perdonati.» Tu hai per tal modo usurpate le attribuzioni di Dio, che solo può perdonare i peccati. Tu dunque sei empio davanti la legge ebrea, ed hai meritato la morte per lapidazione.
- Ho perdonato i peccati, rispose il Rabbì.
- Hai detto altrove, riprese il sagan. «Il mondo è giudicato; i principi di questo mondo153 saranno scacciati154.» Tu ti sei fatto proclamare re, figlio di Davide, ed hai tentato di far insorgere Gerusalemme. Sei dunque colpevole dinanzi a Cesare, e condannato ad essere crocifisso.
- Sono pronto.
- Noi vogliamo salvarti: aiutaci a trovarne il mezzo.
Il Rabbì fu colpito da questa proposizione: arrossì, impallidì, la sua respirazione divenne affannosa. Egli era in procinto di piegare, ed abbandonarsi a noi. Un sospetto gli traversò lo spirito. Dubitò d'un tranello, e serbò il silenzio. Il sagan lo comprese, ed aggiunse:
- Noi abbiamo intrapreso un'opera che deve o salvare o perdere completamente la nostra patria, perdendoci con essa. La rassegnazione che dimostriamo pel dominio straniero, è finta: noi vogliamo addormentarlo. La soddisfazione che noi delle classi elevate mostriamo per la nostra posizione, sarebbe un'infamia se la non fosse una menzogna. Noi non abbiamo mai, in nessun caso, in nessun tempo, tradito il nostro paese, mancato alla sua chiamata, fallito ai suoi bisogni. Noi cospiriamo del sorriso. Scaviamo un abisso sotto i passi dello straniero, coprendolo di rose. Cesare crede, ed il popolo ebreo pensa, che noi dormiamo nei nostri palazzi, che ci inebbriamo alle nostre tavole, che conduciamo una allegra vita nei nostri giardini, colle nostre mogli e colle nostre favorite; ed invece noi discutiamo in qual modo compiere la perdita del Romano. Per l'essere noi i primi fra i servi, siamo noi meno servi? E noi siamo stati i padroni quando il popolo della Giudea era libero! Noi nol dimentichiamo. Noi vogliamo esserlo ancora, avvenga quello che può avvenire. Il dominio dello straniero è per noi l'incertezza: il padrone cambia; cosa sarà domani di noi? Poi, noi siamo Ebrei, e non Latini. Abbiamo soccombuto quando eravamo deboli; perchè rinunceremmo a divenir forti, e a prendere la rivincita? Ecco l'opera che noi tramiamo in silenzio, lentamente, con precauzione, raccogliendo tutte le bricciole della forza nazionale, sotto non importa qual forma essa voglia rivelarsi e venire a noi. Rabbì, noi non ti respingiamo. È contro i nostri interessi il perderti. Tu puoi esserci utile un giorno, quando avrai meglio compreso l'istinto nazionale, il bisogno, la volontà del paese. Accetta la parte che ti diamo; aspetta l'ora che ti fisseremo; limita il tuo campo d'azione a quello che ti indicheremo, e cerchiamo insieme di farti uscire dalla disgraziata posizione in cui ti sei gettato alla cieca.
Queste parole leali furono come luce pel Rabbì, ma esse furono causa altresì della sua disperazione. Egli riflettè, poi rispose:
- È impossibile. Ciò che tu mi proponi è sempre la morte. La morte naturale, o la morte morale, la morte di domani, o quella di dopo domani, che monta! Tu mi proponi di perire in ogni modo.
- T'inganni.
- Io mi sono rivelato al mondo come l'inviato di mio Padre; ho annunziato alla terra una parola del cielo. Voi mi proponete di dichiarare che ho mentito. Chi mi crederà il giorno in cui verrò a portare un'altra novella? Voi volete salvarmi, vale a dire, voi volete esiliarmi dal suolo della Siria. Poichè ove potrei io vivere senza incontrare uno sguardo che non mi lanci un rimprovero, una coscienza che non m'accusi di aver cercato di sedurre il popolo colla menzogna? Non si dirà ovunque che io sono un ciarlatano? Voi invocate la salvezza della patria. Io non credo alle patrie. Gli uomini, figli dell'istesso Dio, sono fratelli, e la terra appartiene all'umanità. Che m'importa che sia il Romano, il Greco o l'Ebreo che occupa questo angolo del suolo della Palestina, se io trovo in lui un amico, un aiuto, un conduttore, se egli obbedisce alla stessa legge morale, allo stesso Dio? Io non comprendo la politica, la libertà, l'autorità dell'uomo sull'uomo: io comprendo l'eguaglianza di tutti, sotto la supremazia di Dio. Che m'importa che il mio padrone si chiami Tiberio, Erode, Faraone, o Salomone, se è un padrone? Or di padroni io non ne conosco che uno, quegli che assume la rappresentanza di Dio sulla terra e lo imita per la misericordia e la verità. Il Romano non è mio nemico: io non combatto che il malvagio, e colui che si impone alla mia coscienza. Le vostre vanità di classi e di razze non mi toccano punto; io le ignoro: esse sfuggono alla mia intelligenza.
- Rabbì, rispose pacatamente il sagan, non è più il momento di discutere. La mosca non chiede al ragno: perchè mi prendi nella tua ragnatela? Tanto peggio per la mosca se non si sforza di stracciare la tela in cui è presa, e se non cerca di fuggire. Noi ti offriamo di essere con noi, padroni o martiri, come avverrà. Saremmo sciocchi se ti permettessimo di essere contro di noi, di fare diversione al nostro intento per un altro intendimento che disdegniamo di analizzare. Tu non comprendi la patria, non comprendi la nazione, non comprendi la libertà; ammetti lo schiavo; chi sei tu dunque? Tu ci proponi la mostruosa autocrazia di Dio, incarnato in un uomo....155 Codesto è delirio! Tu non sei degno di vivere.
- Perciò io non lo chiedo punto, disse Gesù.
- Però rifletti ancora, o Rabbì, durante questi pochi minuti che la mia benevolenza ti accorda. Tu hai una madre, una sorella, degli amici, sei ancora giovane, hai uno spirito elevato, un grande tatto, molto sapere e una grande confidenza in te che prende tutte le forme della fede. Un avvenire sorridente ti stende le sue braccia. Se tu scadi oggi, ti rialzerai domani sotto un altro aspetto; le circostanze creano l'uomo. Tu non sarai più il figlio di Dio; ma puoi ancora essere il padre dei Maccabei, che rovescia l'altare dell'idolo, ed uccide il primo infedele. Questa parte ti sembra dunque troppo meschina? Noi avremo dei riguardi per te. Non ti chiederemo conto della divergenza delle tue idee e delle tue dottrine dalle nostre; se ci accordiamo, bene inteso, su questi due punti: rispetto alla legge fondamentale di Mosè: odio ai Romani.
- Odio per nessuno, interruppe il Rabbì: rispetto per nessuna altra legge che quella che i nuovi tempi ispirano al nuovo organo di Dio. Non mi tentate più oltre. La mia situazione non ha uscita per altra porta che quella della tomba. Voi mi uccidete uomo; le mie parole, se ricordate, mi confermeranno come figlio di Dio. Io mi son creato, con l'anima, un deserto intorno a me, un deserto in mezzo alla vita, ai popoli, alle grandi città, agli amici, ai parenti, alle creature che mi amano e che mi è vietato di amare; questo deserto è un supplizio, in paragone del quale le vostre pietre e le vostre croci sono dei baci. Io vi ringrazio di codesta parola franca ed amica che m'avete detta in quest'ora di turbamento e di lotta: voi m'avete deciso nella mia via, e mi avete dato la calma della rassegnazione.
- Rabbì....
- Basta così. Io non posso ascoltar altro; io non posso nulla accordare. Il mio destino è più grande di me: esso mi assorbe.
- Rabbì....
- Finiamo. Il più corto sarà il più dolce.
- Allora tu sei deciso a perire.
- È necessario.
- Sia, e che il tuo sangue ricada sul tuo capo.
Il Sagan prese un quadrato di pergamena e vi scrisse alcune linee, nelle quali diceva in sostanza: che egli aveva interrogato il Rabbì Jesus Bar Joseph di Nazareth, e che l'aveva trovato fellone verso Dio e verso l'autorità di Cesare, e quindi degno di morte. Fece quindi entrare l'ufficiale del Tempio, - i soldati romani si erano ritirati, - e consegnando loro il prigioniero e la sentenza, li inviò da Caifas.
All'alba dell'indomani, 14 nisan (venerdì 3 aprile) il sanhedrin si riunì presso il gran Sacerdote. La calca nel Tempio, in un tal giorno, dispensò Caifas di convocare l'assemblea nel Lishcat-ha-Gazith, ove il gran consiglio teneva le sue ordinarie sedute.
L'interrogatorio non fu lungo. Il Rabbì non negò alcuna delle proposizioni che gli si citavano come da lui sostenute: egli non contestò alcun fatto156. Egli fu riconosciuto fellone verso Dio e verso Cesare, come il sagan lo aveva caratterizzato. Non pertanto, avanti di pronunciare la suprema sentenza, Caifas, quasi avesse voluto impegnarlo a ritrattarsi, per risparmiare al consiglio la penosa necessità di una condanna capitale, chiese nuovamente al Rabbì:
- Io ti fo precetto di dichiararci se sei il Cristo, figlio di Dio.
- Io lo sono, rispose Gesù, e voi vedrete venire sulle nuvole del cielo il figlio dell'uomo, seduto alla dritta del Dio onnipotente.
Tutto era detto. La pena di morte fu decretata.
Uscendo da Hannah, ove io non aveva aperto bocca, il Rabbì ebbe vergogna dei suoi sospetti, e mi disse addio! Io gli susurrai all'orecchio:
- Spera, io non lascio la partita finchè mi resta un dado da giuocare.
Non attesi dunque il risultato del giudizio del sanhedrin cui già prevedevo. Mi recai da Claudia. Ma mettendo il piede nel palazzo di Erode vidi, alla porta del pretorio, una donna, ravvolta in denso velo, domandare di Pilato, inviandogli un foglietto di pergamena. Credetti riconoscere Ida.
XXXI
Erano ott'ore del mattino157. Claudia era appena risvegliata, e Nomas aveva aperto le finestre, permettendo ai primi raggi del sole di nisan (aprile) di venire a folleggiare nel santuario di questa beltà italiana. Nomas mi conosceva, avendomi veduto sovente colla sua padrona, e nella massima intimità. Malgrado tutto ciò, stentai a fare pervenire, ad un'ora così indebita, un piccolo viglietto nel quale la supplicava di ricevermi immediatamente, avendo a parlarle di cose gravi.
Claudia, dopo la effettuazione del suo matrimonio con Pilato, in piena luna di miele, non si copriva più il viso di pappa la notte, onde tener soffice la pelle e fresco il colorito. La sua teletta quindi era meno complicata, e la poteva farsi vedere di buon mattino, non avendo bisogno di levar via l'impiastricciata della notte. Ricevendo il mio viglietto, Claudia mi fece introdurre tosto nel suo gabinetto di teletta, ove venne a raggiungermi alcuni minuti dopo. Io non aveva tempo da perdere in preliminari. Le esposi dunque in poche parole le ragioni che mi conducevano da lei, e l'immenso servizio che le domandavo. Claudia non esitò un momento, perchè il Rabbì l'aveva profondamente colpita. Ella voleva essere sbarazzata di quest'uomo, di sua sorella sopratutto che ella odiava, ma non ne desiderava punto la morte. Voleva anzi inviarlo a Roma con sue lettere, raccomandandolo a Tiberio come un abile indovino.
- Che occorre fare? mi chiese.
- Poca cosa. Ottenere da Pilato che non tenga conto dell'accusa di sacrilegio, e che esigli il Rabbì in qualche città romana della Siria, come punizione del suo delitto politico.
- Pilato può farlo?
- Può tutto, se Pomponius Flaccus non vi si oppone.
- Proverò.
- Ma bisogna far presto. Il tempo stringe. Ascolta! odi tu questo ronzìo nell'aria? Si conduce il prigioniero davanti tuo marito.
- Lo faccio chiamar subito.
- Sarebbe meglio andarci tu stessa. Giacchè, trovandosi in faccia dei delegati del sanhedrin, che gli conducono un prigioniero o gli presentano la sentenza di morte da essi pronunziata è probabile che egli non verrà qui immediatamente. Ora, se egli conferma la sentenza, tutto è perduto.
- Hai forse ragione. Ci corro. Aspettami pochi minuti fuori, onde io mi vesta.
Uscii sulla terrazza che dava sulla piazza, e vidi infatti Gesù, preceduto e seguito dalle guardie del Tempio, da quattro commissarii del gran consiglio, e da uno sciame di curiosi. Essi entrarono nella corte scoperta del palazzo, ove era il bima sul gabbatha, e l'oratore del sanhedrin ne fece avvertire Pilato.
Pilato sapeva già ciò che significava quel rumore, ciò che la commissione desiderava, e chi era il prigioniero che si trascinava innanzi a lui. Ida lo aveva istruito di tutto.
Mentre io pregava Claudia, ella supplicava Pilato.
La donna che io aveva veduta, era Ida.
Pilato, ricevendo il suo viglietto, l'aveva fatta introdurre immediatamente al pretorio - al pretorio a bella posta - non volendo dare a quel colloquio nessun altro significato che una domanda di grazia, e ad Ida nessun'altra attitudine che quella di supplicante. Ma quando la vide, così pallida, inondata di lagrime, affranta di dolore e d'emozioni d'ogni fatta, in disordine di spirito e di vestiti, egli si sentì commosso profondamente, e tutto quel mondo d'amore, di gioia, di consolazioni, di dolcezze che aveva provato durante la sua relazione con Ida, si risvegliò nel suo cuore. Le ricordanze lo battevano in breccia d'ogni lato. E chi sa? ora che aveva gustato il frutto contestato di Claudia; chi sa, dico, se la fanciulla pura e amorosa che aveva abbandonata, non gli sembrasse mille volte preferibile a quella ardente tigre romana, che lo inebbriava, che lo ardeva, ma che lo padroneggiava altresì? Pilato era sole vicino ad Ida, ombra rimpetto a Claudia. E' corse dunque incontro alla giovinetta e fece uscire tutti.
Ida tremava così forte, vacillava talmente, che Pilato la raccolse nelle braccia onde impedirle di cadere svenuta al suolo. Il contatto del petto del suo damo fece l'effetto di un ferro rovente sopra la Galilea. Ella si allontanò di un balzo, e indietreggiò fino alla porta.
Pilato la riprese per le mani, e con l'accento più dolce che potè trovare, con l'espressione più tenera che seppe dare alla sua voce, le chiese cosa desiderasse. Ida con poche parole, male articolate, espose la posizione di suo fratello, il pericolo che egli correva tale quale Maria glielo aveva spiegato, e che Pilato conosceva già pei rapporti dei suoi agenti.
Vi sono delle posizioni inesorabili, che impongono certe delicatezze, cui sembra impossibile obliare o violare. Tale era quella di Pilato rimpetto ad Ida. Egli non l'aveva amata. Ella veniva, ella che l'aveva amato ed era stata abbandonata, a supplicarlo di salvar suo fratello, disonorato da lei, disonorato da lui, ma in pericolo di morte. Tutto vietava all'amante ed all'amata il minimo ritorno verso il passato, la più piccola reminiscenza d'un amore messo allo scarto, e che non poteva in nessuna maniera esser richiamato in scena, in questa circostanza, esso, fomite di voluttà, per assumervi le sembianze della pietà. Non pertanto il cuore, che deride sempre la ragione, non tenne nessun conto di queste convenienze nè dalla parte di Pilato, nè dalla parte di Ida e dimenticando l'una il fratello, l'altro la moglie, si lasciarono andare alle memorie passate. Pilato aveva a spiegarsi; Ida a giustificarsi. Moab aveva gittato in fra di loro un equivoco; Claudia un pericolo; io un pretesto. Tutto ciò era stato in seguito posto in chiaro. Ma essi erano ancora in sul broncio, e si trovavano uno rimpetto all'altro, esigendo non più un ritorno all'amore, che pareva impossibile, ma una restituzione di stima, che era un dovere. Non ho mai conosciuto i particolari di questa scena breve, febbrile, rapida, tenera, piena di passioni, e che sarebbe forse stata coronata da un bacio, se il rumore degli agenti del tempio, non li avesse richiamati alla terribile situazione del momento.
- Sei almeno felice ora? gli domandò Ida con un accento di sensibilità e di tenerezza infinita.
Pilato esitò un momento a rispondere - è lui stesso che me lo disse poi - indi esclamò:
- Come un uomo che dopo aver delibate le aurore profumate della primavera sotto il cielo della Campania, nel golfo di Baia, si trova trasportato, in pien meriggio, sotto il sole di luglio nelle pianure della Siria. Il sole è bello, splendido, ma brucia ed uccide.
- Il mio amore, gli disse Ida, non ebbe che uno scopo: consolarti dei tuoi misteriosi dolori. Conosco ora questo mistero. Nato dalla compassione, quell'amore non poteva essere che puro e santo. Esso lo fu. Io non ho rimorsi. Il tuo abbandono non è che una cessazione di gioia. Ebbene, si prende l'abitudine del silenzio, della solitudine, del dolore. Tutto ciò ha ancora delle ebbrezze, quando si può dirsi: ho fatto del bene. La macchia che io aveva gettata sulla mia famiglia è lavata: essa mi ha ripudiata. Mia madre, la mia stessa madre non ha voluto rivedermi. Ma la mi ha perdonato; ciò mi basta. Io non tengo più a nulla in questo mondo. Posso partire o restare, cadere o rialzarmi, senza che un occhio amico mi segua, che un pensiero s'attacchi a me. La povera mosca ha preso il volo: essa appartiene oramai allo spazio ed alla natura ingannatrice.
- E se io osassi dirti: Ida, spera! sospirò Pilato scosso profondamente.
- Ti risponderei, replicò Ida, che non ne ho più di bisogno. Chi si preoccupa del domani ha d'uopo della speranza - questo fiore avvelenato. Io non ho dimani, e ne sono felice. La notte ha tutte le voluttà di cui quelle del nulla sono le più inebbrianti. Che m'importa come ciò finirà? Il sole è coricato, ed io non aspetto l'aurora.
In quel momento lo strepito della corte richiamò Ida e Pilato alla situazione cui avevano il torto di aver dimenticata. Il tribuno di guardia al pretorio venne ad annunziare a Pilato, che il gran Consiglio gli inviava un condannato. Il procuratore uscì secondo l'uso e si assise sulla bima. Allora Osea figlio di Elah, oratore del sanhedrin, gli presentò la sentenza del Consiglio ed il prigioniero. Pilato lesse la condanna ed esclamò:
- La morte!
- Sì, rispose Osea. Noi abbiamo una legge: secondo questa legge, egli deve morire, perchè si è fatto figlio di Dio158.
- Ciò non mi riguarda, disse Pilato con impazienza. La spada di Cesare non vendica gli Dei cui Cesare non conosce.
- Ma la spada di Cesare, rispose Osea, punisce queglino che si proclamano re, là ove desso è imperatore. Ora, noi non abbiamo altro re che Tiberio. Se tu ne conosci un altro, assolvi il prigioniero159.
- Allora io voglio sapere, e scandagliare io stesso la verità. Fate passare codesto uomo nel pretorio, ond'io lo interroghi.
Pilato rientrò nella sala del giudizio ove i soldati romani introdussero il Rabbì. A quella vista, Ida gettò un grido, e si avvicinò a suo fratello; ma questi ritrovandola alla presenza di Pilato, arrossì ed indietreggiò. Ida comprese e cadde ai piedi del procuratore. In quel momento stesso apparve Claudia, e vide Ida in ginocchio, mentre Pilato si piegava per rialzarla, sfiorando delle sue guancie i capelli della fanciulla, respirando il suo alito e dicendole alcune parole di consolazione.
Fu un lampo.
Io seguiva Claudia.
Alla vista d'Ida e di suo marito in quella posizione, così vicini l'uno all'altro, Claudia diede un ruggito che avrebbe spaventato una leonessa.
- Tu ancora? gridò la forsennata. Ah! ti tengo alla fine.
Ed acciuffandola dai capelli, rapendola di un sol balzo, Claudia varcò la sala e sparve dalla porta d'onde eravamo entrati, chiudendola dietro di sè. Questa apparizione sinistra non durò che un momento, ma il terrore s'impadronì di noi tutti. Io volli slanciarmi dietro alle due donne. La porta era serrata a chiavistello. Volli uscire. Il Rabbì mi sbarrava la porta della corte, sulla cui soglia egli restava freddo ed immobile.
Egli mi avvischiava ad un altro disastro.
Pilato profondamente turbato da ciò che era allora accaduto e prevedendo forse l'atto terribile che stava per compiersi negli appartamenti di sua moglie, senza ch'egli potesse impedirlo, passeggiò per alcuni istanti nella sala. Ida, il Rabbì, Claudia si confondevano nel suo spirito velato, e danzavano in una nuvola di sangue. Si fermò finalmente rimpetto al prigioniero, e con una grande veemenza, quasi fuori di sè, gli chiese:
- Chi sei tu?
- Gesù da Nazareth, in Galilea.
- Ma allora tu sei suddito di Antipas Erode, ed egli è qui. Io non posso giudicarti, non voglio giudicarti. Conducete costui dal tetrarca.
Il tribuno Popilius, a cui quest'ordine era dato, escì nella corte col Rabbì, e consegnandolo nuovamente alla commissione del sanhedrin ed alle guardie del Tempio, loro comunicò la risoluzione del procuratore.
Osea riprese il prigioniero, ed uscì brontolando.
Io mi presentai allora da Claudia onde saper qualche cosa della sorte della disgraziata Ida. Nomas mi rispose a nome di Claudia, che questa era nel bagno, e che potevo ritornare più tardi. Interrogai Nomas. Ella sclamò quasi spaventata:
- Domandalo al lorarium.
L'anima ripiena di un nuovo terrore a questa parola sinistra di lorarium - il carnefice - corsi al palazzo di Antipas per provvedere alla sorte dell'altra vittima.
Il Rabbì si trovava già in presenza del tetrarca.
Questi non era ancora alzato; ma vivamente compiaciuto della deferenza che Pilato gli mostrava questa volta, ricevette il prigioniero stando nel suo letto.
Antipas era coricato in un letto di tartaruga ed oro, sulla seta e sulle piume, coperto di porpora ricamata a pietre preziose. Davanti il letto restava lungo disteso il suo leopardo. Sul letto stesso, uno sciame di pappagalli, di piccoli cani, di scimmiotti scambiavano colpi di becco, e colpi di denti, aizzati l'un contro l'altro ora da Antipas ora dai suoi nani, e facendo un diavoleto indescrivibile. All'estremità del letto tenevasi una bella schiava greca che profumava i piedi del tetrarca. Alla testa, una schiava siriaca ancora più bella gli strappava i capelli bianchi. E nello spigolo di dietro, una schiava galla, più bella e meno vestita delle altre due, tingeva le sopracciglia ed i lembi delle palpebre di quell'allegro compare, di già imbellettato come una lupa dei sobborghi di Roma. Una folla di schiavi d'ambi i sessi giravano nella stanza, gli uni per preparargli la teletta del suo alzarsi dal letto, gli altri per porgergli la porzione di suco d'aranci misto al latte caldo, al mele ed al cinnamomo, per la quale il tetrarca rinnovellava le sue relazioni quotidiane col suo stomaco.
- Ah! Ah! sclamò Antipas scorgendo il prigioniero: eccoti qua, Rabbì! Tu vieni questa volta senza essere invitato, eh! Come sei amabile! Arrivi, in mia fede, bell'a proposito. Ho il mio leopardo molto malinconico da ieri in qua, tu devi distrarlo, o se è ammalato, guarirlo. Ti do parola che questa mattina son proprio in vena di vedere dei bei miracoletti. Ho dormito allegramente bene la notte scorsa. E tu, Rabbì? Ora, comprendi, ho una voglia pazza di veder Salomè. Tu puoi mostrarmela in un bicchier d'acqua del pozzo di Giacobbe, che ho là; ma, sta ben attento! non voglio vederla tra addobbi, e tra veli, eh! Non voglio che tu mi giunti e mi mostri invece la maga d'Endor. Io voglio veder Salomè, tale quale, precisa com'è, intendi? Nasca, ragazza mia, fa attenzione, m'hai levato un capello nero. Ah! sei lì anche tu, Giuda! farai colazione con me allora, bello mio. Aveva ragione io, quando ti diceva che il tuo Rabbì mi aveva l'aria di un selvaggio. Gli parlo, gli dimando un miracolino ch'è proprio nulla, che il mio filosofo fenicio spiccerebbe colla stessa facilità che tu inghiotti una ciliegia.... Ne avrai questa mattina delle ciliegie, Giuda: n'ho ricevuta la primizia da Alessandria. Ma rispondi dunque, Rabbì. Perchè diavolo me lo conducete dunque, qui, se egli non trova nulla per distrarmi e se non fa nulla per divertirmi?
Una speranza mi luccicò nell'anima. Gli dissi dunque:
- Gli è, principe mio, che il re dei Giudei è di cattivo umore perchè i suoi sudditi gli hanno mancato di rispetto. Ripara il mal fatto. Dagli un mantello di porpora, e rimandalo via col migliore dei tuoi cammelli; ed egli andrà al tuo ritorno al palazzo di Tiberiade, a mostrarti più prodigi che non ne fecero mai i maghi di Faraone.
- Darei volentieri il mantello al mio re, ma non posso rimandarlo, poichè codesto piccolo procuratore romano me l'ha lanciato qui, non so perchè.
- Perchè l'assassino del Battista, rispose il Rabbì, assassini pure il figlio dell'uomo.
- Eh! eh! tu canti bene, Rabbì. È l'istesso tuono, e il salmo ha lo stesso stile. Ma io non amo i plagiarii. Ti perdonerei piuttosto di cantar falso, che il cattivo ribiascicar di quell'altro.
- Tetrarca, disse allora Osea, che comprese la mia astuzia e temeva la frivolezza d'Antipas, il procuratore romano t'invia questo prigioniero, condannato a morte dal gran Consiglio della Giudea, perchè tu confermi la sentenza, poichè quest'uomo è tuo suddito. Egli ha bestemmiato Dio, usurpato i diritti di Cesare: si è proclamato re e Dio.
- Sei modesto, Rabbì. Poichè eri in vena, valeva meglio proclamarti Cesare di un tratto e marciare sopra Roma alla testa delle tue legioni....
- Di angeli, interruppe Osea: l'ha detto.
- Se la è così, Rabbì, io ti conduco meco, subito, libero, festeggiato, se mi presti una o due delle tue legioni, per dare una correzione a quel birbo del mio ex suocero Areta, che mi fa guerra, perchè la sua figliuola, color zafferano, non mi piace più. Cosa ne dici? Accetti?
Il Rabbì taceva. Ciò scoraggiava Antipas che amava il rimbecco fosse anche contro di sè. E' soggiunse:
- Rabbì, mi hanno raccontato tante cose di te, e tante tue parole, che io ti farei re degli Ebrei senza esitare, se fossi imperatore dei Romani. Intanto fa qualche cosa per me. Ho un dente smosso, e diversi capelli bianchi. Erodiade non si rassegna a ciò, e Salomè dà la berta ai miei cinquant'anni. Liberami da queste noje. Che diamine! se tu puoi far passare i demoni dai corpi delle donne in quelli dei maiali - hai dei demoni proprio compiacenti - ebbene puoi bene raffermare il mio dente, e regalarmi una capigliatura bionda. Ti chiederò poi da solo a solo un'altra cosa - e se puoi riescire in ciò che non potei ottener da alcun filtro, ti dò la Perea.
Il Rabbì volse il capo con disgusto, e mormorò una parola di disprezzo che non intesi bene. Antipas vedendo allora che non c'era nulla da cavare da quell'ostinato, sclamò:
- Andate ad impiccarlo, se vi aggrada, codesto vostro re degli Ebrei, sia egli o no mio suddito. Voi lo vedete! egli non è neppur buono a guarire i miei calli. Gratta, Calliope, gratta, piccina mia, tu mi solletichi deliziosamente i piedi.
- Principe, osservai io nuovamente, non permettere che si giustizii un tuo suddito fuori dei tuoi dominii. Se il Rabbì è colpevole, giudicalo a Tiberiade.
- Che! che! Cosa vuoi che io faccia di codesto bruto silenzioso lungo il mio viaggio? Poi bisogna rendere a Pilato la gentilezza usatami, non fosse che per insegnargli che non si perde mai ad esser convenevole coi principi. Conducete, conducete via subito codesto rustico, che non si degna neppur di rispondermi, e di fare un miracolo da quattro soldi.
Osea non chiedeva di meglio, poichè egli sembrava poco rassicurato sul leggero contegno del tetrarca. Egli preferiva l'asprezza di Pilato.
Quando Antipas aveva detto che darebbe un mantello di porpora a Gesù, il suo liberto s'era affrettato a spogliare il Rabbì del suo mantello azzurro, cui trovava di sua convenienza. Ma il tetrarca non avendo poi realizzato il suo proposito, il Rabbì se ne tornò colla sua sola tunica bianca.
Era passato il mezzogiorno quando ritornammo al palazzo d'Erode.
Mentre il Rabbì ricompariva dinanzi a Pilato, io mi recavo da Claudia.
Maria fu la sola fra gli amici e i discepoli di Gesù che assistette all'interrogatorio.
Pilato riapparve sulla bima, di molto cattivo umore. Egli credeva essersi scaricato sul tetrarca d'un giudizio che gli pesava, a causa di Claudia, e d'Ida. Poichè, qualunque fosse stata la sua sentenza, essa ferirebbe una di quelle due donne ch'egli amava.
- Il tetrarca, disse Osea, non vuole confermare la nostra condanna. D'altronde non ne ha precisamente il diritto. Il delitto è stato commesso sopra un suolo di tua e di nostra giurisdizione: noi soli abbiamo il diritto di condannare.
Pilato alzò le spalle con un atto di sprezzo e di impazienza, ed indirizzandosi al Rabbì, gli disse bruscamente:
- Li ascolti? Tu sei dunque re degli Ebrei, tu?
- Questa domanda viene da te, oppose il Rabbì, ovvero tu ripeti ciò che gli altri dicono di me?
- Sono forse Ebreo io? I tuoi compatriotti ed il tuo sanhedrin ti conducono da me, come colpevole. Che hai fatto dunque? È egli vero che hai tentato di conquistare questo regno?
- Questo regno? Apprendi dunque, agente di Cesare, che il mio regno non è di questo mondo. Se lo fosse, la mia gente avrebbe combattuto per me, m'avrebbe tolto alle mani degli Ebrei, e ti avrebbe ridotto all'impotenza. Ma, lo ripeto, il mio regno non è di questo mondo.
- Così, tu sei veramente re, allora?
- Tu l'hai detto, rispose Gesù, io sono re. Gli è per questo che io nacqui, gli è per questo che sono venuto al mondo. Io debbo attestare la verità. E chiunque è nel vero, ascolta la mia voce.
- Ma cosa dunque è la verità160?
Il Rabbì non rispose più. Osea sclamò:
- Come? tu cerchi ancora la verità, ufficiale di Cesare? Non ha egli detto chiaramente che egli è re degli Ebrei?
- Precisamente perchè egli lo ha detto così chiaro, io ne dubito. Se fosse colpevole, egli avrebbe negato. Egli è dunque pazzo. Io non posso condannare alla croce un uomo che ha perduto la ragione.
- Fa attenzione, procuratore! disse Osea. Quest'uomo non è nè pazzo, nè visionario. Egli è rivoluzionario. Tu ci offendi, se non vendichi la bestemmia contro il nostro Dio. Non ha egli detto perfino che se demolissimo il Tempio, egli lo ricostruirebbe entro tre giorni?
- Vado a farlo flagellare allora per farvi piacere, ripetè Pilato. Ogni altro castigo mi sembra enorme.
- Enorme! mormorò Osea. Procuratore, sta attento. Interroga tutta Gerusalemme che l'ha veduto, quattro giorni fa, entrare nella città accompagnato dai suoi compatriotti che gridavano: Osanna al figlio di Davide, Osanna al re degli Ebrei! Se un fatto simile fosse accaduto a Roma, Tiberio l'avrebbe egli tollerato? La nostra fedele città non ha ceduto alla tentazione, ed ha lasciato passare la sommossa. Ora noi non vogliamo, noi che siamo responsabili dell'ordine nella nostra città, che la notizia ne sia portata a Cesare, e ch'egli ne prenda pretesto per aggravarci di nuove tasse. Noi abbiam fatto il nostro dovere. Abbiamo preso, condannato, e presentato al tuo tribunale il colpevole d'un tentativo d'insurrezione contro l'imperatore; noi ci scaricheremo presso di lui con una ambasciata. Noi non abbiamo alcuna sete di sangue; ma tu resti responsabile delle conseguenze.
- Io non temo le vostre accuse contro di me. Cesare mi conosce. Ma io non voglio creare fra noi dei nuovi appigli di dissapori. Voi volete che quest'uomo, che questo vaneggiatore sia condannato alla croce? io lo condanno. Ma siccome tutti gli anni, alla festa del paschac, io fo grazia ad un condannato, vi propongo di farla al Rabbì. Ho in questo momento quattro condannati a morte fra le mani: costui, un ladro d'Emmaus, l'esseniano Moab che ha tentato di assassinarmi, e Gesù Bar Abbas che ha assassinato Justus. Scegliete.
- Gesù, Gesù! gridò la gente che riempiva il tribunale.
- Ve l'accordo, disse Pilato sorridendo. Popilius, libera quest'uomo.
- Non costui, non costui, replicò la folla, Gesù Bar Abbas.
Pilato impallidì, e fissò il Rabbì. Questi sorrise tristemente. Pilato rientrò nella sala del giudizio, e dettò la sentenza.
In quel momento, io entrai pure nella sala.
Io era inorridito di ciò che avevo veduto.
Maria attendeva al di fuori.
XXXII
Scorgendomi da lungi Claudia, mi gridò con voce piena di gioia.
- Ah! vieni a cercar notizie della piccola Ebrea! Ne avrai. L'ami molto dunque?
- Claudia, non c'è nella lingua umana una parola che esprima quanto io l'ami.
- Ne sono felice, allora.
Claudia aveva trascinato Ida pei capelli, fino al suo appartamento, dopo aver chiuso a chiave la porta della sala del giudizio, che metteva in comunicazione questa stanza del palazzo di Erode cogli altri appartamenti. I suoi schiavi, i suoi ufficiali della corte avevano indietreggiato dinanzi la leonessa che portava la preda nel suo covo, e l'avevano lasciata passare, silenziosi e spaventati. Claudia, arrivata in una delle sue stanze, aveva fatto chiamare il lorarium, e mostrandogli quella cosa svenuta ed affranta stesa a terra, gli aveva detto: «Pei miei pargoli, all'ora ordinaria». Il detto era già conosciuto da quell'esecutore dell'alta e bassa giustizia che appendeva pei capelli le schiave nude, e le flagellava fino alla morte.
Il lorarium era un Lucano, di una piccola città detta Grumentum, omicciattolo tutto muscoli, tutto pelo, dal viso atroce e dall'anima annegata nel sangue, di forza erculea, coraggioso come un lupo affamato. Quest'uomo prese a mezzo corpo la giovinetta svenuta e la portò via. Claudia entrò nel suo gabinetto di teletta.
Io arrivai al momento in cui i misteri delle lozioni e degli unguenti erano ultimati.
Claudia aveva preso il suo secondo pasto. Dopo di questo, ella aveva l'abitudine, quando il tempo era bello, di recarsi nei giardini del palazzo, e di gironzare, cogliendo fiori a bracciate ed assistendo al pranzo dei suoi pargoli.
I pargoli di Claudia erano le murene.
In una immensa vasca di marmo bianco dalle sabbie muscose, ella ne nutriva diverse centinaja cui aveva fatto venire dalla baja di Puteolis che produce le più belle.
La murena è un serpente di mare, lungo due, qualche volta tre braccia, dalla testa e coda appuntite, dal corpo sviluppato, coperto di una pelle viscosa color giallo scuro tigrata di chiazze nere. Questo pesce è avidissimo di sangue e di carne; ed i Romani per regalarlo d'una leccornia, e renderlo più saporito, gli gittavano di tempo in tempo uno schiavo.
Claudia, come i suoi compatriotti, aveva un vivaio di questi pesci, e prendeva un singolare piacere nell'andarli a vedere, quasi ogni giorno, all'ora del pasto, divorare un montone, quando la non aveva a servir loro una delle sue schiave. Questa volta preparava loro una festa imperiale.
Ella mi attendeva per farmi partecipare al suo divertimento.
Sull'orlo del bacino erano state preparate due sedie, e quattro schiavi liburniani, quattro giganti, si tenevano in piedi dietro di esse per farci onore.
Claudia non volle lasciarmi aspettare. Mi prese per mano, e senza dir motto mi condusse nel giardino. Quando scorsi che la mi conduceva verso il sito della vasca delle murene, un brivido mi corse per tutte le membra, tremai ed impallidii. Non osai dirigerle una domanda. Claudia fe' sembiante di non avvedersi di nulla.
Quando fu giunta vicino al bacino, sedette e mi fece segno di sedere. Poi con un movimento del capo diede un ordine al lorarium, che stava ritto all'estremità opposta del vivajo.
Le murene che conoscevano l'ora del loro pasto, brulicavano, saltabellavano nell'acqua, guizzando da ogni parte, accorrendo ad un piccolo scoppiettìo della lingua di Claudia, appello a cui ella le aveva abituate.
- Sono graziose, non è vero? mi disse l'atroce Romana: vedrai come all'opera sono ancor più gentili.
Non risposi verbo. Il mio cuore scoppiava. Allora Claudia volgendosi verso di me, l'aspetto sarcastico e la voce severa, soggiunse:
- Ebreo, la prima sera che mi hai veduta, a cena, hai osato appoggiare le tue labbra sopra un riccio dei miei capelli. Ho cercato a lungo la maniera d'esprimerti il piacere che ne provai. Ho trovato l'equivalente del tuo bacio. Gioia per gioia.
Il lorarium apparve portando Ida nelle sue braccia. Volli alzarmi. Le otto mani degli schiavi liburniani che stavano dietro la mia sedia m'inchiodarono immobile. Volli parlare; un mondo di maledizioni, d'ingiurie, d'imprecazioni, di parole di disprezzo, si precipitò sulla mia lingua: ma questa restò paralizzata. La mia vita scoppiava nei miei occhi.
Il lorarium portò Ida presso al vivajo, e con un sol colpo di mano le strappò tutti i suoi vestiti, e la mise a nudo. Ella gettò un grido che arrivò a Dio nel cielo. Claudia la contemplò impallidendo - ed aveva ben ragione di divenir pallida. Fece un nuovo segno. Il lorarium afferrò la fanciulla, le legò i piedi, e la lanciò nella vasca.
Quarant'anni sono scorsi da quest'avvenimento. Ho assistito a tutti i disastri che possono colpire un uomo; nulla ormai mi commuove. Eppure descrivendo questa scena, il mio vecchio sangue s'agghiaccia ancora nelle mie vene.
Appena il corpo d'Ida cadde nel bacino, quelle centinaja di serpenti, come in un sol gruppo, si scagliarono sopra di lui. Ida si rialzò, e tentò di star in piedi. L'acqua la copriva fino al petto. Cominciò a strappar colle sue161 mani le murene che, come enormi sanguisughe, le si attaccarono con la bocca tutta aperta, formando un disco armato di succhiatoj, e la morsero. Le sue mani scivolavano su quei corpi glutinosi, il cui contatto e la cui vista le cagionavano più orrore che il suo sangue stesso, il quale scorreva da ogni parte sulla sua carne che era maciullata. Ella non gridò. Un gemito sordo, profondo, inarticolato, sfuggiva a sua insaputa dalla sua gola, col suo respiro rantoloso. Per una murena che riesciva a staccarsi dal corpo con un lembo di carne, dieci se le slanciavano alle braccia, al petto, al collo. Gli occhi dilatati schizzavano dalle orbite. I muscoli del viso si contorcevano come quelli d'una isterica. Le murene sprofondavano le loro teste acute nel suo corpo, e l'allacciavano, come potevano, delle loro spire poco flessibili.
Ida ricadeva e spariva sotto l'acqua per un istante; poi si rilevava. Il suo collo, le sue guancie erano state invase e morsicate. Si sarebbe detta una testa di Medusa. Le mani, le braccia erano avvinghiate di quegli orribili mostri. Era divenuta una sola piaga: l'acqua arrossava. In quel punto una murena le saltò alle labbra. Ida piegò. Altre le si appresero agli occhi. Gettò un grido; fece uno sforzo supremo per sbarazzarsi da quelle morse viventi, da quei ferri divoratori, riuscì a sbrattarne per un istante ancora il suo bel viso, orribilmente lacerato, poi vacillò e si abbiosciò.
Io la vidi spasimar sotto l'acqua, aggrapparsi alla sabbia, mordere i rettili che la mordevano. Poi i suoi movimenti rallentarono, cessarono. Ella s'irrigidì, si agghiadò, ed un istante dopo il suo corpo non era più che uno scheletro. Feci uno sforzo per fuggire.
Claudia era scomparsa. Gli schiavi liburniani non mi ritennero più. Il lorarium restava sempre ritto ed impassibile all'altra estremità del bacino. E gli uccelli cantavano; le api ronzavano; le farfalle andavano a zonzo; l'aria era profumata dai primi baci della primavera. Dei fiori delle ajuole, dei verdi ramoscelli sugli alberi, e dinanzi a me la sola donna che io ho amata, divorata! Fuggii, e non so come mi trovai nella sala del giudizio, ove caddi annichilato.
La voce dello scriba che leggeva la sentenza del Rabbì, mi scosse. Corsi a Pilato e con voce sorda gli dissi:
- Tua moglie ha assassinato la sorella; non uccidere il fratello.
- Come! cosa vuoi dire?
- L'ho veduta io stesso, vengo di là, dalla vasca delle murene.
- Ah! la sciagurata! sclamò Pilato coprendosi il viso colle mani.
- Salva almeno quest'uomo, continuai.
- Nol posso, diss'egli disperato: queste tigri attendono la loro preda. La legge è inesorabile.
- Ma gli uomini sanno ridersene, quando vogliono.
- Che posso fare?
- Chi è il centurione che incarichi dell'esecuzione?
Pilato mi guardò fisso, poi disse:
- Sta bene: sarà Lentulus.
Ed uscì sul bima e lesse la sentenza che condannava Gesù a morire per la croce.
Io uscii con Pilato, ed osservai che uno dei commissarii del sanhedrin era uno dei miei amici, Giuseppe di Ramatha. Gli dimandai:
- Non hai tu un giardino presso il Golgotha.
- Sì, perchè?
- Reclama a Pilato il corpo del condannato.
- Cosa vuoi che me ne faccia?
- Te lo dirò, reclamalo.
Quando Pilato ebbe letta la sentenza, ed era per rientrare nel suo palazzo, Giuseppe gli disse:
- Questo condannato non ha parenti. Io ti chiedo il suo corpo per dargli una tomba.
- Prendilo, rispose Pilato, e si schivò.
I commissarii del sanhedrin consegnarono il prigioniero alle guardie romane.
Vidi allora il Rabbì, fermo fino a quell'istante, vacillare e quasi svenire.
Non c'era tempo da perdere. Erano quasi le due ore, ed alle sei, ora in cui principia il sabato, tutto doveva esser finito, il supplizio compiuto, i suppliziati seppelliti. Gli altri prigionieri furono tirati della prigione. Moab e Zabdi mostrarono una grande tranquillità. Bar Abbas, graziato, principiò a sgambettare nella corte, e dire e fare mille buffonerie agli Ebrei che avevano ottenuto la sua grazia.
Furono cavate tre croci dai magazzini del pretorio, ed ogni condannato prese la sua. Il Rabbì avendo protestato che non aveva la forza di portare il suo legno, si pagò un contadino che s'incaricò della bisogna. Insorse contestazione tra Osea e lo scriba del pretorio a proposito della scritta che doveva essere affissa alla croce del Rabbì.
Lo scriba passò oltre, ed il corteggio si mise in cammino. Mi avvicinai a Gesù e gli susurrai all'orecchio: spera!
Egli sorrise di nuovo tristemente.
Era di costume di dare a bere ai condannati, prima di attaccarli alla croce un certo vino aromatizzato che li stordiva. Se il condannato non aveva nè un parente nè un amico per offrirgli questo beveraggio, se nessuna donna pietosa della città non compiva quest'opera di carità, il fisco somministrava il vino.
Prevedendo come il processo del Rabbì sarebbe terminato, io aveva fatto comporre un vino fortemente narcotizzato, di cui bastavano alcune lacrime per dare l'immobilità cadaverica del coma. Mandai Maria a prender codesta droga a casa mia, e col cuore lacerato dal dolore, seguii i condannati.
Quel povero affettuoso Moab mi commoveva. Egli mi chiese d'Ida. Gli risposi, per non rendergli più amari i suoi ultimi istanti, che sua madre la conduceva seco a Cafarnaum.
Il supplizio doveva aver luogo al sito ordinario, sul Golgotha.
Partendo dal palazzo d'Erode, la strada era corta. Passando sotto la torre di Davide, uscimmo dalla porta Genath, e traversammo i boschetti di mandorli, ed i giardini che coronano la fontana di Hezekiah. Sul Gareb, fuori della porta, stava il monumento del grande sacrificatore Giovanni; a pochi passi, il piccolo giardino del mio amico Giuseppe di Ramatha; ancora un po' più lontano, la piccola altura del Golgotha, arida, nuda, di pietra bianca calcare. Tutto ciò al nord-ovest della città. Su quel rialzo di terreno, venivano suppliziati i ladri, gli assassini, i pirati, gli empii, i traditori, i rivoltosi, i falsi profeti, ed i falsi rabbì.
Il Rabbì di Galilea andava a frangervisi come falso messia, empio, ribelle.
La sua condanna era sopratutto politica.
Giuseppe mi aveva presentato al centurione come colui a cui egli doveva consegnare il cadavere concesso da Pilato, ed aveva posto a mia disposizione il suo giardino, il giardiniere e sè stesso.
Egli aveva probabilmente indovinato le mie intenzioni.
Ascendendo il colle dei supplizi, Maria mi raggiunse col fiasco del vino narcotizzato. Le indicai allora Lentulus, un uomo da quarantacinque a cinquant'anni, dal viso bitorzoluto, il naso rosso, il cranio calvo, le labbra pendenti, gli occhi infuocati e lagrimanti - in una parola, il campo di battaglia ove tutti i vizii avevano fatto ressa, e lasciato le loro ruine.
Io non poteva agire direttamente su quel Romano.
I miei tentativi avrebbero avuto l'apparenza di una grossolana corruzione, e sarebbero certamente andati a vuoto. Lasciando agire Maria, tutto ciò ch'ella otterrebbe, e non importa a qual prezzo, per non importa qual mezzo, acquistava il sembiante di una tenera seduzione, di una profonda affezione pel condannato, di una faccenda di cuore, che giustificava nell'istesso tempo e chi la intraprendeva e chi cedeva, ed aveva un grande valore morale. Maria, d'altronde era ancora così bella, aveva la voce così dolce, il viso così carezzevolmente seducente, la parola così penetrante, il fascino così assoluto, che nessuno avrebbe avuto il coraggio di condannare il legionario voluttuoso se avesse subìto una malìa, a cui lo stesso austero Rabbì di Nazareth non avrebbe potuto sottrarsi.
Maria comprese la sua parte, e l'accettò con quella specie di sublime abnegazione della sua persona che ella metteva in tutte le sue azioni.
Quella donna era un cuore.
Allora io mi diedi a consolare gli ultimi momenti di quell'altra nobile creatura, Moab, sempre dirigendo Maria con gli sguardi e con monosillabi nella nostra lingua, che nè il centurione nè i suoi soldati, Siri e Fenici del resto, non intendevano.
Arrivati al sito dell'esecuzione, i condannati deposero le loro croci. I fori per riceverle erano bell'e pronti, poichè, per disgrazia, Gerusalemme non mancava mai di supplizii. Ma questi supplizi erano quasi tutti ordinati dalle autorità romane, ragione per cui il popolo, che suole amare questi drammi sanguinosi e commoventi, li lasciava di frequente compiere nella solitudine.
Il popolo protestava così contro l'oppressore straniero.
Poche persone infatti si trovarono presenti al Golgotha. E ciò ancora per la ragione che erano circa le quattro, e che il sabato principiava alle sei, e che bisognava terminare i grandi preparativi della festa del paschah, e riempire i proprii doveri verso il Tempio. I commissarii del sanhedrin avevano abbandonati i condannati, dal momento in cui Pilato aveva confermato la loro sentenza, e ne aveva assunto la esecuzione.
I tre condannati furono spogliati nudi, secondo l'uso. Maria si avvicinò al Rabbì per fargli bere il vino preparato. Il Rabbì si opponeva. Maria con un segno degli occhi lo decise, ed egli ne inghiottì uno o due sorsi. Non era abbastanza, ma non era neppur poco. Moab ed il suo compagno Zabdi bevvero senza rimorso.
Il Rabbì era agitato da un'inquietudine straordinaria. L'aspetto della morte lo spaventava. Ebbe delle debolezze che mi sorpresero. Si lamentò degli uomini e di Dio. Forse non aveva torto. Nessuno dei suoi discepoli lo assisteva. Alcune donne galilee, che un tempo gli avevano manifestato tanto attaccamento lo contemplavano ancora da lungi, mezzo nascoste dietro i mandorleti. Io mi mostrava sollecito piuttosto per Moab, Maria fu eroica; perocchè ella sentiva gli spasimi doppi soffrendo ad un tempo per lei e pel Rabbì.
Maria ottenne, dopo aver scambiato qualche parola con Lentulus, che non si traforassero con chiodi i piedi del Rabbì, ma le mani soltanto. Ottenne ancora che gli si ponesse sotto ai piedi una tavoletta solida per sostenere il corpo, e fra le gambe un ceppo fortemente conficcato nel tronco della croce per farvelo sedere e diminuire così lo strazio delle mani.
Lentulus accordò tutto, pigolando intorno a Maria come un vecchio colombo. In dieci minuti ella ne aveva fatto il suo schiavo.
Quando tutto fu pronto, il Rabbì si coricò sulla croce. Gli si legarono fortemente i piedi alle cavicchie. Egli inforcò il più comodamente che potè, il piuolo, e tese le mani. Il Rabbì gettò un grido acuto quando i chiodi gliele traversarono. Di natura eminentemente nervosa, sentiva vivamente il dolore. Maria gl'innondò il viso di lagrime, dicendogli dolci parole.
Il Rabbì non rispose motto. La lotta interna gli si dipingeva sul viso, crispava la sua fronte, offuscava volta a volta, o faceva fiammeggiare il suo sguardo.
Quando egli si fu convenientemente adagiato sul suo altare di morte, lo si rizzò dolcemente onde non iscuoterlo troppo; si lasciò scorrere l'estremità inferiore della croce nel suo buco e la si consolidò con dei coni. Prendendo la posizione verticale, un'onda di sangue colorò il viso di Gesù. Ma gli era piuttosto un effetto dell'emozione morale, che del dolore materiale. Una febbre intensa s'accese immediatamente nel suo sangue. Poco dopo, e' chiese da bere. Imbevvi una spugna nel vino speziato, e la portai alle sue labbra. Il Rabbì bevve, e dieci minuti dopo cadde in una specie di coma così completo, così potente, che Maria ed io tememmo per un momento che la forte dose di narcotico, che doveva alleviare i suoi spasimi non l'avesse invece avvelenato.
Erano scorse le quattr'ore della sera.
I pochi curiosi che avevano assistito all'esecuzione erano rientrati in città. Una dozzina di soldati ed il loro capo, Maria ed io, restavamo soli sul Golgotha intorno ai crocifissi. Maria sollecitava Lentulus ad abbreviare la faccenda e Lentulus sembrava più premuroso ancora di lei. Ma se il Rabbì mostrava tutti i sintomi della morte, gli altri due condannati parevano ancora rigogliosi di vita. Si fece loro inghiottire il resto del vino aromatizzato onde stordirli e finirli. Il tempo stringeva.
Erano le cinque ed alle sei tutto doveva essere terminato, le croci abbattute, i cadaveri seppelliti per non contaminare il sabato del Signore, il più solenne di tutto l'anno. Fu mestieri ricorrere al crurifragium ordinario. Fortunatamente, i due altri suppliziati principiavano essi pure a cadere come il Rabbì nell'annientamento della morte. Lentulus diede l'ordine di frangere le gambe e le braccia di Moab e di Zabdi. L'ordine fu eseguito.
Da un'ora, Gesù non dava più segno di vita. I soldati si accinsero ad abbassare le croci. Non si usarono molti riguardi nel rovesciare le croci dei due disgraziati a cui nessuno s'interessava. La croce del Rabbì invece fu coricata dolcemente per di dietro; ed io m'affrettai a tagliare le corde dei piedi, mentre due soldati levavano i chiodi delle mani.
Lentulus, avvegnachè fosse inebbriato dagli sguardi di Maria, non dimenticava interamente la sua responsabilità. Allontanò dunque i suoi soldati, e fece che si occupassero dei due altri suppliziati. Questi furono trasportati, morti o no, sull'orlo del cocuzzolo che domina quasi a picco la orribile valle dell'Hinnon, e vi furono precipitati. I cani, gli avvoltoi, i lupi, le aquile, le iene ne fecero la loro pasqua. Il cadavere del Rabbì mi fu confidato. Lentulus affrettò la sua partenza - sei ore erano vicine, - promettendo a Maria di ritornare, appena spicciato il suo rapporto a Pilato.
Mentre io asciugava le qualche goccie di sangue che zebravano il corpo di Gesù, Maria ed il giardiniere di Giuseppe da Ramatha stendevano un lenzuolo nel quale lo avvolgemmo per meglio portarlo.
C'era in un angolo di quel giardino una grotta, nella quale il giardiniere riponeva i suoi utensili, ed ogni sorta di oggetti che ingombravano il sito. Noi ripulimmo quella cellula e vi deponemmo il corpo. Il giardiniere fu mandato via. Ciò che restava a fare Maria lo avrebbe compiuto.
Lentulus ci raggiunse un'ora dopo, portando dei cordiali ed alcuni vestiti, di cui l'astuto compare prevedeva la necessità.
Maria fu sublime fino all'ultimo istante.
Il terzo giorno, ella sparse la voce fra i discepoli del Rabbì che questi era risuscitato.
Ciò era necessario onde assicurare il successo di quanto avevamo fatto, l'impunità di Lentulus, l'oblio di Pilato, e calmare le coscienze timorose dei membri del sanhedrin, che avevano creduto oltraggiata la legge e dovevano crederla vendicata.
Pilato ed Hannah seppero però da me la verità.
I discepoli, la cui vergognosa vigliaccheria non aveva scuse, tribolarono Maria, chiamandola visionaria, quando ella annunziò loro che il corpo del Rabbì «era stato tolto della sua tomba, e che non si sapeva punto ove lo si fosse messo162.»
E' non credettero mai - quei semplicioni! - alla resurrezione del loro maestro.
Tre mesi dopo, mia sorella vedova, Noah, il mio amico ed io c'imbarcammo a Joppa per Taranto.
XXXIII
Tre anni sono scorsi dagli ultimi avvenimenti che ho più su raccontati.
Siamo a Roma.
Un giorno, andando alle Terme, incontrai Pilato, il quale, avendo finito i suoi dieci anni di potere, ritornava a Roma.
Io aveva allora ventisei o ventisette anni.
Avevo adottato il costume greco, e passavo per un cittadino di Rodi. La mia barba era cresciuta, la vita elegante della gioventù d'Antinoo che io menava aveva profondamente alterato i miei lineamenti. Malgrado ciò Pilato mi riconobbe e mi venne incontro.
La sua prima parola fu pel mio amico. Un sospiro doloroso sfuggì dal mio petto. Mi dimandò di visitarlo. Gli risposi di affrettarsi poichè le ore di quel disgraziato erano contate. Pilato non fece neppur un'allusione a sua moglie. Il nome solo di Claudia mi dava i brividi. Pilato mi confidò ch'egli non voleva vivere a Roma, ove ad ogni momento si urtava a memorie che l'oltraggiavano, e che partiva tra pochi giorni per la Spagna, per il suo bel paese d'Hispalis (Siviglia) ove andava a fissare la sua dimora con i suoi due figliuoli.
All'indomani, Pilato venne a trovarci.
Era tempo.
Avevamo una piccola casa sul monte Esquilino con un bel giardino sul di dietro.
Era il principio di maggio, all'ora quarta. Una giornata splendida; il sole era in festa. L'aria ripiena di canti e di profumi; la terra dei fiori. Sotto un piccolo portico che copriva il ballatoio dei gradini del giardino, sopra dei cuscini, avviluppato di coltri giaceva un ammalato. Noah se ne stava dietro di lui, e mia sorella di fronte avendo alle mani una coppa con non so che cervogia.
Il mio amico moriva di consunzione.
Aveva voluto vedere il sole per l'ultima volta e spirare guardando il cielo.
È sì triste morire fissando un soffitto di legno!
Da tre anni, il mio amico deperiva. Era sempre malinconico, sovente cupo. Non sorrideva più. Parlava pure raramente, evitando ogni memoria del passato. Non volle vedere nessuna delle sue antiche conoscenze. Solo Maria di Magdala gli scrisse tre o quattro volte, implorando che la lasciasse venire a raggiungerlo a Roma. Il mio amico, vivamente commosso, profondamente tocco, le rispose, ma le ingiunse di restare nella Siria. Un uomo però fu da lui ricevuto: un certo Saul da Tarso, uomo di spirito elevato, ma panneggiato di roffia ed entusiasta. Costui vide due volte il mio amico e conversò con lui da solo a solo lungamente. Poi più nessuno, più nulla. Il mio amico viveva in una tomba in mezzo al mondo vivente.
Egli non godeva della creazione che per buffi; talvolta un'alba splendida, talvolta un tramonto malinconico, talvolta un chiaro di luna inebbriante, un fiore di qui, di là una carezza di quella buona Noah o una dolce parola della mia eccellente sorella, la quale l'amava come la mi amava - vale a dire come dieci madri! Ora il momento fatale era arrivato. L'olio della lampada era consumato fino all'ultima goccia: la vita era usata.
Io aveva chiamato dei medici greci ed asiatici. Nessun d'essi non aveva trovato la benchè minima cosa per involare un'ora alla clepsidra del tempo. Avevo comperato dei filtri alle sagas; i loro beveraggi avevano invece forse affrettata la catastrofe. Il mio amico si era prestato a tutto per compiacermi, ma fino dal primo giorno, mi aveva dichiarato che la sua vita era stata estinta, e che lo smagamento ed il disinganno lo uccidevano.
Il disinganno! Quanti grandi spiriti non furono spenti da questa spaventevole ed incurabile malattia!
Il mio povero amico non era più riconoscibile. Del suo sembiante così accentuato, non restavano più che gli occhi, quantunque il loro splendore così mobile, così potente, così diverso, fosse estinto.
Le sue mani erano agghiadate, il pallore della sua fronte principiava a divenir livido. Il suo cuore non si udiva più battere. Il suo alito si spegneva. La morte lo invadeva. Pure riconobbe Pilato, quando questi, entrando, venne a porsi dinanzi a lui. L'amico mio sentì un lampo di vita traversargli la persona. I suoi occhi brillarono, aprendosi in tutta la loro grandezza. Potè dire, tentennando leggermente del capo: Grazie! Poi l'immagine d'Ida rizzandosi forse nella sua anima, e' s'offuscò, nascose il viso nel seno di Noah, e vi restò assorbito per due minuti. Pilato non osò aprir bocca.
Il mio amico sapeva ciò che quest'uomo, brusco ma buono, aveva fatto.
Finalmente il mio amico alzò il capo e lo rivolse verso il sole.
- Dio mio! come la luce è bella! e' sclamò!
E restò coi grandi occhi aperti fissi sul cielo.
Ma poco a poco noi vedemmo quegli occhi oscurarsi, le pupille restringersi, le palpebre ricadere. Un soffio leggero si sprigionò dalla sua bocca, questa si rischiarò d'un sorriso, la testa s'inchinò sul suo petto....
Egli era morto.
Appendix A NOTE
Nota A.
Il Talmud, capitolo VI, Sanhedrin, parla della lapidazione di un Gesù di Nazareth convinto di magia, di seduzione e di corruzione dei suoi correligionari. Al capitolo seguente si trova menzionato un altro Gesù figlio di Pandira e di Maria, crestaia, moglie di Studa, ovvero di una certa Stada moglie di Papus, figlio di Iehuda. Questa Maria era di Lydda e visse circa 70 anni dopo Maria, madre del Gesù dei cristiani. Gli è questo il Gesù che, ci dice Raban Maur, i Giudei maledicevano in tutte le loro preghiere come empio, figlio di un empio, il pagano Pandera, e dell'adultera Maria. Infine, un terzo Gesù, dugento anni circa innanzi il Cristo, aveva, dicono gli Ebrei, istituita l'idolatria della croce. (Disputat. R. Jachiel cum Nicol. apud Wagenseil Tela ignea Satanae, p. 16 ad 21. - Raban Maur, lib. contra Judaeos, n. 40, apud Chifflet, Int. scriptor. veter. de fid. cathol., p. 333).
Il libro del Toldos Jeschuà dà molti altri ragguagli. Eccone un estratto.
Wagenseil, ove noi gli abbiamo attinti, avverte che Raymond Martin, nel suo Pugio fidei, ne aveva già dato dei brani alquanto diversi da quelli che egli pubblica. Ma le citazioni di questo libello fanno stomaco. Le tralascio per ciò, come pure tralascio di riassumere l'Istoria di Jeschua di Nazareth di J. J. Huldrie, che si può leggere in Potter, Hist. du Christ, ed altri documenti curiosi pubblicati a Lipsia da Constantinus Tischendorff: Evangelia apocrypha, ecc. Traduco invece dal Fabricius: Codices apocryph. novi Testam., i brani seguenti del Protoevangelio attribuito a S. Giacomo. Le anime pie me ne sapranno forse grado163.
VIII.
Maria era come una colomba allevata nel tempio del Signore e riceveva il suo nutrimento dalle mani di un angelo. Quando ella ebbe dodici anni, si tenne (nel tempio del Signore) un consiglio di sacerdoti, dicendo: Ecco che Maria ha dodici anni nel Tempio del Signore, che le faremo, onde allontanare la paura che la santificazione del Signore nostro Dio non sia maculata? Ed i sacerdoti dissero a Zaccheria: Principe dei sacerdoti, presentatevi all'altare del Signore e pregate per lei; e quello che Dio ci avrà manifestato, noi lo faremo. Ed il principe dei sacerdoti avendo rivestita la sua lunga tunica a dodici campanelli, entrò nel santo dei santi, e pregò per lei. Ed ecco che l'angelo del Signore si presentò dicendogli: Zaccheria, Zaccheria, esci e convoca i vedovi del popolo e ch'essi portino ciascuno una verga164, e la sarà donata in guardia per moglie a colui a cui Dio avrà mostrato un segno. Ora, dei banditori pubblicarono questo avviso in tutte le regioni della Giudea, la trombetta del Signore suonò165, e tutti accorsero.
IX.
Ora, Giuseppe avendo gittata la sua accetta, uscì loro davanti, ed essendosi assembrati, e' se ne tornarono al gran sacerdote dopo aver preso le loro verghe. Il gran sacerdote ricevendo queste verghe dei suoi banditori, entrò nel Tempio e pregò. L'orazione terminata, prese le verghe ed uscì. Allora le rese ad ognuno di loro, ma alcun segno non apparve. Giuseppe ricevè l'ultima verga, ed ecco che una colomba scappa fuori da essa e vola sul capo di Giuseppe. Ed il gran sacerdote gli dice: Voi siete scelto dalla sorte divina per prendere in guardia in casa vostra la vergine del Signore. E Giuseppe si scusa dicendo: Ho dei figli e son vecchio, ed ella è giovane; quindi temo addivenir ridicolo agli occhi dei figli d'Israello. Ma il gran sacerdote risponde: Temete il Signore vostro Dio e risovvenitevi quali grandi cose fece Dio166 contro Dathan, Abiron e Corè, e come la terra si aperse e li ingoiò a causa della loro contraddizione. Temete dunque Iddio adesso, Giuseppe, onde queste cose non avvengano in casa vostra. Giuseppe atterrito, ricevè la vergine e le disse: Maria, ecco che io prendovi nel Tempio del Signore e vi lascio a casa. Vado per esercitare la professione di carpentiere (e ritornerò a voi). E che il Signore vi conservi (ogni dì).
X.
Ora, e' si tenne un consiglio di sacerdoti dicendo: Facciamo un velo (o tappeto) pel Tempio del Signore. Il principe dei sacerdoti disse: Fatemi venir delle vergini senza macchia, delle tribù di Davide. Si misero in cerca. Ne trovarono sette. Il principe dei sacerdoti si risovvenne di Maria, anch'ella della tribù di Davide e non per anco contaminata. Il principe disse: Tirate a sorte a chi di voi filerà del filo d'oro (di amianto) e di lino sottile (e di seta) e di giacinto, e di scarlatto, e della vera porpora. E Zaccheria si ricordò di Maria della tribù di Davide; e la vera porpora (e lo scarlatto) cadde a lei per sorte, ed (avendoli ricevuti) se nè tornò a casa. Ora in quel tempo Zaccheria perdè la parola167. Samuele prese il suo posto fino a che Zaccheria non ricominciò a parlare. Maria avendo ricevuto la porpora (e lo scarlatto) filò.
XI.
Ed avendo preso un'anfora, uscì ad attinger l'acqua168. Quand'ecco una voce che le dice: Vi saluto, piena di grazie169; il Signore è con voi; voi benedetta fra tutte le donne. Maria guardò a dritta ed a manca per scorgere donde quella voce venisse. Poi tutta tremante tornò a casa e lasciò l'anfora, ed avendo presa la porpora, si assise alla sua sedia per lavorare. Ed ecco che l'angelo del Signore se le presenta e le dice: Non temete, Maria, voi avete trovato grazia appo il Signore. Ed ascoltandolo, Maria pensava fra sè: Concepirò per il Dio vivente e partorirò come ogni donna che genera? E l'angelo: E' non sarà così, Maria! lo Spirito Santo verrà su voi e la virtù di Dio vi coprirà della sua ombra. Ed ecco perchè il santo che da voi nascerà170 sarà chiamato il figlio del Dio vivente. Gli darete il nome di Gesù, perchè sarà desso che salverà il suo popolo dai peccati di lui. Ed ecco pure che la vostra cugina Elisabetta ha concepito un figliolo nella sua vecchiezza, e questo è il sesto mese per lei che era addimandata sterile, perciocchè tutto quanto io vi dico, non sarà impossibile per Dio. E Maria: Ecco la serva del Signore; che sia fatto secondo la vostra parola.
XII.
Ed avendo terminato la porpora e lo scarlatto, li portò al gran sacerdote. E' la benedisse e disse: O Maria, il vostro nome è magnificato e sarete benedetta in tutta la terra. Maria avendo concepita una grande gioia, se ne andò ad Elisabetta sua cugina e picchiò alla porta. Elisabetta, intendendola, accorse, aperse e le disse171: Donde dunque mi capita questa fortuna che la madre del mio Signore venga a me? imperciocchè quello che è in me, ha trasalito e vi ha benedetto. Ora172 Maria ignorava ella stessa questi misteri di cui l'arcangelo Gabriele le aveva parlato. E guardando il cielo le disse: Chi sono io perchè tutte le generazioni mi dicano così avventurata? Ma di giorno in giorno il suo ventre ingrossava, e, presa da paura, Maria se ne tornò in sua casa e si nascose dai figli d'Israele173. Ella aveva174 sedici anni quando questo mistero s'operò.
XIII.
A capo del sesto mese, ecco che Giuseppe ritornò dai suoi lavori di carpentiere, ed entrando in casa sua vide incinta Maria. Col viso abbattuto (e' si gettò per terra e pianse amaramente) dicendo: Di qual fronte oserò guardare io il Signore Iddio? quale preghiera farò io per questa piccola creatura che ricevei vergine dal Tempio del Signore Iddio e non l'ho guardata? Chi mi ha ingannato? Chi ha fatto questo male in casa mia? Chi ha cattivata e sedotta la vergine? Non mi è avvenuta una storia simile a quella di Adamo? perchè all'ora della sua gioja il serpente entrò, trovò Eva sola e la sedusse? Sì, sì, simile cosa emmi arrivata. E Giuseppe risorse di terra, ed avendo presa Maria, le disse: O voi che eravate così gradita al Signore, perchè avete voi fatto ciò ed avete obliato il vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo dei santi? Perchè avete voi avvilita l'anima vostra, voi che ricevevate il vostro nutrimento dalle mani degli angeli?175 Perchè avete fatto ciò? Ma ella piangeva amaramente dicendo: Io sono pura; io non ho conosciuto alcun uomo. E Giuseppe di rimando: E donde vi viene dunque codesto che avete nel seno? Maria rispose: Il Signore mio Dio è vivente: io ignoro donde questo mi venga.
XIV.
E Giuseppe, affatto interdetto, persisteva nel suo pensiero: Che mi farò io di lei? Poi dicevasi in fra sè: Se nascondo il suo peccato, io sarò trovato colpevole nella legge del Signore176; se la denunzio agli occhi dei figli d'Israello, temo che ciò non sia giusto e che non trovino che io consegno il sangue innocente ad un giudizio di morte. Che farò dunque di lei? Certo, io l'abbandonerò di nascosto. La notte lo sorprese. Ed ecco che l'angelo del Signore gli apparisce in sogno dicendogli: Non temere di ricevere codesta giovinetta, perocchè ciò che è nato in lei è dello Spirito Santo: ella partorirà dunque un figliuolo, e tu gli darsi il nome di Gesù, perchè sarà desso che salverà il suo popolo dai suoi peccati. Giuseppe si alzò dopo questo sogno, e glorificò il Dio d'Israello che avevagli fatto questa grazia. E tenne seco la fanciulla.
XV.
Ora, lo scriba Annas venne a Giuseppe e gli disse: Perchè non avete voi assistito all'assemblea? E Giuseppe: Ero stanco del viaggio e mi sono riposato il primo dì. Ed essendosi vôlto, lo scriba vide Maria incinta. E' se ne andò correndo al prete, e disse: Giuseppe, che voi avete garantito, ha peccato gravemente. Ed il prete: Cosa è dunque? E lo scriba: Ha contaminata la vergine che aveva ricevuta dal Tempio, ha celate le sue nozze e non le ha dichiarate ai figli d'Israele. Il principe dei preti rispose: Giuseppe ha fatto ciò? E lo scriba Annas a ripetere: Mandate dei ministri e la troveranno incinta. I ministri andarono infatti e trovarono vero il detto dello scriba. Essi condussero con loro Maria e Giuseppe al giudizio. Il prete disse: Maria, perchè avete voi fatto ciò? perchè avete voi avvilita l'anima vostra ed avete obliato il Signore vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo dei santi, che avevate ricevuto il vostro cibo dalla mano dell'angelo, che avete udito i suoi misteri (ed avete palpitato di gioia alla sua presenza): perchè avete voi fatto ciò? Ma ella piangeva amaramente dicendo: Ne attesto il Dio vivente! sono pura alla presenza del Signore, non giacqui con uomo. Il prete disse a Giuseppe: Perchè avete voi fatto ciò, voi? E Giuseppe: Il Signore Dio è vivente (ed il suo Cristo177 è vivente) perchè io sono puro di lei. Ed il prete di nuovo: Non dite una falsa testimonianza178 ma il vero: voi avete nascoste le sue nozze e non manifestate ai figli d'Israele; e non avete inclinata la vostra testa sotto la mano onnipotente179 affinchè la vostra razza fosse benedetta. Giuseppe si tacque.
XVI.
Il prete riprese: Restituite la vergine che avete ricevuto dal Tempio. Giuseppe ruppe in lagrime. Ed il prete: Vi farò bere dell'acqua del convincimento180 ed il vostro peccato sarà manifesto ai vostri propri occhi. Ed il prete avendo preso di quell'acqua, ne diede a bere a Giuseppe e lo mandò nelle montagne e ne ritornò sano. (Ne diede a bere anche a Maria cui mandò pure nelle montagne donde ritornò sana anch'ella.) E tutto il popolo ammirò che il peccato non si fosse in loro manifestato. Il prete disse: Dio non ha manifestato il vostro peccato, io non vi giudico. E li rimandò assoluti. Giuseppe avendo ricevuto Maria, se ne ritornò a casa gaudioso e glorificando il Dio d'Israello.
XVII.
Ora, si pubblicò un decreto di Augusto Cesare per fare iscrivere tutti coloro che erano a Bethleem181. Giuseppe disse: Avrò cura di far iscrivere i miei figliuoli, ma che farò di questa giovinetta? (Come la iscriverò io?) la iscriverò come mia moglie? (Ella non è mia moglie perchè l'ho ricevuta dal Tempio per conservarla) come mia figlia? Ma tutti i figli d'Israele sanno ch'ella non lo è. Che ne farò io dunque? Sicuro, il giorno del Signore, farò come il Signore vorrà. E Giuseppe sellò un'asina e la fece cavalcare su quella. Ora Giuseppe182 e Simone seguivano a tre miglia. E Giuseppe volgendosi vide che Maria era triste e disse tra sè: forse ciò che è in lei l'affligge. Poi volgendosi una seconda volta la vide ridere, e soggiunse: Cosa è Maria, che la vostra faccia è ora gaia, ora malinconica? E Maria a Giuseppe: Gli è che io veggo dinanzi agli occhi miei due popoli183, l'uno che piange e geme, l'altro che sussulta di gioia e ride. Giunti a mezza via, Maria gli disse: Scendetemi dall'asina, quegli che è in me fa ressa per uscire. Giuseppe la discese dall'asina e le disse: Ove vi condurrò io poichè il luogo è deserto? Ora, Maria disse ancora una volta a Giuseppe: Conducetemi, portatemi via, quegli che è in me fa estremamente premura. E subito e' la portò via.
XVIII.
E trovando quivi una caverna, ve la fece entrare e la lasciò in custodia a suo figlio, mentre egli andava in cerca di una levatrice ebrea nelle regioni di Bethleem. Ora, come Giuseppe era in cammino, egli vide il polo, o il cielo a fermarsi, l'aria tutta interdetta, e gli uccelli del cielo arrestarsi a metà del loro corso. E guardando la terra, scorse una pentola di carne preparata, e degli operai assisi a tavola, le mani nella pentola; e masticando, e' non masticavano nulla, e quei che portavano le mani al capo non vi prendevano nulla, que' che le presentavano alla bocca non vi portavano niente, ma le facce di tutti erano intente verso il cielo. Ed ecco che delle pecore si erano disperse (non avanzavano punto), ma stavano ferme. Ed il pecoraio levando la mano per percuoterle della sua verga, la mano restò tesa in alto. E guardando nel torrente, vide il muso dei becchi approssimato alla verità dell'acqua ma non bere; (infine, ogni cosa, in quel momento, stornata dal suo corso).
XIX.
Ed ecco che una donna, scendendo dalla montagna, gli dice: Vi dimando, uomo, ove andate voi? E Giuseppe: Cerco una donna levatrice ebrea. Ed ella: Siete d'Israele, voi? Sì, risponde Giuseppe. E colei: Chi è dunque la donna che partorisce nella caverna? - È la mia fidanzata. - Non è dunque la vostra moglie? - E Giuseppe: Non è mia moglie, ma Maria, allevata nel santo dei santi al Tempio; la mi cadde in sorte, ed ha concepito per lo Spirito Santo. - E la levatrice a riprendere: È ciò vero? - Venite e vedete, sclamò Giuseppe. La levatrice andò con lui. Si fermò innanzi la caverna. Ed ecco un nugoletto luminoso ombreggiava la caverna. La levatrice gridò: Oggi l'anima mia è stata magnificata, poichè i miei occhi hanno visto delle cose stupende ed il salvamento è nato in Israello. Ora, di un tratto il nugoletto penetra nella caverna, e con esso una sì grande luce che gli occhi non la potevano tollerare. Poco a poco però la luce si moderò, di guisa che si potè scorgere il bambino che prendeva le mammelle di sua madre, Maria. La levatrice gridò: Questo di oggidì è un gran giorno per me, perchè ho visto un così grande spettacolo. Ella uscì dalla caverna ed incontrò Salomè a cui disse: Ho un grande spettacolo a raccontarvi; una vergine ha concepito colui che la natura sua non comporta (e questa vergine è restata vergine). E Salomè: Per il Signore Iddio vivente! se io non esamino la sua natura, non crederò che la ha partorito.
XX.
La levatrice entrò e disse a Maria: Coricatevi, perchè una grande prova si prepara per voi. E quando Salomè l'ebbe toccata nel luogo proprio, uscì gridando: Sventurata me, empia e perfida, perchè ho tentato il Dio vivente, ed ecco che la mia mano (bruciante di fuoco) cade dal mio braccio. Poi ella si genuflettè innanzi a Dio e disse: Dio dei padri nostri, sovvengavi di me, perchè io mi sono della razza di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; io non mi disonorerò innanzi ai figli d'Israello; ma restituitemi ai miei parenti; perchè voi sapete, Signore, che gli era in vostro nome che io adoperavo tutte le mie cure (e le mie vocazioni) e da voi ricevevo la mia ricompensa. Allora l'Angelo del Signore si presenta a lei e dice: Salomè, Salomè, il Signore vi ha esaudita; presentate la vostra mano al bambino e portatelo; egli sarà per voi salute e gioia. Salomè si avvicinò e lo portò, dicendo: L'adorerò perchè è desso il gran re nato in Israello. Ed avendo portato l'infante, di un tratto Salomè fu guarita, e la levatrice uscì dalla caverna giustificata. Ed ecco che una voce le dice: Non annunziate le grandi cose che avete viste fino a che il bambino non entri in Gerusalemme. E Salomè si ritirò giustificata.
Nota B.
Ciò che segue è estratto dal Vangelo di Nicodemo, o attribuito a questo discepolo, che attestò principalmente la passione e la resurrezione del rabbì di Nazareth. Egli non è naturalmente d'accordo con Giuda. Noi avremo date per tal modo le due versioni; il lettore sceglierà, secondo il suo spirito.
I.
Perchè Annas, e Chaiphas, e Summas, e Batam, Gamaliel, Judas, Levi, Nephtalim, Alessandro e Ciro, e gli altri Giudei vennero verso Pilato, a proposito di Gesù, accusandolo di parecchie cattive azioni e dicendo: Noi sappiamo che Gesù è figlio di Giuseppe il carpentiere, nato di Maria, ed e' dice ch'è figlio di Dio184, e re, e non solo dice ciò ma vuole abolire il sabbato185 e la legge dei padri nostri. I Giudei gli dicono: Noi abbiamo per legge di non guarire altrui in dì di sabbato; ora, egli ha guarito zoppi, sordi, paralitici, leprosi, ciechi, demoniaci, per mezzo di cattive pratiche. Pilato disse loro: Come, per mezzo di cattive pratiche? Essi risposero: Sì, egli è mago, ed è per mezzo del principe dei demoni ch'egli scaccia i demoni e che questi gli sono tutti sommessi186. Pilato osservò: Non è possibile cacciar via i demoni per mezzo dello spirito immondo, ma per la virtù di Dio187. I Giudei gli risposero: Noi preghiamo Vostra Grandezza che lo facciate comparire innanzi al vostro tribunale e lo interroghiate. Ora, Pilato, chiamando un cursore gli domandò: Per qual modo si può condurre il Cristo qui? Il cursore uscì, lo riconobbe, l'adorò, e stese per terra un mantello ch'ei portava al braccio, dicendo: Signore, camminatevi sopra, entrate, perchè il governatore vi chiama. Ma i Giudei, vedendo ciò che il cursore aveva fatto, se ne lamentarono a Pilato dimandandogli: Perchè non gli avete voi fatto intimazione per usciere anzi che per un cursore? Questi, vedendolo, lo ha adorato, ha steso il suo mantello per terra. Pilato chiamò il cursore e chiese: Perchè avete voi fatto ciò? Ed il cursore: Quando mi mandaste di Gerusalemme ad Alessandria188, io vidi Gesù cavalcare un'umile asina e gli Ebrei a gridargli dietro: Hosanna! tenendo dei rami nelle loro mani; poi altri spiegavano le loro vesti sulla via e dicevano: Salvateci voi che siete nel cielo, benedetto sia colui che viene nel nome del Signore. I Giudei gridarono dunque contro il cursore osservando: Gli è vero, i figli degli ebrei gridavano in ebreo; ma voi, che siete greco, come mai comprendevate la lingua degli ebrei? Il cursore rispose: Interrogai qualcuno dei Giudei chiedendo: Cosa dunque quei figliuoli gridano in ebraico? e' me lo spiegò dicendo: gridano Hosanna! ciò che vuol dire: Signore rendete santo, ovvero Signore, salvate. Pilato obbiettò loro: E voi, perchè attestate voi le parole che quei fanciulli dissero? in che il cursore ha peccato? E' si tacquero. Il governatore ordinò al cursore: Uscite, e di qualunque maniera siasi, fatelo entrare. Il cursore uscì, fece come la prima volta e disse: Signore, entrate, il governatore vi appella.
Gesù entrò e si avvicinò ai portastendardo che tenevano i loro pennoni. Le loro teste s'inchinarono ed adorarono Gesù. I Giudei gridarono sempre più, contro i portabandiera adesso. Ora Pilato disse ai Giudei: Voi non approvate che le sommità degli stendardi si siano curvate da sole ed abbiano adorato Gesù. Ma come gridate contro i portabandiera perchè si sono bassati e l'hanno adorato? Essi risposero: Noi abbiamo visti i porta insegne curvarsi ed adorare Gesù. Pilato chiamò costoro e chiese: Perchè avete voi fatto ciò? I portainsegne risposero: Noi siamo pagani e servitori dei tempj; come potevamo noi adorarlo? Ma come noi tenevamo i nostri pennoni, questi si sono inclinati e lo hanno adorato. Pilato disse ai capi della sinagoga: Scegliete voi stessi degli uomini forti, ch'essi tengano gli stendardi, e vediamo se questi si curvano da sè soli. Gli anziani dei Giudei vedendo dodici uomini ben vigorosi, diedero loro gli stendardi e li fecero comparire avanti al governatore. Pilato ordinò al cursore: Fate uscire Gesù e fatelo rientrare come vorrete. Gesù ed il cursore uscirono dal pretorio. Pilato chiamò i primi porta insegne, giurando loro per la salute di Cesare, che se e' non tenessero fermi gli stendardi quando Gesù entrerebbe, farebbe loro tagliare la testa. Ed ordinò che Gesù rientrasse. Il cursore fece come la prima volta e pregò Gesù di camminare sul suo mantello. Gesù entrò, camminò su quello, e gli stendardi si curvarono e l'adorarono.
II.
Pilato, vedendo ciò, fu preso da terrore, e volle alzarsi dal suo seggio. Ma come e' pensava a ciò fare, la sua sposa, che era lontano, mandogli a dire: Non vi mischiate di codesto giusto189; perocchè io ho molto sofferto in sogno la scorsa notte, a causa di lui. I Giudei, udendo ciò, dissero a Pilato: Non vi avevamo noi prevenuto ch'egli è mago? Ecco che egli ha mandati dei sogni a vostra moglie. Pilato chiamò Gesù e gli disse: Udite voi ciò che e' depongono contro di voi? e voi tacete? Gesù rispose: S'e' non avessero facoltà di parlare, non parlerebbero. Ma perchè ciascuno ha il potere di parlare, bene o male, essi vedranno. Gli anziani dei Giudei dimandarono: Cosa vedremo noi? La prima cosa che abbiamo visto di voi, gli è che voi siete nato dalla fornicazione. Poi, che alla vostra nascita, i fanciulli di Betleem sono stati trucidati. In terzo luogo, che vostro padre e vostra madre Maria se la svignarono in Egitto perchè non avevano confidenza nel popolo. Qualcuno dei Giudei presenti, che pensavano bene, soggiunsero: Noi non diciamo che egli è nato dalla fornicazione; codesto discorso non è vero, perchè il matrimonio fu compiuto, come lo attestano persone stesse della nostra nazione. Annas e Caiphas dissero a Pilato: Bisogna ascoltare la moltitudine che grida ch'egli è nato dalla fornicazione ed è mago. Coloro che negano ciò, sono suoi proseliti e suoi discepoli. Pilato domandò a Annas ed a Caiphas: Quali sono codesti proseliti? Risposero: E' dicevano or ora ch'erano pagani, ed eccoli di un tratto divenuti giudei. Elièzer, Asterius, Antonio, Giacomo, Cyrus, Samuel, Isaac, Phinees, Crispus, Agrippa, Annas e Giuda risposero a volta loro: Noi non siamo proseliti, ma figli di Ebrei ed attestiamo la verità, perchè abbiamo assistito al matrimonio di Maria. Ora, Pilato, volgendo la parola ai dodici uomini che avevano ciò detto, disse: Ve ne scongiuro per la salute di Cesare, è costui nato dalla fornicazione? ciò che voi dite è vero? Essi risposero: Noi abbiamo per legge di non giurare perchè ciò è peccato; ma che costoro giurino essi per la salute di Cesare che noi abbiamo mentito, e noi ci dichiariamo colpevoli di morte. Annas e Caiphas osservarono: Codesti dodici non ci crederebbero; ma noi sappiamo che il rabbì è nato dal delitto ed è mago. Egli dice inoltre esser figlio di Dio e re, ciò che noi non crediamo, e perfino temiamo di udire. Pilato fece uscire tutti, eccetto i dodici che attestavano non essere il rabbì nato da fornicazione, fece tirar da parte anche costui, e dimandò loro: Per quale ragione i Giudei vogliono far morire Gesù? I dodici risposero: Il loro zelo proviene da che il rabbì guarisce in giorno di sabbato. E Pilato: Gli è dunque per un'opera buona che vogliono dargli la morte? Sì, signore, sclamarono i dodici.
III.
Pilato uscì allora dal pretorio e disse agli Ebrei, con grande collera: Prendo la terra a testimonio, che io non trovo colpa in questo uomo. I Giudei risposero: Se e' non fosse un malfattore, non ve lo avremmo menato qui. E Pilato: Prendetelo dunque e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei fecero osservare: Non ci è permesso di mettere alcuno a morte. Pilato disse ai Giudei: La vostra legge vi dice dunque: non uccidete190: non è lo stesso di me? Ed entrando per la seconda volta nel pretorio, Pilato fece venir Gesù solo e gli chiese: Siete voi il re dei Giudei? Gesù rispose: Dite voi ciò da voi stesso o altri ve lo hanno detto di me? Pilato sclamò: Sono Giudeo io forse? La nazione ed il principe dei sacerdoti mi vi hanno consegnato. Cosa avete voi fatto? E Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se lo fosse, i miei ministri avrebbero resistito e non sarei stato gittato ai Giudei; ma ora il mio regno non è qui. Pilato chiese: Voi siete dunque re? Gesù rispose: Voi dite che io sono re. Poi soggiunse: Io sono nato in ciò, sono nato per ciò, per ciò son venuto, vale a dire, per rendere testimonianza alla verità; e chiunque appartiene alla verità ode la mia voce. Pilato chiese: Cosa è dunque la verità? E Gesù: La verità è del cielo. La verità non è dunque sulla terra? osservò Pilato. E Gesù: Fate attenzione che la verità è sulla terra fra coloro che mentre hanno il potere di giudicare, si servono della verità e rendono giuste sentenze.
IV.
Pilato lasciò Gesù nel pretorio, uscì fuori verso i Giudei e disse loro: Io non trovo una colpa sola in Gesù. I Giudei gli rammentarono: Egli ha detto191: Io posso distruggere il Tempio di Dio e rifabbricarlo in tre dì. Pilato domandò: Di qual Tempio parla desso? I Giudei risposero: Di quello cui Salomone edificò in quarantasei anni192; ed egli ha detto che egli può distruggerlo e rialzarlo in tre dì. Pilato replicò: Io sono innocente del sangue di quest'uomo; voi vedrete. Ed i Giudei: Ebbene, che il suo sangue sia su noi e sui nostri figliuoli. Pilato chiamò gli anziani e gli scribi, i preti ed i leviti ed in segreto disse loro: Non fate ciò: io non ho trovato nulla degno di morte nella vostra accusa in quanto alla guarigione dei malati e la violazione del sabbato. I preti ed i leviti risposero: Per la salute di Cesare, se qualcuno ha bestemmiato193 è degno di morte. Ora, costui ha bestemmiato contro il Signore. Il governatore fece uscire una seconda volta i Giudei dal pretorio e richiamando Gesù, gli disse: Che ho a fare di voi? Gesù rispose: Come sta detto. E Pilato: Come è dunque detto? Gesù gli apprese: Mosè ed i profeti hanno annunziato la mia passione e la mia risurrezione. Quando i Giudei appresero ciò ne furono grandemente irritati, e sclamarono: Volete voi dunque udire più oltre le bestemmie di codesto uomo? Pilato disse: Se questo discorso vi sembra una bestemmia, prendetevelo, citatelo alla vostra sinagoga e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei risposero: La nostra legge decide che se un uomo pecca contro un uomo egli merita ricevere quaranta colpi meno uno194; ma se ha bestemmiato contro il Signore, di essere lapidato. Pilato soggiunse: Se questo discorso è una bestemmia, giudicatelo voi stessi secondo la vostra legge. I Giudei continuarono: La nostra legge ci ordina di non uccidere alcuno195. Noi vogliamo ch'egli sia crocifisso, perchè è degno della croce. E Pilato: Non è bene che sia crocifisso; ma castigatelo e rinviatelo196. Ora il governatore guardando al popolo giudeo che lo circondava vide taluni piangere. Ei disse al principe dei sacerdoti: Tutta la moltitudine non desidera la sua morte. Gli anziani invece osservarono: Noi e tutta la moltitudine non siamo venuti qui che per domandare ch'egli muoia. E Pilato: Perchè morrebbe egli? Ed essi: Perchè si dice figlio di Dio e re.
V.
Ora, un certo Nicodemo, giudeo, si presentò innanzi al governatore e disse: Vi prego, giudice misericordioso, che vogliate ascoltarmi un istante. Pilato rispose: Parlate. E Nicodemo: Sono io che ho detto agli anziani, agli scribi, ai sacerdoti, ai leviti ed a tutta la moltitudine dei Giudei nella sinagoga: che vi volete da quell'uomo? egli fa parecchi prodigi, buoni e gloriosi, tali che alcun uomo sulla terra non ne fece mai nè ne farà; licenziatelo e non gli fate alcun male. Se egli è Dio197, i suoi prodigi sussisteranno; se è uomo, saranno dissipati. Avvenne lo stesso quando Mosè, inviato di Dio in Egitto, fece dei prodigi che Dio gli aveva ordinato di fare innanzi a Faraone re d'Egitto. Vi erano Jannés e Membrés198, maghi. Essi rifecero per gl'incanti i prodigi fatti da Mosè, ma non tutti; ed i prodigi fatti per malìa, non essendo di Dio, come voi sapete, voi scribi e farisei, perirono in una a coloro che li avevano fatti ed a coloro che li avevano creduti199. Lasciate dunque andare codesto uomo, perchè i prodigi di cui lo accusate sono di Dio, ed e' non è degno di morte. I Giudei risposero a Nicodemo: Voi siete divenuto suo discepolo e parlate per lui. Nicodemo replicò: Ed il governatore è anch'egli divenuto suo discepolo? eppure, egli parla in favore di lui, egli che tiene la sua dignità da Cesare. I Giudei fremettero, intendendo queste parole, mostrarono i denti a Nicodemo e dissero: Ricevete da lui la verità ed abbiatevi il vostro possesso col Cristo. Nicodemo riprese: Sia pure così, e ch'io lo riceva come voi dite...........................
IX.
E Pilato facendo venire Nicodemo ed i dodici uomini che avevano detto che Gesù non era nato dalla fornicazione sclamò: Che farò mai, poichè si dichiara una sedizione nel popolo? E noi: Non sappiamo; che coloro che eccitano la sedizione veggano essi stessi. Pilato fece ritornar la moltitudine una seconda volta e parlò: Voi sapete che è vostro costume, il giorno degli azzimi200 che io metta in libertà un prigioniero. Ho un prigioniero insigne201 omicida, chiamato Bar Abbas, e Gesù che chiamasi Cristo nel quale non trovo alcun delitto di morte. Quali di questi due volete voi che io grazi? Tutti gridarono: Liberate Bar Abbas. E Pilato: Che farò allora di Gesù detto il Cristo? Ed essi: Che sia crocifisso. Poi gridarono di nuovo202: Pilato, voi non siete l'amico di Cesare se voi lo assolvete, perocchè egli ha detto esser figlio di Dio e re: volete voi che sia re costui e non Cesare? Allora Pilato pieno di collera sclamò: La vostra nazione è sempre stata ribelle e voi vi siete mostrati nemici a coloro che vi fecero del bene. I Giudei risposero: Chi sono coloro che si sono mostrati favorevoli a noi? E Pilato203: Il vostro Dio che vi ha tirati dalla dura schiavitù degli Egiziani.............
XI.
Il centurione, ritornando al governatore, gli riferì tutto ciò che era accaduto. E quando il governatore ebbe ciò appreso, ne fu afflitto; e riunendo tutti i Giudei in una volta disse loro: Avete voi visti i segni comparsi nel sole e tutti i prodigi avvenuti mentre Gesù moriva? I Giudei ciò udendo, risposero: L'eclissi è arrivato come di antico costume. Ora tutti queglino che lo conoscevano si tenevano di lontano, allo stesso modo che le donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea, e guardavano le cose. Ed ecco un certo uomo di Arimathie, chiamato Giuseppe204, discepolo anch'esso ma di nascosto per paura dei Giudei, eccolo venire al governatore e pregarlo di permettergli di togliere il corpo di Gesù dalla croce. Il governatore il permise. Nicodemo arrivò portando seco un miscuglio di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Essi discesero piangendo, il corpo di Gesù dalla Croce, lo avvolsero in pannolini con aromi, secondo l'uso di seppellir dei Giudei, e lo misero in un monumento nuovo che Giuseppe aveva fatto costruire tagliandolo nella pietra, ove alcun uomo non era stato mai messo. Poi rotolarono una grande pietra alla bocca della caverna.
XII.
I Giudei ingiusti, apprendendo che Nicodemo aveva dimandato e seppellito il corpo di Gesù, lo cercavano con gli altri dodici uomini, che avevano detto Gesù non esser nato dalla fornicazione, e gli altri che avevano attestato le buone opere del rabbì. Tutti si erano celati per paura, tranne Nicodemo, che si mostrò loro quando entrarono in sinagoga.......
XIII.
Come tutti ammiravano queste cose, ecco un dei soldati di guardia al sepolcro che dice nella sinagoga: Mentre noi guardavamo il monumento di Gesù, un tremuoto ha scossa la terra205 e noi abbiam visto l'angelo di Dio. Egli ha rimossa la pietra del monumento, vi si è assiso sopra, ed il suo sguardo somigliava al fulmine, le sue vestimenta sembravano neve. Noi siamo divenuti come morti di paura. E l'abbiamo udito dire alle donne, ravvicinate al sepolcro: Non temete; so che cercate Gesù crocifisso; egli è risuscitato qui come aveva predetto. Venite, osservate il sito ove l'avevano allogato, ed andate a dir subito ai suoi discepoli, ch'egli è risuscitato da morte, che vi precederà in Galilea, e che sarà quivi che lo rivedrete, come egli vi aveva promesso. I Giudei fecero venire tutti i soldati che avevano guardato la tomba di Gesù, e chiesero: Chi sono codeste donne a cui l'angelo ha parlato? Perchè non le avete arrestate? I soldati risposero: Non sappiamo chi fossero quelle donne; ma essendo noi divenuti come morti per paura dell'angelo, come potevamo arrestarle? Ed i Giudei: Pel Dio vivente, noi non vi crediamo. Ed i soldati: Voi avete udito e visto Gesù fare di sì grandi miracoli e non credeste; come potreste creder voi? Voi avete detto molto bene: Pel Dio vivente! sì, il Signore è veramente vivente. Noi abbiam saputo che avete rinchiuso Giuseppe, che aveva seppellito Gesù, rinchiuso in una camera di cui avevate suggellata la toppa, e che, aprendola, non ve lo avete più trovato. Restituiteci Giuseppe cui avete custodito in una camera e noi vi restituiremo Gesù che noi abbiamo custodito in un sepolcro. I Giudei risposero: Vi daremo Giuseppe, dateci Gesù. Giuseppe è nella sua città di Arimathia. Ed i soldati di rimando: Se Giuseppe è ad Arimathia, Gesù è in Galilea come abbiamo udito dall'angelo annunziarlo alle donne. I Giudei, udendo ciò, temettero e si dissero: Coloro che ascolteranno questi discorsi crederanno in Gesù. Essi raccolsero dunque molto danaro e dandolo ai soldati soggiunsero: Dite che come voi dormivate la notte, i discepoli di Gesù sono venuti e vi hanno rubato il corpo. E se ciò sarà raccontato a Pilato noi risponderemo per voi e vi metteremo in sicurtà. I soldati ricevendo i danari dissero ciò che i Giudei avevano ordinato ed i loro discorsi si divulgarono ovunque.
XIV.
Ora, un certo sacerdote chiamato Phinies, e Ada maestro di scuola, ed un levita per nome Agèe vennero di Galilea a Gerusalemme e dissero al principe dei sacerdoti ed a quanti erano in sinagoga: Il Gesù che avete crocifisso lo abbiamo veduto noi assiso fra i suoi undici discepoli parlar sulla montagna degli Olivi206.
Ma Annas e Caiphas consolandoli dissero: Dobbiamo noi creder forse i soldati del sepolcro di Gesù? I suoi discepoli li hanno pagati per rubare il corpo e farli dire che l'angelo aveva rimossa la pietra dal monumento. Non si deve credere in alcun modo a codesti stranieri, che hanno ricevuto da noi pure dei denari: ed han ripetuto i nostri detti. Essi sono fedeli o a noi o ai discepoli di Gesù.
FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.
- Holder of rights
- Ulrike Henny-Krahmer
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- TextGrid Repository (2024). Corpus of Italian Novels. Memorie di Giuda. Memorie di Giuda. The CLiGS textbox. Ulrike Henny-Krahmer. https://hdl.handle.net/21.11113/0000-0012-33CD-C